Nella tana del Coniglio
“Ma
io non voglio andare fra i matti”, osservò Alice.
“Be’,
non hai altra scelta”, disse il Gatto
“Qui
siamo tutti matti. Io sono matto. Tu sei matta”.
“Come
lo sai che sono matta?” disse Alice.
“Per
forza,” disse il Gatto: “altrimenti non saresti venuta qui”
[Alice
nel Paese delle Meraviglie, Lewis Carroll]
Non seppe dire con precisione per
quanto tempo stesse cadendo, ma nell’attimo in cui toccò terra le parve che
fosse passata un’eternità. Si sentiva come una piccola Alice, indifesa e
innocente, caduta nella tana del Coniglio e catapultata nel Paese delle
Meraviglie: solo che lei non aveva niente dell’Alice di Lewis Carroll, né la
sua innocenza né la sua ingenuità.
Mentre tornava con la mente alle
letture della sua infanzia, una luce improvvisa la investì, accecandola, e
l’oscurità di quel luogo venne dissipata. Quando riaprì lentamente gli occhi,
Faust vide finalmente ciò che per ogni demone diviene infine cibo: i desideri e
le tenebre dell’animo umano. E quelle della donna che abitava la casa rosa
erano particolarmente inusuali, al punto da farle credere di essere finita
veramente nel Paese delle Meraviglie.
Gli edifici, che si perdevano in un
soffitto infinito, erano costituiti non da grigi mattoni, bensì da ciambelle glassate
di rosa, arancio, azzurro e con caramelle dei colori dell’arcobaleno sparse
sopra, poste una sopra l’altra a creare una pericolosa e pendente torre di
Pisa; torte di oltre venti piani con la crema che fuoriusciva dalle fessure di
pandispagna, come un vulcano in eruzione, si piegavano in avanti, facendo
colare la cera delle candele rosa, mentre altre si appoggiavano alle loro
vicine, sorreggendosi a vicenda. Da un punto imprecisato del soffitto piovevano
altre caramelle, insieme a coriandoli colorati che si ammucchiavano in un unico
punto della strana città; il viale che le si apriva dinanzi era costeggiato da
numerosa porte viola, ognuna riportante un numero romano, e le mattonelle a
scacchi, di cui il viale era formato, si illuminavano a scatti, cambiando
tonalità di colore. Altre montagne di numerosi oggetti – fra cui aghi e
bottoni, peluche sorridenti, bambole vestite a festa, perle e pietre preziose –
erano poste senza un ordine preciso, nascoste dalla poca oscurità rimasta come
oggetti dimenticati; nell’aria volavano animali simili a farfalle, ma dai
colori spenti e privi di un’ala. Luci rosa e di altre tonalità del medesimo
colore illuminavano quell’ambiente strano, che rimandava forse al carattere e
ai gusti dolci e femminili della donna. Tutto ciò era forse una prigione
d’avorio della sua anima, intrappolata perennemente nei ricordi d’infanzia?
Così forse si spiegavano tutti quegli oggetti…
D’improvviso, tutte le porte sul viale
si aprirono di scatto e di lì uscirono degli enormi orsi di pezza, con toppe
grigie che bloccavano le fuoriuscite di gommapiuma e ognuno privo di un arto.
Così questi inquietanti esseri zoppicavano allegramente per il viale, per poi
dirigersi tutti insieme verso quella pioggia di confetti e coriandoli; quelli
che potevano alzare le braccia – o il braccio – tentavano di afferrare quelle
delizie, mentre gli altri spalancavano la loro bocca perennemente aperta e
ingoiavano ciò che capitava loro di prendere.
Faust, incuriosita da quello
spettacolo, si avvicinò senza fare troppo rumore al branco, sbirciando di tanto
in tanto le porta viola che si erano da subito richiuse, sperando che si
riaprissero di nuovo per poterci entrare.
Questo
luogo è così strano… Dopotutto, rispecchia la personalità della persona che ci
abita.
“Sarebbe questo un incubo? Ah, spero
che d’ora in avanti siano tutti così!”
“Invece di ridere, guarda cosa sta
accadendo a quei giocattoli…” le consigliò cupo Mephisto.
