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Autore: Evelyn    04/12/2011    3 recensioni
"Rivolse un ultimo sguardo ad Hilda, alla donna che amava, mentre il suo cuore perdeva un battito come ogni volta che poteva ammirarla. Sulle sue labbra tirate e pallide si stendeva un cupo sorriso, privo di calore. Come di trionfo." Ho sempre desiderato approfondire questa parte della storia dal punto di vista, per così dire, sentimentale. Sullo sfondo della guerra, amori che s'intrecciano, che nascono e che muoiono. Hyoga/Flare, Hilda/Sigfried, Hagen/Flare
Genere: Drammatico, Guerra, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Cygnus Hyoga, Un po' tutti
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 8




Sigfried aveva ricevuto l’armatura divina forgiata sotto la protezione della cintura celeste di Orione. Era una costellazione potente, la sua, un fascio di luminose stelle che gli conferivano poteri sorprendenti e spaventosi. Suo padre Reginn era stato chiaro su questo punto: un sacro guerriero di Odino ha in dono la forza del cosmo per difendere il Regno e le famiglie che vi abitano, non certo per sciocchi scopi personali. E quando gliel’aveva detto i suoi occhi chiari e profondi avevano brillato lucidi, di un orgoglio acceso e vibrante.

Assieme a lui erano stati investiti altri giovani cavalieri, perlopiù di nobile famiglia come la sua, ma di questi Sigfried conosceva discretamente solo Alberich, il rampollo di una delle casate più in vista di Asgard. Lo ricordava una persona cortese, dai modi affabili, anche se forse troppo melliflui, con la voce sottile e suadente, dall’aspetto perbene che spesso gli esponenti di un certo rango tenevano più di tutto ad avere. Una persona poco dissimile da quella che adesso aveva di fronte. Alberich dell’antico lignaggio di Ek Strömvik, oggi cavaliere di Megrez, non era affatto cambiato dai tempi in cui, bambini, si scambiavano feroci palle di neve nel bosco.

“Buongiorno, sacro guerriero di Orion.” lo salutò con un sorriso gentile, appena accennato.
“Buongiorno a te, cavaliere di Megrez. Anche tu qui per i festeggiamenti?”
Alberich per un istante parve abbassare nervosamente lo sguardo, ma fu solo nel breve spazio di un battito di ciglia.
“La mia famiglia è la custode di Beslöja, come potremmo mancare proprio noi?” osservò apparentemente senza malizia, ma Sigfried colse in quelle parole dall’accento molto duro come una strana nota di risentimento. Curioso quel ragazzo, pensò stringendosi negli omeri. Un corvo nero sorvolò le loro teste, scivolando silenzioso nell’aria fredda e densa di brina.
“Deve essere un’emozione grandissima per voi…mio padre mi ha detto che era più di un secolo che non si assisteva all’ordinazione di una sacerdotessa…
“Esattamente. Per ben tre generazioni il nostro regno ha visto nascere solo primogeniti maschi, futuri re di Asgard, e per tutto questo tempo la stirpe di Ek Strömvik ha conservato Beslöja con la massima cura…fino a questo giorno.”

Quante parole altisonanti, così rigonfie di magnificenza da sembrare quasi parte di un rituale sacro, mistico. Gli occhi verdissimi di Alberich mandavano sinistri bagliori lucenti, riflettendo fastidiosamente la luce azzurrina del mattino. Sigfried sorrise, senza sapere bene perché.
“Allora ci vedremo durante la cerimonia.” lo salutò, porgendogli la mano per congedarsi. Alberich esitò. Fece trascorrere qualche secondo prima di ricambiare la stretta. Le sue dita erano lunghe ed esili, ben più adatte al ricamo che alla battaglia, piccolo stronzetto, considerò il cavaliere di Orion mentalmente, rivolgendogli un ultimo sorriso di circostanza.

