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Autore: Evelyn    26/11/2011    2 recensioni
"Rivolse un ultimo sguardo ad Hilda, alla donna che amava, mentre il suo cuore perdeva un battito come ogni volta che poteva ammirarla. Sulle sue labbra tirate e pallide si stendeva un cupo sorriso, privo di calore. Come di trionfo." Ho sempre desiderato approfondire questa parte della storia dal punto di vista, per così dire, sentimentale. Sullo sfondo della guerra, amori che s'intrecciano, che nascono e che muoiono. Hyoga/Flare, Hilda/Sigfried, Hagen/Flare
Genere: Drammatico, Guerra, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Cygnus Hyoga, Un po' tutti
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 6




“Hai visto Flare?!”
Hilda aveva fatto irruzione nella stanza di Sigfried abbigliata come se fosse pronta ad andare in battaglia. Il suo torace minuto era fasciato da un corpetto nero allacciato sul davanti e, al posto delle lunghe vesti che era solita portare, le sue gambe erano avvolte da pantaloni molto stretti, neri anch’essi, che ne evidenziavano generosamente le forme attraenti. Il cavaliere del Drago si sentì avvampare di gelosia, immaginando fin troppo vividamente quali potessero essere stati i pensieri lascivi degli uomini che avevano avuto già l’occasione di ammirarla così.
“Ma sei impazzita??” le gridò quasi trascinandola dentro per un braccio e chiudendo la porta con un calcio.
“Ti sembra il modo di vestirsi??”

Hilda lo fissò incredula, la bocca un poco schiusa, come per dire qualcosa. Si divincolò prontamente, indirizzandogli un’occhiata piena di livore.
“Non ti permettere mai più di trattarmi in questo modo” sibilò tra i denti “Non dimenticare mai chi sono io…e chi sei tu.” sputò infine, affilando le parole come tanti piccoli coltelli.

Sigfried si paralizzò, puntando i piedi sul morbido tappeto di pelo che decorava la sua camera. Mai in tanti anni che si conoscevano Hilda gli aveva fatto pesare la differenza di rango che li separava come aveva appena fatto, guardandolo quasi con disprezzo. Per lei, il fatto che in fondo fosse un suo sottoposto, un semplice soldato a cui impartire ordini per il bene di Asgard, non era mai stato un motivo valido per mettersi al di sopra dell’amore e del rispetto che li teneva uniti. Quell’aperta manifestazione di status, per Sigfried era equivalsa ad una dolorosa offesa. 

D’istinto riconsiderò le preoccupazioni che Flare gli aveva manifestato più di una volta, l’espressione angosciata con cui l’aveva guardato, gli occhi verdissimi velati di sconforto. C’era qualcosa di profondamente sbagliato in tutto questo. Qualcosa che gli ricordava i tempi di complotti e intricate macchinazioni bisbigliate di sfuggita dietro agli angoli bui del palazzo. Allora Dhor, il celebrante di Odino, fratello del re, aveva tentato di scavalcare i regnanti per ottenere il governo di Asgard, facendo affidamento su una fitta rete di traditori che era stato capace di mettere insieme con la promessa di straordinarie ricchezze. Ricordava ancora l’atmosfera tesa che impregnava le mura del castello come un gas, espandendosi rapidamente senza lasciare tracce tangibili, odori. 

“Hai visto mia sorella?” domandò lei di nuovo come se niente fosse, studiandolo con i suoi occhi da gatta, chiarissimi.
“No.” rispose lui secco.
Quando Dhor aveva messo in pericolo il regno, Sigfried era troppo giovane e ingenuo per vedere da solo il cancro della cospirazione proliferare incontrollato, ma aveva il dono, la preveggenza che Fafnir gli aveva concesso scivolandogli nelle viscere attraverso la gola, insieme alle carni dolci del suo cuore. Strinse i pugni, ferendosi involontariamente i palmi. La perdita di quella virtù era stata per lui come la morte di una persona cara, di cui ancora portava il lutto.