Richiamata all’attenzione, Faust volse
gli occhi al branco di peluche e sentì un grido morirle in gola: i corpi senza
vita degli orsi giacevano in una pozza di sangue cremisi sul viale, mentre quei
pochi che erano ancora in piedi, non appena ingoiavano quelle caramelle,
cadevano anch’essi con un secco tonfo. Tutti vomitavano sangue dalla loro bocca,
mantenendo però quel sorriso immutabile sul volto di pezza. Altri ancora,
invece, cominciavano a prendere lentamente fuoco al tocco dei coriandoli,
facendo salire alle narici della ragazza un nauseante odore di carne bruciata.
Carne?
Com’è possibile…?! Sono di pezza, non sono umani!
Faust si portò le mani alla bocca per
trattenere un conato di vomito, intimandosi nuovamente la calma che però non
arrivava.
“Non stare lì impalata, vai a vedere
cos’è quella pioggia assassina!” le ordinò Mephisto, riscuotendola
dalla sua trance.
Facendosi largo fra i cadaveri degli
orsi, Faust tese una mano per toccare la pioggia e la ritrasse subito,
trattenendo un gemito di dolore; si guardò la mano ferita e si rese finalmente
conto della pericolosità di quel luogo: non erano caramelle né coriandoli, ma
puntine colorate e scintille di fuoco pronte a esplodere al minimo contatto.
Sentendo la paura salire, indietreggiò
e inciampò su uno dei cadaveri, bagnandosi di quel liquido tanto caro agli
umani e assai gradito dai demoni. Lanciò un urlo, che si espanse per i palazzi
di quella città, e tentò di fuggire via, mantenendo l’equilibrio sulle sue
gambe malferme.
Lo stava facendo di nuovo: fuggiva di
fronte alle sua paure, lasciando le cose come erano. Per punire se stessa, per
punire gli altri.
“Aaaah, scappate! Sta arrivando il mostro!” urlò un bambino.
“Arriva
la bambina che vede i fantasmi! Stalle lontano, altrimenti ti attaccherà una
maledizione…” incalzò un altro bambino.
Ogni
giorno l’arrivo della povera bambina era accompagnato da queste crudeli grida
di finto terrore, che intimavano gli altri a farle ala mentre passava. Anche se
voleva piangere e sfogarsi, battere pugni e calci a terra, la bambina
tratteneva questi sciocchi impulsi che erano naturali per un bambino della sua
età. Lei era forte e, anche se stava male, non doveva mai mostrarsi debole di
fronte agli altri.
Un
giorno, un bambino temerario le lanciò un piccolo sasso e questo scatenò una
guerra a chi lanciasse il sasso più grosso al mostro: la colpivano in viso,
alla stomaco, sul collo, sulle braccia… Per questo tornava a casa sempre piena
di lividi viola. Ma anche se sentiva un forte dolore e una cieca rabbia, la
bambina non diceva mai nulla, né si difendeva.
I
demoni, però, sentivano i suoi sentimenti avversi e, attratti da questa forte
aura negativa, attaccavano sia lei che gli altri bambini. Questi fuggivano
urlando e piangendo, mentre la bambina osservava il vero spettacolo senza fare
nulla per impedire ciò: loro le avevano fatto del male, quindi dovevano pagare.
Ma
ogni volta che succedeva una cosa del genere, non riusciva a guardare la scena
fino in fondo e fuggiva anche lei, non perché era inseguita da un demone, ma
per non farsi vedere piangere da nessuno. Non appena sentiva le lacrime che le
annebbiavano la vista, si rifugiava nel suo amato bosco e di lì non usciva fino
al crepuscolo.
Nessuno
sapeva cosa faceva veramente, ma di una cosa erano tutti certi: lì da sola non
poteva fare niente, se non piangere.
Nessuno
però sapeva un’altra cosa di quel bosco: che ogni volta che ci entrava, almeno
lì, non era mai veramente da sola.
“Perché fuggi?” le domandò tranquillo Mephisto, nonostante la situazione stesse precipitando.
Faust non rispose, ma continuò a
correre per il viale a scacchi, che avevano smesso di cambiare colore e si
erano fermati sul nero e sul bianco. Il mantello che svolazzava le era di
impaccio e avrebbe voluto toglierselo, se un ringhio sommesso di Mephisto non l’avesse desistita dal suo proposito. Ritenne
che la scelta migliore era quella di aprire una delle porte viola; ma non
appena posò una mano su un pomello, tutte le porte cominciarono a muoversi
vorticosamente, scambiandosi fra loro e circondando la ragazza spaventata.