Asgard era in pieno fermento. Migliaia di partecipanti erano giunti a flotte per assistere al grande evento, persone di tutte le età raggruppate come macchie ad ogni angolo della piccola città fortezza. Il palazzo dei regnanti, da circa un ventennio Jan-Åke Olle Ragnvald del casato di Polaris e Sinikka Rosa del casato di Sjöberg, si ergeva maestoso su un pendio affusolato, circondato da una foresta fitta e scura, disposta quasi ad anello tutt’attorno. Spesse mura sorvegliate lo difendevano, impedendo a chiunque di entrarvi senza permesso. Dentro vi abitavano il re e la regina, le loro figlie, la servitù e l’intero esercito. Le famiglie più in vista avevano il privilegio di costruire le proprie dimore poco appena fuori dalla seconda cinta muraria, in tutto ve ne erano tre, ma la restante popolazione viveva a qualche miglio da lì, vicina alle città più moderne e confortevoli.

Sigfried percorse il poco spazio che lo dividevano da suo padre ad ampie falcate, lasciando sulla neve profonde impronte avvallate. Reginn quando lo vide lo afferrò saldamente per le spalle e lo spinse con un colpo bonario dentro la cerchia accalcata di amici con cui stava discutendo gli ultimi dettagli della cerimonia.
“Ecco un sacro guerriero di Odino tra noi!” esclamò, mostrando una chiostra di denti opacizzata dal fumo della pipa che teneva costantemente sulle labbra. Fece due piccoli sbuffi di fumo, guardando il figlio che adorava con commossa intensità.
“Padre e amici di mio padre, salve a voi tutti!”
“Un boccale di birra Sig?” gli fece Otto, attendente di Reginn da numerosi anni ormai.
“No, grazie, non vado pazzo per la birra…”
“Già, dimenticavo, tu vai pazzo per la principessa!” scherzò quello ingollando una grossa sorsata direttamente dalla brocca.

Sigfried vide il padre incupirsi. La sua bocca era serrata sulla scura pipa di legno, che emetteva ad intermittenza tanti piccoli nervosi sbuffi di fumo biancastro.
“Vengo appena da un interessante incontro con un Ek Strömvik…” rivelò strofinandosi le mani per il freddo.
“Alberich?”
“Già, proprio lui…”
“Ha più puzza sotto il naso quel presuntuoso che le latrine dei mie cessi!” rumoreggiò un soldato prima di ruttare con soddisfazione.
“Stai parlando di un sacro guerriero di Odino, stupido cafone!”
Reginn gli mollò un manrovescio sulla nuca, serio. Per lui, la carica che suo figlio occupava con tanta disinvoltura era un onore senza eguali.
“Ha parlato di una certa Beslöja…io non sapevo cosa volesse dire, ma ho finto di sì per non fare la figura dello scemo…non so, sembrava così importante…”

Gli uomini di suo padre azzittirono di colpo. C’era un qualcosa di profondamente sacrale negli antichi cerimoniali di Asgard, qualcosa che proveniva direttamente dall’alto, solenne e delicato come una goccia di cristallo.
“Beslöja…” ripeté Otto, lo sguardo concentrato sulla punta degli stivali.
“Così ha detto.”
“Il velo della sposa.”
Reginn si era tolto la pipa dalle labbra. I suoi occhi azzurri si erano fatti più scuri.
“Beslöja è il velo con cui la principessa Hilda verrà ordinata Suprema Vestale, da cui trarrà il potere per connettersi con le forze della natura, promettendo in cambio la sua devozione.” spiegò infine riprendendo a fumare convulsamente.
“E la sua verginità…” aggiunse Otto rivolto a Sigfried. Il cavaliere di Orion arrossì.