“Sigfried, ti prego di perdonarmi se sono stata troppo brusca…” sospirò la regina massaggiandosi l’attaccatura del naso tra l’indice e il pollice. Alla luce del fuoco il suo volto appariva pallido ed emaciato, come afflitto da gravi tormenti.
“Flare non si trova da nessuna parte…”
“Tua sorella è abbastanza grande da sapere da sola cosa fare del suo tempo, forse è andata a Grönnik per fare compre…” propose lui non  vedendo il motivo di tanta agitazione.
Hilda piegò appena le labbra, come se volesse dire qualcosa ma avesse il timore di farlo. Per un istante, al giovane guerriero apparve proprio come un tempo, bellissima, forte e fragile insieme, troppo acerba per sostenere da sola il peso del regno. Forse era stato troppo precipitoso a giudicarla male. L’abbracciò d’istinto, percependo sotto di sé la fragilità di quel corpo sottile come un giunco, che si sarebbe potuto spezzare in un sol colpo. Avrebbe dovuto proteggerla, pensò con un po’ d’amarezza, non prendermela perché è nervosa in una situazione che palesemente non sa gestire. Lei gli si aggrappò alle spalle, ricambiando con intensità la sua stretta.

“Il prigioniero è scappato…” disse all’improvviso in un soffio.
Sigfried si staccò bruscamente da lei, per guardarla negli occhi.
“Quale prigioniero?”
Hilda non rispose subito. “Le guardie hanno trovato un ragazzo al di fuori delle mura che spiava il palazzo. Forse è un nemico…se ne è occupato Thor.” rivelò infine riluttante.
“E perché io non ne sapevo niente?”
“Perché non era importante…”
“Un nemico rischia di penetrare a palazzo e tu mi vieni a dire che non è importante??”
La giovane regina parve arretrare di fronte all’improvviso innalzamento di tono del compagno. Sigfried odiava essere tenuto in disparte, lei lo sapeva bene, in una certa misura era come infilare il dito nella piaga della perdita del dono di Fafnir. Il dono che lui aveva perso per lei.

“Convoco gli altri cavalieri.” disse il cavaliere del Drago facendo per uscire dalla stanza. Indugiò qualche secondo sullo stipite, come se attendesse un segnale. Hilda non replicò, rimanendo inchiodata al posto. Sigfried, senza aggiungere altro, imboccò il corridoio, percorrendo ad ampie falcate la strada verso la sala grande.

***
“Possibile che in tre non siate stati capaci di fare la guardia a un solo uomo??”
“Signore, noi crediamo che…”
“Sta zitto! Non voglio vedere le vostre stupide facce un secondo di più! Fuori!”

Sigfried aveva perso il senno. I soldati addetti alla custodia delle prigioni sotterranee non erano stati in grado di sorvegliare il solo ospite delle segrete di palazzo, sebbene con molta probabilità si trattasse di uno dei cavalieri di Atena, guerrieri di straordinaria forza a cui senza dubbio non avrebbero saputo far fronte. Non poteva credere che il nemico fosse riuscito a penetrare indisturbato le spesse mura del castello, arrivando persino al di sotto della cinta fortificata esterna. Forse avevano sottovalutato la difficoltà dell’impresa che avevano iniziato, un’impresa che ora, alla luce dei nuovi fatti, gli appariva non troppo dissimile da una follia.

Si passò stancamente una mano sul volto, stropicciando con forza gli occhi chiusi. Era in momenti come questi che sentiva il peso della perdita del dono di Fafnir, un dono prezioso di cui aveva apprezzato il valore solo nel momento in cui gli era stato sottratto. Con la dote della preveggenza, Sigfried a quest’ora avrebbe saputo come affrontare la battaglia, dove fosse finita Flare e cosa dovesse realmente pensare di Hilda. Nonostante i suoi occhi liquidi riuscissero sempre a riportarlo dalla sua parte, qualcosa nel suo atteggiamento, assieme alle preoccupazioni manifestate dalla principessa e i fumi di Vagal, continuava a tormentarlo e non convincerlo del tutto.

“Chiedo il permesso di andare io stesso a cercare la principessa, mia regina.”

