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Autore: Beapot    23/11/2011    5 recensioni
Ci sono 19 anni da riempire tra la fine della guerra e l'epilogo scritto dalla Rowling. Un dopoguerra non è facile neanche per i vincitori, forse soprattutto per loro. Dove si trova la forza per rinascere dalle proprie ceneri, come le fenici?
Genere: Azione, Drammatico, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Famiglia Weasley, Un po' tutti | Coppie: Harry/Ginny, Harry/Hermione, Ron/Hermione
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
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Come le Fenici

 

CAPITOLO II

 

Grimmauld Place non era mai stata una casa accogliente.
Fredda, troppo grande, troppo oscura, troppo piena di ricordi anche per me, ma è l'unica casa che ho.

«Perché non sei alla Tana?»

Ho esitato tanto a porle questa domanda, ma mentre la guardo leggere il giornale con calma forzata non riesco a trattenermi.
Lei ha un sussulto e mi guarda, quasi spaventata.
I nostri sguardi si incontrano di nuovo, comunicano, si rimproverano a vicenda per lo stesso motivo.

«Era troppo...»

Per la prima volta non riesce a trovare le parole per finire la frase, si muove a disagio sulla sedia e chiude il giornale.

«Lo sai anche tu, o non saresti qui»

All'improvviso sbotta, e riversa i suoi sensi di colpa su di me con una semplice frase.
So che ha ragione ma mi fa male lo stesso, so che lo fa per trovare una giustificazione e lascio perdere, ma il lampo di dolore che attraversa i miei occhi parla per me.

«Scusa»

E' un mormorio, abbassa di nuovo lo sguardo pentita e so che è sincera.
Non volevo che se ne accorgesse, ma ancora una volta mi sono rivelato un libro aperto per lei.

«Hanno bisogno di affrontare il loro dolore da soli»

La Tana ci aveva sempre accolto a braccia aperte.
Nessuno aveva mai fatto caso alla purezza del suo sangue o ai disagi che la mia presenza lì comportava.
Eravamo stati in un certo senso adottati, amati, accettati, eppure ora ci sentiamo quasi estranei.
Mi meraviglio mentre sento la mia voce pronunciare quelle parole, credo quasi di aver osato troppo. Ammetterlo ad alta voce significa sentirlo più vero, e non so se lei è pronta a prenderne coscienza.
Lei, sola come lo sono io.
Annuisce gravemente e stringe i denti, non vuole pensare al motivo per cui tutti soffrono, non vuole scoppiare di nuovo in lacrime perché i suoi occhi gonfi potrebbero non sopportarlo.
La verità è che ho ragione, e lo sappiamo entrambi.
La Tana non è più la dimora calda e familiare che ci ha accolto per anni.
Persino con l'ansia della guerra era più vivibile di ora.
Non c'è giorno in cui Molly non scoppi in lacrime, o in cui non si senta la mancanza di una frase pronunciata all'unisono.
Ginny è forte, è dura, è orgogliosa.
So che lei non piange, ma il suo dolore è troppo grande per essere alleviato.
Troppo grande anche per essere diviso.
Ho provato a starle vicino, ero così abituato a perdere persone importanti che per qualche giorno ho messo da parte le lacrime per far spazio alle sue, ma il mio abbraccio non bastava e sono crollato anche io.
Ripenso al funerale di qualche giorno fa.
Che senso ha un così grande dolore dopo la vittoria e la libertà?
Era ingiusto, sbagliato, eppure i vuoti che sono stati lasciati sono troppi.

***

 