“Ma Asgard ha già un sacerdote…” chiese poi, ancora rosso di imbarazzo. Non erano state poche le volte che aveva plasmato nella sua mente pensieri cupidi nei confronti di Hilda di Polaris, involontarie immagini del suo corpo ben fatto, del seno generoso, delle curve morbide delle natiche. Forse era l’adolescenza che gli faceva questi brutti scherzi, ma la principessa era divenuta ormai protagonista di tutti i suoi sogni più licenziosi.
“Una vestale non è un semplice sacerdote. Un sacerdote è qualcuno che ha studiato a fondo i testi sacri, imparando a connettersi con la natura per pregare Odino di mantenere inalterato l’equilibrio dei ghiacci. La Vestale è invece colei che, grazie a Beslöja, donato ai primi regnanti dal Dio stesso, può parlare direttamente con lui, in un legame assolutamente privilegiato.”

Quando la cerimonia iniziò, a Sigfried risuonavano ancora nella testa le parole solenni con cui il padre gli aveva spiegato del velo della sposa, di cosa stava per diventare la ragazza di cui si era ciecamente invaghito. Il suo era un amore senza speranze, lo sapeva bene. Hilda era la principessa di Asgard, una regnante, una fanciulla bellissima che avrebbe potuto avere chiunque ai suoi piedi in virtù delle sue splendide grazie. Lui invece era solo un modesto guerriero, certamente dalla lucida e potente armatura, forte, quasi invincibile, ma pur sempre solo un soldato.

Dhor, il Sacerdote celebrante del culto di Odino, era apparso tra la folla nella sua lunga veste d’argento, con i bordi color porpora e il mantello di pelliccia scura. Alla mano sinistra stringeva un bastone dorato, intarsiato di pietre preziose. Il suo volto rugoso sembrava ancora più vecchio, con profondi solchi scavati nella pelle smagrita, il naso adunco e folte sopracciglia inquiete.
Dietro di lui, accompagnata da delicate fanciulle vestite di bianco, veniva lei, bellissima, con lo sguardo pudico a terra, si muoveva con piccoli passi quasi impercettibili. Per un istante i suoi occhi chiarissimi incrociarono la sua attenzione, cogliendolo di sorpresa. Sigfried sentì la bocca asciugarsi ed uno strano turbamento scuotergli le viscere.

“Io, umile servitore indegno di questo privilegio, prego te, sommo Odino, protettore di Asgard, custode dei ghiacci eterni, colonna delle terre del Nord…”
Parole. Parole grandiose scivolavano rapide dalle labbra del vecchio sacerdote, srotolandosi come un tappeto erboso sui nudi piedi della principessa, immobile come una statua, pronta a ricevere Beslöja sul capo e chiudere per sempre al mondo occhi spalancati di timore. Canti, lacrime di regina, Sinikka Rosa socchiudeva le palpebre e soffocava il pianto nella gola, lei che era stata costretta a sposare un uomo che non amava, ad andare incontro ad un destino che non era stata lei a scegliere. Come Hilda. Che avrebbe rinunciato all’amore per diventare fedele prigioniera dei ghiacci. Sinikka Rosa aveva fallito, lo sapeva bene, perché quando sua figlia era nata si era giurata che avrebbe fatto di tutto purché fosse salvaguardata da una sorte imposta. Al suo fianco il Re non batteva ciglio. Dritto e rigido, col volto severo, quasi si confondeva col simulacro di Odino che si ergeva terrificante alle sue spalle.

Un velo pesante, ricco di innumerevoli lustrini brillanti, cadde come una scure sul collo bianco della principessa. La folla sussultò, liberando un mormorio continuo che dal suolo si innalzò presto verso l’alto, verso il cielo accecante che li guardava dal di sopra inespressivo e muto, come sempre.
Una lacrima sfuggì silenziosa dai suoi occhi languidi e assieme alla sua quella grossa e rotonda di Sigfried, che, commosso, si affrettò a ripulirla via col dorso della sua mano forte. C’era un qualcosa di vibrante e potente in quello che stava accadendo, qualcosa capace di togliere il fiato a chiunque quel giorno avesse avuto il privilegio di assistervi. Il palmo di Odino era sceso sulle loro teste, imprimendovi il segno della sua presenza.