Infine, tutte si unirono in un’unica enorme porta, alta quanto i palazzi di
torte, e si piantò di fronte a Faust, impedendole la fuga.
La ragazza sentì le gambe cedere e
cadde in ginocchio, più terrorizzata che rassegnata, di fronte a quel colosso,
mentre la città intorno a lei stava lentamente cadendo in rovina: i palazzi e
le montagne di giocattoli crollavano come tasselli di un domino; le bambole
riccamente vestite voltarono di scatto la loro testa verso Faust, guardandola
con occhi vitrei, e spalancarono le loro bocche, facendo uscire un suono
stridulo simile a una risata e mostrando dei denti aguzzi e biancheggianti; le
farfalle spente iniziarono a volare sempre più vorticosamente, ricoprendo il
corpo di Faust. Queste graffiavano con le loro ali la pelle della ragazza e
spargevano una polverina che corrodeva la pelle.
Faust tentava di coprirsi con il
mantello, senza però riuscire a trovarlo, e intanto subiva quel doloroso
bruciore e quelle risate isteriche che le perforavano i timpani. Non urlava
più, né osava piangere, ma sussurrava in preda ai singhiozzi parole sconnesse,
nel disperato tentativo di uscire da quell’incubo che la stava uccidendo.
Mephisto sapeva
che se non avrebbe aiutato la ragazza, questa o sarebbe impazzita, o l’avrebbero
divorata i demoni. E ciò, per lui, era un’enorme fonte di problemi e di
complicazioni che avrebbe preferito evitare. Sebbene quella ragazza fosse
forte, la sua mente era troppo fragile e forse non pronta a sopportare le
oppressioni dell’animo altrui; forse era stato troppo precipitoso a concederle
tutto quel potere.
Ma oramai era troppo tardi per i
rimpianti.
“Ascolta, Faust, tu vuoi morire?”
domandò gentilmente Mephisto, scandendo bene ogni
parola, di modo che raggiungessero la sua mente sul punto di crollare.
Faust non rispose, ma annuì scuotendo
più volte la testa, un po’ per liberarsi di quelle farfalle, un po’ per
rispondere alla domanda.
“Vuoi salvare Greta, la tua migliore
amica?”
Stessa reazione di prima, stavolta più
convinta.
“Allora, se qualcuno ti offre dei
poteri non alla portata di un comune umano, sfruttali! Possiedi il tocco di
Satana, usalo! Ospiti nel tuo corpo un demone come me, e questo stesso demone
si mette al tuo completo servizio! Cosa aspetti? Scatena il tuo vero
potenziale!” gridò Mephisto, fra un misto di
incitazione e curiosità.
Appena queste parole raggiunsero il
subconscio della ragazza, una fiammata blu ricoprì il suo corpo e si espanse in
tutta la città, incenerendo le farfalle velenose e bruciando ogni cosa che
prima era parsa tanto piacevole al suo occhio. Perfino le bambole indemoniate
vennero investite da quel fuoco, sciogliendosi poi in fiumi di cera grigiastra.
Un odore di carne bruciata giunse alle narici della ragazza.
Ma stavolta le fiamme non si
acquietarono. Faust le lasciò andare, sentendosi per la prima volta libera e
potente. Potente, lei, da sempre una debole che fuggiva dalle sue paure: finalmente
le era permesso affrontarle.
Lasciò quindi che le fiamme di Satana
le ricoprissero il corpo, come un’armatura, e che il sangue demoniaco le
scorresse libero nelle vene, per raggiungere finalmente la consapevolezza della
debolezza dell’animo umano: ognuno avevo una parte demoniaca dentro di sé,
pronta a risvegliarsi alla prima occasione.
Mephisto, a questa
esplosione di energia, parve eccitato come lo può essere un bambino dopo aver
scoperto qualcosa di strano, e, dentro di sé, confermò i suoi sospetti: per
accendere la miccia, bastava solo incitarla. E nominare Greta. Non pensava che
questo nome gli sarebbe tornato poi utile, un giorno…
“Mephisto!”
lo chiamò Faust.
“Dimmi, mia cara fraulein?”
“I tuoi poteri… Mi permetteresti di
usarli? Hai detto di essere al mio completo servizio, no? Bene, adesso puoi
dimostrarmi la veridicità dietro queste parole!”