Hagen, il cavaliere di Artax, già vestito con la sua scintillante armatura divina, si era rivolto direttamente ad Hilda. La regina però non rispose, l’attenzione concentrata sui grossi fiocchi di neve che cadevano fitti fuori dalla finestra.
“Ho già mandato dei soldati a cercarla fuori. Se è stato il prigioniero a rapirla, non possono essere andati troppo lontani nelle condizioni in cui era. E poi tra poco farà sera…” rispose Thor avvicinandosi al camino. Lunghe lingue brillanti lambivano la legna facendola crepitare, riscaldando appena il vasto ambiente in cui si trovavano.

Sigfried rabbrividì al pensiero di cosa sarebbe accaduto a Flare se avesse trascorso fuori la notte. Forse il rapitore avrebbe avuto qualche chance di sopravvivenza se avesse fatto affidamento al calore del cosmo, ma per la giovane fanciulla non ci sarebbe stata alcuna possibilità. Il clima di Asgard era insopportabile dopo una certa ora del pomeriggio, costringendo ogni essere vivente che vi abitava a rifugiarsi nella propria casa o nella propria tana.
“Da quanto sono fuori i tuoi soldati?” chiese Hagen a Thor, la voce incrinata dalla preoccupazione.
“Da un paio d’ore…”
“Dovrebbero essere già qui…”

Le parole del cavaliere di Artax furono profetiche. Annunciati dall’inserviente personale della regina, sette uomini piuttosto malconci fecero il loro ingresso a testa bassa, nascondendo il timore di una punizione dietro un’espressione affranta e mortificata.
“Mia regina…” dissero quasi in coro. Due di loro erano sorretti dagli altri, le gambe trascinate sul pavimento come due pezzi inerti di carne. Il naso di uno perdeva ancora sangue, un fiotto continuo di liquido denso e scuro che il soldato cercava timidamente di tamponare con il dorso del braccio.
Sigfried sospirò, sempre più convinto che tutta quella storia fosse pura pazzia.

Hilda si voltò piano, con occhi innaturalmente sgranati. Nel suo sguardo c’era qualcosa d’insano, alienato, come se un flash le avesse colpito le pupille a tradimento.
“Dov’è mia sorella?”
“Mia regina…abbiamo tentato, lo giuro, ma quello era fortissimo…è stato un miracolo che siamo ancora vivi…”
Un pensiero comune attraversò la mente di tutti: si trattava di un cavaliere di Atena, ormai non c’era più alcun dubbio.
“Dov’è mia sorella?” ripeté lentamente la regina, avvicinandosi piano verso i suoi interlocutori, costringendoli ad arretrare.

“Ci sono sfuggiti, mia Signora…” s’affrettò a rispondere quello più ardito, evidentemente il loro capo, battendo i denti come un bambino infreddolito.
“Ma sappiamo per certo dove erano diretti…”

***
Hyoga non riusciva a prendere sonno. Accanto a lui, Seiya russava come una tramoggia, facendo alzare ed abbassare le pesanti coperte che lo tenevano al caldo a ritmo cadenzato. Pure Shun sembrava addormentato, anche se il suo respiro regolare aveva davvero poco in comune con quello del cavaliere di Pegasus. Un bagliore sottile catturò la sua attenzione all’angolo della stanza. L’armatura del Cigno giaceva assieme alle altre pronta per essere indossata. La sentiva quasi fremere al di sotto dello scrigno che la custodiva, pronta alla lotta e al sangue.

“Non lo so …a volte penso che non è giusto…insomma….rischiare la vita…”
Per un istante gli tornarono alla mente le parole di Erii, il suo sguardo accorato mentre lui si rivestiva e la lasciava con un bacio sulla fronte, pregandola di non stare in pena per lui. Si rese conto che in tutto quel tempo non aveva pensato a lei neppure un secondo. Allora gli risuonarono nelle orecchie le tacite accuse che gli aveva rivolto prima che partisse.