Hilda si voltò verso il popolo, candida come un fiocco di neve, pallida e stremata, Beslöja sui lunghi capelli biondissimi. La sua figura aggraziata sembrava quasi appartenere ad un altro mondo, ad un'altra dimensione. Gli occhi, le labbra, le guance tornite, il ventre. Ogni cosa era ormai inviolabile proprietà della divinità insensibile che li proteggeva.

Sigfried si portò la mano destra al petto, la mano della spada, la mano dei giuramenti. Avrebbe servito Asgard per sempre, fedele al Regno e ai regnanti, condividendo con lei, se non altro, l’amore per quelle gelide terre.

***

Erii sfogliava un vecchio album di fotografie, un po’ logoro sulle bordature, consunto. Gliel’aveva regalato suor Celeste quando aveva messo piede nell’orfanotrofio la prima volta, quando abbigliata come un ragazzo, i capelli cortissimi e i pantaloni della tuta scuri, aveva calcato con disperazione il lucido linoleum del bianco edificio, imponente.

Ormai troppo grande per essere adottata, sola al mondo dopo la morte improvvisa dei suoi genitori, la bella fanciulla dagli occhi di cerbiatto, così la chiamava Miho prendendola in giro per gli sguardi liquidi e trasognati che indirizzava sempre a Hyoga ogni volta che aveva il privilegio di vederlo, aveva trascorso quasi un terzo della sua esistenza a contare i giorni che la separavano dalla sua condizione di orfana a quella di adulta emancipata. Nubile, avrebbe avuto scritto sul suo documento d’identità. Professione…chissà. Lei avrebbe voluto fare la psicologa.

A scuola adesso stavano facendo Freud, il padre della scienza da cui tanto era affascinata, un uomo geniale e innovativo ossessionato dal sesso e dai sogni. Un po’ come tutti i maschi, in fondo, pensò visualizzando nella testa il corpo solido e asciutto del suo fidanzato, i muscoli tesi che sulla pancia disegnavano sensuali dune dai netti confini. Chiuse l’album con uno schiocco, facendo volare via una vecchia foto di lei, mamma e papà al mare. La raccolse, fissandola attenta senza nessuna particolare emozione.

Ancora oggi non sapeva che pensare di Hyoga. Non ne capiva i gesti, i pensieri, i sentimenti. A volte con lui si sentiva leggera come l’aria, al di sopra della consistenza terrena del suolo, gli occhi sgranati su un mondo che si mostrava al suo sguardo con colori accesi e nuovi. Si erano conosciuti proprio lì, all’orfanotrofio, un giorno che il capriccio di una divinità dolorosamente sciocca e invidiosa aveva approfittato della vuotezza che popolava il suo animo in quei tempi tristi, nel mese di marzo, in cui ricorreva la scomparsa della sua famiglia.

Lui l’aveva guardata con i suoi incredibili occhi azzurri, così brillanti e intensi da ferire, dopo averla salvata dalle ruote di una macchina scura, di lusso. Le aveva sorriso di quel sorriso caldo e fascinoso che tirava fuori solo quando se ne ricordava, messo in risalto da una dentatura bianca e regolare,  le fossette scavate sui lati. Il tocco di un angelo, le aveva detto Miho spettegolando quella sera stessa sotto le coperte, nel suo letto, come due bambine discole al campeggio. Se erano il tocco di un angelo, Erii davvero non poteva dirlo, ma Hyoga dell’angelo aveva proprio l’aspetto.

Solo l’aspetto però. Ripose l’album, registrando distrattamente il fatto che lei, del suo ragazzo, non aveva nemmeno una foto. Sì, certo, sapeva essere galante e cavaliere da fare un baffo persino ai protagonisti dei romanzetti rosa che Miho divorava la notte prima di addormentarsi. La prima volta che erano usciti insieme per esempio le aveva aperto la porta del locale in cui avevano trascorso un meraviglioso pomeriggio, scortandola dentro come una principessa. Lei si era quasi sentita sprofondare nel calore delle sue attenzioni. Se avesse avuto bisogno di lui, ne era certa, Hyoga sarebbe stato pronto a sostenerla in ogni indesiderata evenienza in cui potesse mai inciampare.