Mephisto rimase in
silenzio, soppesando la situazione: certo, aveva numerosi assi nella manica, ma
non voleva sfruttarli tutti con questa ragazza. Optò quindi per la decisione
più saggia e giusta, almeno a suo parere: prestarle una minima parte dei suoi
poteri, che lei avrebbe potuto giostrare a suo piacimento.
“Molto bene, Faust. Ritieniti
fortunata, non a tutti prometto un simile privilegio”
Detto ciò, ai piedi di Faust comparve
un pentagono che lanciava bagliori rosa e dal quale usciva, seppur lentamente,
il manico di quello che sembrava uno scettro. Faust, rimasta un poco interdetta
da questa apparizione, si riprese dallo stupore e afferrò con entrambe le mani
lo strano oggetto, tirandolo a sé.
Lo scettro sembrava che provenisse
dalle profondità della terra stessa e Faust durò non poca fatica ad estrarlo
dal tutto; quando infine ci riuscì, ciò che si ritrovò fra le mani indolenzite
era un lungo e pesante scettro d’oro, finemente lavorato e liscio al tatto, con
l’estremità a punta e un’enorme rubino scintillante incastonato in cima, che
lanciava bagliori fugaci e rifletteva l’immagine cremisi della ragazza. Una
volta che lo scettro era stato estratto del tutto dal terreno, il pentagono
svanì, insieme alla luce rosata, che sicuramente era un tocco personale di Mephisto.
Faust, fissando lo scettro, non
riusciva a capire come questo soprammobile potesse esserle d’aiuto nella sua
situazione attuale; doveva ammettere che era pesante, ma riteneva che darlo in
testa ai demoni non sarebbe stato sufficiente. Mentre rifletteva sul da farsi,
una delle bambole investite dal tocco di Satana – ora ridotta a un ammasso di
cera informe, ma ancora in grado di muoversi – si distaccò dal mucchio delle
sue sorelle in fiamme e, lanciando uno sguardo pieno d’odio dall’unico occhio
rimasto alla sua carnefice, spiccò un salto di un paio di metri e si avventò sulla ragazza, facendo uscire
dalla bocca storta un grido agghiacciante. Spalancò le fauci e mostrò al nemico
le sue bianche zanne, pronte a lacerare la carne.
Faust distolse lo sguardo dallo
scettro e si accorse di quella visione da incubo che incombeva su di lei. Sul
suo volto si dipinse una maschera di nuovo terrore, facendola ricredere
sull’innocua natura delle bambole; d’istinto alzò lo scettro, tentando di
proteggersi da quelle tenaglie, e un nuovo pentagono dai contorni rosa comparve
davanti allo scettro, intromettendosi fra la preda e il predatore. Non appena
la bambola toccò quel disegno, venne respinta e scaraventata lontano, finendo
contro un edificio di marzapane che crollò dopo il violento impatto,
seppellendola fra le dolci macerie.
Faust osservò stupita lo scettro e poi
il pentagono che l’aveva protetta, fungendo da barriera. Anche se non poteva
vederlo, era certa che Mephisto in quel momento stava
ghignando soddisfatto: fin dall’inizio sapeva che non ci sarebbero stati
problemi.
Dopo la misera fine della compagna,
altre bambole carbonizzate iniziarono ad attaccarla da tutti i lati,
costringendo Faust a eseguire contorti movimenti per respingere tutti quegli
attacchi. Ogni bambola, al contatto con quella barriera, veniva scaraventata
addosso ai palazzi o finiva in pezzi ai piedi della ragazza. Faust cercava di
ignorare i resti inumani che le si ammucchiavano davanti e si costrinse a
pensare che non erano persone reali e che il tanfo di carne bruciata era solo
frutto della sua mente ormai spossata.
Mephisto cominciò
a mostrare segni di impazienza, chiedendosi quando sarebbe comparso il vero boss della partita.
“Per quanto tempo vuoi restare sulla
difensiva? Attaccali!” le ordinò sbuffando.
“E come dovrei fare, di grazia? Non mi
lasciano un momento di respiro e non posso certo usare questo bastone per darlo
in testa!” obiettò Faust, ansimando per la fatica e la concentrazione.
“Come osi chiamare questo raffinato
oggetto bastone? E poi, basta che usi
le fiamme come diversivo e infine lo scettro per colpirli. Ah, per la
precisione, non devi darlo in testa a nessuno”
“Allora cosa dovrei fare?” chiese
disperata Faust.