Il parco di Hogwarts era silenzioso e le macerie del Castello ancora schiacciavano l'erba.
Nella quiete di quel giorno potevo sentire ancora l'eco delle esplosioni e delle urla di dolore dei combattenti.
Maledizioni scagliate con rabbia e con paura, voglia di continuare a vivere e non arrendersi.
Le persone continuavano ad arrivare nel parco, feriti fisicamente e distrutti nel cuore.
La famiglia Weasley era riunita attorno a una bara bianca, troppo innocente per trovarsi lì.
I singhiozzi di Molly arrivavano fino a me, George non riusciva quasi a muoversi e stava immobile lì davanti.
Ho visto Ron stringere i pugni fino a conficcarsi le unghie nei palmi, mentre lacrime silenziose gli scivolavano dagli occhi stanchi.
Anche Ginny era immobile, ma ovviamente lei non piangeva.
Abbracciava la mamma e i fratelli per dare conforto, piccoli contatti di cui ognuno di loro aveva bisogno.
Avrei voluto avvicinarmi anche io e dare l'ultimo saluto a Fred, avrei voluto far sentire la mia vicinanza a tutti loro, ma l'intimità del loro dolore mi era sembrata così forte da non poterla violare.
Poco lontano da me avevo scorto Hermione.
Anche lei aveva il mio stesso sguardo mentre li osservava, sapevo che anche lei stava pensando le mie stesse cose.
Le ho fatto un cenno di saluto e mi sono voltato, camminando verso altre due bare chiare che ferivano il mio cuore.
La sofferenza si è fatta più grande quando ho visto che vicino a loro non c'era nessuno, se non una donna con un bambino troppo piccolo in braccio.
Mi sono avvicinato in silenzio, ma quasi di corsa per colmare quel vuoto, e le ho raggiunte mentre vedevi il sorriso stanco di Remus spegnersi sotto la superficie lucida del legno.

«Mi dispiace»

Avevo sussurrato nell'orecchio della donna facendo sussultare il bambino.
Quelle due parole che avevo ripetuto così tante volte stringendo mani sconosciute, ora erano sincere e dolorose.
Andromeda si era voltata a guardarmi senza curarsi di nascondere le lacrime.
Quel giorno il dolore era ammesso senza limiti.
Mi ha guardato con sguardo indecifrabile, dapprima arrabbiato, come se volesse incolparmi di tutto, poi si era trasformato in compassione e dispiacere.

«Avrei dovuto fermarli io»

«Non ci sarebbe riuscita»

Ho tentato di rassicurarla anche se non la conoscevo, volevo darle un conforto perché conoscevo la sua sofferenza.
Andromeda aveva alzato di nuovo lo sguardo su di me, ma questa volta lo aveva riempito di gratitudine e riconoscenza.
Aveva allungato le braccia verso di me, porgendomi il bambino.

«Lui è Ted»

Non avrei certo avuto bisogno di quella spiegazione, ma le ho rivolto un sorriso triste e ho accolto il piccolo tra le mie braccia.

 

***

 

Maledetta guerra, che crea orfani e distrugge famiglie, che sparge distruzione e sofferenza. Maledetta guerra, vinta a un prezzo troppo caro.

«Ho detto che sarei partita»

La sua voce mi riscuote dai ricordi e mi chiedo per quanto tempo il mio sguardo deve esserle sembrato vacuo.
Mi lego di nuovo alla conversazione e annuisco comprensivo.

«Io non ho detto niente»

Ammetto sentendomi un po' in colpa.
L'ultima cosa che volevo era causar loro qualche preoccupazione, perciò ho pensato bene di sparire senza una spiegazione.
In questo momento mi do dell'idiota.

«Ho detto anche che saresti venuto con me»

Mi ha salvato ancora una volta, trovando la forza per difenderci entrambi.
La guardo cercando di trasmetterle con uno sguardo tutta la mia gratitudine, poi ricorro di nuovo a quella semplice parola.

«Grazie»

Mi sorride, e questa volta non c'è tristezza o dolore, ma solo complicità.
Forse insieme ci ritroveremo.
Forse.

«Mi sento in colpa»

All'improvviso si rabbuia e torna seria.
Abbassa di nuovo lo sguardo e si morde il labbro inferiore.
Faccio ancora fatica a comprenderla, non può dare voce ai miei pensieri.
Non proprio a quello, almeno.
Non lei che ha rischiato quanto loro quando poteva tirarsi indietro e salvarsi.
Voglio ribattere, mi da quasi fastidio che voglia far suo anche quel mio dolore.

«Non in quel senso»

Si sente in dovere di specificare perché si è accorta della mia reazione.
Continuo a rimanere un libro aperto e mi detesto per quello, perché non voglio neanche ferirla con un'emozione troppo impulsiva.