Ma poi si perdeva così, stupidamente, in cose sceme e basilari che la sconcertavano e la costringevano a rimuginare sul loro rapporto sdraiata sul letto, con gli occhi pieni di lacrime rivolti al soffitto. Miho ne era ormai stufa. Neanche l’ascoltava più quando lei impiegava metà del suo tempo libero a stilare un minuzioso profilo psicologico del cavaliere del Cigno, sottoponendoglielo munito di note e accurate postille. Incapace di esternare i propri sentimenti. Ma sei sicura che ce li abbia?, le aveva domandato la sua migliore amica, l’unica che avesse mai avuto, mentre affettava grosse fette di prosciutto cotto, irregolari e troppo spesse, da mettere nel panino di Hiroshi. Erii aveva sospirato, rivelandole in un soffio che se l’era chiesto spesso pure lei, senza mai arrivare a conclusione sicura.

La prima volta che ci siamo baciati, io ho sentito che c’era, che era coinvolto. Aveva la pelle d’oca sulle braccia. Era stato quando erano usciti a cena fuori, come una coppia adulta, in un posticino delizioso che aveva scovato chissà come in un quartiere periferico di Nuova Luxor. Avevano riso e scherzato, mangiato poco, spettegolato molto. Lui era stato così carino, così perfetto, così umano. Sulle sue guance erano comparse molte volte quelle adorabili fossette che Erii amava tanto.

Lui l’aveva accompagnata a casa non troppo tardi, per non turbare la superiora che come minimo si sarebbe fatta uscire uno sfogo eczematoso alla vista di loro due insieme a quell’ora della sera. I corpi vicini, braccio contro braccio, le mani in tasca.

Un po’ prima dell’entrata posteriore dell’orfanotrofio Erii si era fermata, inchiodando sul posto ed alzando lo sguardo sul volto di lui, perfetto e bellissimo come un sogno. Grazie per la splendida serata, gli aveva detto sorridendo ampiamente, gli occhi brillanti per l’emozione ed il vino, che non beveva mai e che le aveva dato il giusto ardimento per issarsi sulle punte come una bambina e schioccargli un bacio timido sulla guancia, molto vicino alle labbra. Lui l’aveva afferrata per il gomito, gentilmente, per non farla andare via di corsa, come aveva in mente di fare perché troppo su di giri per ricevere altre emozioni quel giorno. Senza aggiungere altro le aveva sfiorato la bocca con la sua, morbida, che sapeva delle caramelle che si era infilata nelle tasche a manciate, da portare ai bambini più piccoli dell’orfanotrofio.

-Hyoga è un tipo strano, Erii, non lo so, non lo capisco.
-Nemmeno io se è per questo.
-Sarà bello e tutto quello che ti pare, ma io piuttosto preferirei uno un po’ bruttino ma -amorevole…o almeno psicologicamente stabile.
-Pensi che non lo sia?
-Non lo penso, ne sono sicura…

Una volta aveva perso il lume della ragione. Erano tre giorni che era partito per la Siberia orientale, in quell’angolo di pianeta dimenticato dagli dei e dal resto dell’umanità, freddo e desertico come aveva iniziato a credere fosse pure il suo cuore, e nemmeno una telefonata. Silenzio. Non un “sono arrivato”, tutto bene, il tempo qui fa schifo, sono vivo! Su un mi manchi non ci avrebbe di certo sperato, ma almeno su un respiro ancora…Dobbiamo parlare, gli aveva soffiato minacciosa come un gatto, gli artigli sfoderati e affilati sulla pietra focaia, quando lui era tornato e le aveva fatto una telefonata chiedendole di vedersi come se niente fosse, come se fosse sempre stato lì e si fossero sentiti appena il giorno prima.