“Usa un po’ di immaginazione!” disse
semplicemente Mephisto, come se fosse la cosa più
ovvia del mondo.
Faust, sebbene le scocciasse ammettere
che lui aveva ragione, fece quello che le aveva detto il demone: concentrò –
non con poca difficoltà – le fiamme davanti a lei e le fece esplodere come un
fuoco artificio, bruciando nuovamente le finte carni oramai distrutte delle
bambole, che caddero con un secco tonfo a terra, estinguendosi insieme alle
fiamme. Quelle poche sopravvissute si arrestarono, intimorite di subire
anch’esse quella sorte. Faust ne approfittò per escogitare una strategia
efficace. Osservò lo scettro, ammirando la lucentezza e la bellezza del rubino:
sembrava un enorme occhio perennemente aperto sul mondo.
Se
solo avessi un’arma più potente…
Le tornarono poi in mente le parole di
Mephisto, così prive di senso all’apparenza: Usa un po’ di immaginazione. Forse non
era del tutto folle il suo consiglio; dopotutto, era un demone esperto della
magia, uno dei più forti – a quanto sapeva – dell’Inferno, dopo Satana: che non
avesse progettato un’arma tanto potente da contrastare i suoi simili, le
sembrava alquanto strano.
Facendo questi pensieri, non si
accorse delle bambole che stavano puntando di nuovo su di lei, né degli
ammonimento preoccupati di Mephisto.
“Pensa in fretta…” gli sentì dire,
quasi in un sussurro.
Faust non gli prestò molta attenzione,
intenta com’era a fissare quell’arcano oggetto e a rimuginare sul da farsi.
Le bambole approfittarono della sua
distrazione e si gettarono nuovamente su di lei, più agguerrite di prima. Ma
Faust non le degnò di uno sguardo, chiusa nei suoi pensieri.
“Arrivano!” urlò Mephisto,
tentando di risvegliarle la coscienza, invano.
Se
avessi un’arma…
Le bambole erano ormai a un passo. Una
di loro si distanziò dalle altre, puntando vorace alla testa della ragazza:
pochi centimetri le separavano.
…
Sarebbe di sicuro un’arma da fuoco, visto che sono in grado di usare il tocco
di Satana. Un fucile, ad esempio!
Non appena questo pensiero le
attraversò la mente, una leggera scossa la fece fremere sul posto, eccitando i
nervi; non appena la sentì svanire, lo scettro cominciò a liquefarsi, a
ricomporsi, a liquefarsi di nuovo, come se cercasse una forma precisa. Faust,
terrorizzata per la sua mano, tentò di lasciar andare quell’ammasso informe di
metallo dorato, senza però riuscirci; una nuova scossa le pizzicò i nervi, come
se stesse scavando nella sua mente alla ricerca di un’immagine. Quando infine
sembrò averla trovata, ciò che restava dello scettro iniziò a prendere una
forma, allungandosi, tingendosi di argento, fino a trovare finalmente la sua
vera essenza: un fucile napoleonico, con una canna lunga e di peso leggero, con
un piccolo pentagono inciso sul manico e un rubino incastonato al centro della
stella, che se poggiata a terra l’arma avrebbe potuto superare Faust in
altezza.
Era sorpresa. Alla fine, il suo
desiderio era stato realizzato. Che fosse per merito di Mephisto
o di qualche altro diavolo, non le importava: il solo pensiero di avere un’arma
per proteggersi, per salvare Greta – e, ovviamente, i suoi genitori – le dava
una sicurezza e una forza che prima non possedeva. Ogni paura venne calpestata
da questi nuovi sentimenti che si agitavano nel suo animo. Sentì le fiamme blu
crepitare dentro di lei, desiderose di venire nuovamente liberate e di spargere
una scia di distruzione sulla solo strada.
Così, quando puntò la canna del fucile
contro quella bambola e premette il grilletto, non trattenne un ghigno malefico
e beffardo, con una debole scintilla di follia negli occhi. Mephisto
la notò e pensò cupamente che ben presto quella scintilla sarebbe diventata una
fiamma al pari di quelle di suo padre.
Lo sparo riecheggiò sinistro, facendo
arrestare le altre bambole. Faust non sentì il rinculo e di questo parve
soddisfatta.