Con un gesto secco scostò le coperte e si alzò. Il pavimento di legno scricchiolava sotto ai suoi piedi, facendolo sussultare ad ogni passo. Passò davanti alla stanza di Isabel e si chiese se Flare stesse dormendo. Flare. Quanto gli era bastato per chiamarla semplicemente Flare? Si erano conosciuti solo qualche giorno prima, ma a Hyoga sembrava di condividere con lei molto più di quanto avesse mai condiviso con nessun’altra. La ricordò come l’aveva vista al rifugio, con gli occhi che le si chiudevano per la stanchezza e le mani infreddolite per il gelo. In quell’occasione, lui le aveva raccontato molte cose di sé, molte cose che non avrebbe mai ritenuto davvero possibile rivelare a qualcuno, nemmeno ad Erii, nonostante lei avesse più volte tentato di cavargli una parola, un dettaglio, un pezzettino di sé che mai aveva voluto spartire con lei.  

Si fermò alla fine del corridoio, dove una piccola finestra lasciava intravedere l’inquietante profilo notturno di Asgard: vento talmente gelido da apparire solido scuoteva con prepotenza le alte chiome dei numerosi pini che circondavano Grönnik, proiettando sulla neve lunghe ombre, inquiete. Viste così, le terre tanto amate dalla principessa Flare non si presentavano affatto incantevoli e poetiche come gli erano apparse di giorno. La notte conferiva loro un aspetto minaccioso, angusto. Uno scenario molto diverso da quello della Siberia. Lì, l’oscurità si rifletteva sui ghiacci in bagliori azzurrini, facendo apparire l’infinita distesa del pack quasi un oceano sereno, un’immagine familiare che era in grado di rassicurarlo come una carezza leggera sulla guancia.

“Non riesci a dormire?”
Shun si materializzò alle sue spalle silenzioso come un gatto, cogliendolo distratto e impreparato.
“Neppure tu…” constatò squadrandolo preoccupato. Il cavaliere di Andromeda sembrava persino più fragile di come era avvezzo a vederlo, così addobbato nel pigiama di pile con i pinguini disegnati. Lui, tra tutti, era forse quello che aveva maggiormente conservato un qualcosa della loro infanzia che gli altri avevano dismesso ormai da molto tempo. Faceva quasi tenerezza così.
“Ho paura Hyoga…” rivelò d’un soffio avvicinandosi per guardare anche lui fuori.
Hyoga gli fece posto, permettendogli di appoggiarsi con i gomiti sulla soglia della finestra. Anche io, pensò osservandolo di sottecchi, ma non glielo disse.

“Questa battaglia è strana…”
“Quale non lo è?”
Shun lo guardò con occhi liquidi e tristi.
“Sarà che stavolta non ho proprio voglia di combattere…ad ogni scontro mi sembra sempre di perdere qualcosa…”
Hyoga non replicò. I lineamenti del suo viso si erano fatti improvvisamente duri, come contratti da angosciosi pensieri.
“Tutti perdiamo qualcosa in guerra…anche quando vinciamo, alla fine ne usciamo sempre sconfitti…” disse infine con voce spezzata, pensando a Camus, al modo stupido e atroce in cui era voluto morire, alla voragine buia che gli aveva lasciato dentro.

Shun si mosse a disagio, indeciso se portare a compimento il gesto di conforto che gli si era profilato nella testa. Sebbene si conoscessero da tanto e per lui fosse come un fratello, Hyoga aveva un che di scostante e distaccato che lo disorientava, costringendolo sempre a pensarci bene prima di fare o dire qualcosa di troppo diretto. Delicatamente posò una mano sulla spalla dell’amico, premendo un poco come per far sentire la sua comprensione, la sua presenza.
“Scusami, Hyoga. Sono uno scemo…”
“Scusa per cosa?” chiese lui cercando di liquidare lì la discussione, spaventato all’idea di toccare quel tasto che tanto faticava a celare nell’oblio.
“Per non aver pensato che tu hai perso molto più di tutti noi…” spiegò Shun timidamente, gesticolando nervoso con le mani. “Però vorrei dirti che, per quanto possa valere, io ci sono, per qualsiasi cosa, sul serio…”

Hyoga non rispose, continuando a guardare distrattamente fuori dalla finestra. Il vento sembrava essersi placato, le cime degli alberi ben salde sui loro spessi tronchi, la neve soffice ovunque, persa tra la fitta coltre della foresta. Dentro di lui la tempesta era invece appena cominciata, portandogli furiosamente davanti agli occhi immagini dolorose che non poteva dimenticare.

  
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