Ti rendi conto di come mi hai fatto stare, brutto porco maniaco insensibile stronzo malato di mente??, si era profilato nella sua testa mentre si infilava il cappotto per uscire, i capelli tenuti alla bell’e meglio in una crocchia scomposta, un velo di rossetto sulle labbra, il mascara, l’ombretto. Miho non capiva perché Erii fosse tanto in collera con lui. In fondo, nel villaggio in cui Hyoga era stato addestrato e divenuto cavaliere, per quel che ne sapeva, ad eccezione di qualche impavida abitazione, non c’era presenza umana a sufficienza da garantire comunicazioni efficienti e puntuali come nel resto del mondo. E poi ormai doveva conoscerlo bene, il pollo.

-Abbiamo fatto l’amore, Miho, abbiamo fatto sesso e lui il giorno dopo è partito senza dire una parola, una, cristo, un cazzo di come stai, com’è stato, come ti senti dopo aver perso la tua immacolata verginità per uno che non ti merita??
-…
-Non che si debba parlare di certe cose, è successo e basta, ma, che ne so, almeno a farmi sentire che ci sei, che senti un qualcosa per me, un qualsiasi cosa, ma fammi capire che c’è!! Cos’è, timidezza la sua? Eppure quando si trattava di farsi una scopata non mi è sembrato tanto timido!
-…
-Cosa sono io per lui?? Questo, niente di più. Un’amica di letto? Bene, non c’è problema, basta saperlo. Che ne sai che non volessi anche io solo quello??
-Erii, stai sclerando…
-Io non posso andare avanti così, con uno che non ti dice niente, che quando IO, io, gli dico che mi sono innamorata di lui ammutolisce e guarda dall’altra parte, fa finta di niente per non dovermi rispondere!

Ma poi, quando si erano rivisti, Erii non era stata capace di dirgli tutto questo. Il volto di lui le era apparso così smagrito e sofferente che quasi si era sentita una terribile stronza per aver anche solo pensato tutte quelle cattiverie sul suo conto. Hyoga era una brava persona, su questo non ci pioveva. Non le avrebbe mai fatto del male, non avrebbe mai fatto qualcosa che potesse andare contro i suoi altissimi principi morali di cavaliere votato ad Atena. Scusami, Erii…perdonami se sono sparito per tutto questo tempo…avevo solo bisogno di pensare…

Le aveva sorriso, un poco, osservandola di sottecchi e stringendole forte la mano. In quel gesto c’erano più di mille parole, una muta richiesta di sostegno e appoggio che apertamente non le avrebbe mai rivolto. La battaglia alle dodici case, aveva pensato ricambiando la stretta, con la stessa intensità. C’entrava qualcosa il suo maestro. C’entrava qualcosa il senso di profonda sofferenza che gli aveva visto come un’impronta nella pelle i giorni trascorsi in ospedale. Ti amo Hyoga, gli aveva detto allora costringendolo a non abbassare lo sguardo, anche se questo lo avrebbe messo a disagio; non le importava. Lei era così, una ragazza semplice e spontanea, che amava dire in faccia quello che sentiva, che sognava un amore totalizzante e sincero e appassionato. Anche se forse aveva sbagliato persona per quello.

“Allora lumacona? Sei pronta?”
Miho era apparsa sulla soglia, borsone da piscina sulle spalle e sorriso giovane e spensierato sulle labbra. Erii sfiorò con le dita il dorso consunto del suo album, valutando di chiedere a Hyoga di fare delle foto insieme al suo ritorno. O forse non gliel’avrebbe chiesto nemmeno. L’avrebbe fatto e basta.
“Arrivo!”
Prese la borsa e cellulare, chiudendo nel cassetto la foto dei suoi genitori che avrebbe sistemato più tardi, insieme alla profonda nostalgia che sentiva per il ragazzo di cui, chissà perché, si era innamorata.

  
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