«E neanche tu dovresti, lo sai»

E' quasi un rimprovero, perché ha continuato a ripeterlo dal primo giorno che ha deciso di stare al mio fianco e io non l'ho mai capito.
Resto immobile e aspetto che lei continui a parlare.

«Dovremmo star loro vicino, ci hanno sempre dato tutto»

Lo dice.
So che ha ragione, mi sono solo rifiutato di ammetterlo a me stesso perché mi faceva troppa paura. Ero quasi contento quando mi sono costretto a lasciarli.

«Stai parlando di tutti o solo di Ron e Ginny?»

C'è ancora paura nella mia voce, paura della sua risposta e della mia reazione.
Paura di avere una consapevolezza che non voglio.

«Di loro»

La risposta è immediata, criptica e secca.
Non ammette repliche ma si aspetta di essere compresa, e non sono certo io a poterla deludere.

«Non ci riesco»

Ormai ammetto tutto, perché lei è qui davanti a me e non mi giudica.
Non l'ha mai fatto.
Lei, d'altra parte, è qui per la stessa ragione.

«Nemmeno io»

Sospira e si prende la testa tra le mani, appoggiandosi allo schienale.
È così sola e indifesa.
È così simile a me.

«Pensavo che una volta finita saremmo stati bene»

Una confessione, un'illusione che mi sono ripetuto nel buio della mia stanza per giorni.
Sento il bisogno di condividerla, come se potesse aiutarmi a liberarmene.

«Lo so»

Non si sorprende, lei.
Riesce a guardarmi, a leggermi, a capirmi, e non si fa sorprendere dalle mie parole.
Le accoglie, le abbraccia, le comprende fino a farle sue.

«La pace deve essere ben più dell'assenza della guerra»**

Lo dice con semplicità, con coscienza.
Parla credendo davvero nelle parole citate da chissà chi, sapendo che raccontano la verità che in fondo conosciamo entrambi.
Annuisco.

«La troveremo mai?»

Una domanda disperata di cui temo la risposta, una domanda che devo fare a tutti i costi per essere rassicurato.
Mi osserva con uno strano sguardo.
Comunica tenerezza, dispiacere, ignoranza.
Trasmette la voglia di urlare Sì! al mondo intero per trovare la serenità in fondo a tanta disperazione, ma quel semplice monosillabo non arriva alle sue labbra.

«Non lo so»

Ammette con lo stesso dolore che ha nello sguardo, e io mi sento sprofondare perché speravo di essere salvato ancora una volta.
Restiamo in silenzio perché adesso parlare fa male, adesso parlare vuol dire soffrire, e sappiamo di non essere forti abbastanza.

«Ce la faremo»

Lo dico perché voglio che sia così e non riesco a pensare al peggio.
Sempre che poi il peggio non lo stiamo già vivendo.
Lo dico perché ho bisogno che sia vero, e ho bisogno che lo sappia anche lei.

«Vuoi partire davvero?»

Annuisce piano ma so che ne è convinta.
So dove vuole andare, e dentro di me sono felice per lei.
Almeno ha qualcosa da aggiustare, qualcosa da aiutare per essere aiutata.

«Vengo con te»

Mi guarda leggermente sorpresa e mi regala quel suo sorriso che mi fa sentire piccolo davanti a lei. Quel sorriso che tante volte mi ha detto che c'erano cose che non capivo.
Un sorriso che è quasi di compassione per la mia ingenuità.

«Credo che tu abbia frainteso, Harry»

Parole di nuovo superflue, perché la sua espressione era più che eloquente.
La guardo in attesa, perché parlare mi farebbe solo perdere tempo.

«Sarò io ad accompagnare te»

Il sorriso non è più compassionevole, ma solidale.
Emana una luce che mi viene incontro e mi riscalda, mi fa capire che sarà al mio fianco.
Mi dice che sa che troveremo la pace dopo la guerra, sa che troveremo finalmente la serenità.
Sa che lo faremo, perché saremo insieme.
Perché siamo entrambi soli, e aggrapparci l'uno all'altra è l'unica speranza per farcela.
Non ho davvero capito le sue parole, ma mi fido come ho sempre fatto e afferro la sua mano, lasciandomi guidare.

 

***

 

**2 - Helmut Kohl

   
 
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