Il
mio corpo sembra che non abbia più niente di umano… Dovrei esserne felice?
Scacciò questo fastidioso pensiero
privo di risposta e liberò del tutto la mente, concentrandosi solo su una
parola che per lei stava assumendo un nuovo e incredibile significato:
sterminare. Se li avesse sterminati tutti, Greta si sarebbe salvata: ciò che
doveva fare era solo abbandonare ogni istinto umano e lasciarsi andare al suo
nuovo potere.
Così fece. Sparò altri quattro colpi,
centrando perfettamente le teste delle bambole – nonostante non avesse mai
avuto un’ottima mira –, e gettò via il fucile, ormai scarico; quasi
immediatamente, ne uscì un altro dal terreno, accompagnato da un nuovo
pentagono, e Faust fece la stessa cosa di prima. Per quanti fucili gettasse, ne
comparivano di nuovi e avrebbe potuto continuare così all’infinito se le
bambole non fossero scomparse del tutto, decimate dalla forza distruttrice
dell’arciduca demoniaco.
Ciò che sorprese Mephisto,
osservando in silenzio il macabro sterminio, era l’agilità impressionante – mai
posseduta – con cui la ragazza eseguiva i movimenti, aggraziata come pochi, ma
con una forza che lo preoccupava; ma ancora di più, era la follia che
lentamente stava prendendo il possesso della sua mente a intimorirlo: se fosse
impazzita, quel corpo non le sarebbe più servito.
Sterminate le bambole, l’enorme porta
al centro del viale si tinse di nero e si aprì all’improvviso. Faust,
nonostante fosse infervorata, tese i muscoli fino allo spasmo.
“Eccolo… Sta arrivando il vero boss:
il creatore di questo folle mondo!” pigolò eccitato Mephisto.
Dalla porta uscì fluttuando un piccolo
coniglio bianco di peluche, malamente cucito e in pessime condizioni: la metà
di un orecchio era stata strappata via con violenza, mentre il resto era cucito
con toppe colorate e ricami fatta da una mano malferma ; mancava un occhio,
mentre quell’altro lanciava fugaci bagliori scarlatti che non avevano niente di
rassicurante; un panciotto logoro, nero, era slacciato e lasciava intravedere
la cordicella d’oro di un orologio da taschino, nascosto sotto gli abiti; il
tutto completato da un enorme papillon rosso e un sorriso tipico dei peluche.
Faust lo guardò interdetta e un moto
di delusione la sorprese: si aspettava forse una creatura più forte solo per il
puro piacere di farla a pezzi? La sua possessione aveva cambiato molti tratti
del suo carattere…
Mephisto, però,
era guardingo di fronte a quel nemico. Sperò solo che la ragazza, presa dai
suoi poteri, non facesse qualche follia.
“È vero, è piccolo, ma non farti
ingannare dalle apparenze. Avverto uno strano intento omicida e un intenso
rancore, ma non credo che siano rivolti a te… È meglio aspettare una sua mossa,
prima di…” ma non fece mai in tempo a finire la frase che Faust fece uno scatto
fulmineo in avanti, raggiungendo il coniglio, e gli puntò il fucile sul muso.
La bestia non fece niente per
difendersi, quando ricevette il colpo. La testa del peluche si aprì in due e
cadde a terra, senza fare rumore, mentre una pozza di sangue si spandeva sul
viale. Faust fece una smorfia di disgusto e si voltò, decisa ad andarsene. Non
sentì le repliche di Mephisto sul suo comportamento,
né sentì lo strano rumore – come quello di una persona che si stesse strozzando
– provenire da dietro le spalle. Ancora non riusciva ad uscire da quello stato
di trance.
Non si accorse del coniglio che si era
rialzato e aveva spalancato la minuscola bocca, facendone uscire con un
singulto di sangue un enorme verme che si estendeva per tutta la città: a
strisce bianche e nere, con una maschera bianca che mostrava un ghigno malefico
e due occhi storti, spalancò anch’esso le fauci e inghiottì Faust.
Il demone, essendosi mostrato per ciò
che era veramente, rise sguaiatamente e iniziò a distruggere tutti i resti di
quella città di torte e giocattoli, mosso da una feroce rabbia che solo un
altro folle potrebbe comprendere. Ad un tratto si fermò davanti a un palazzo di
ciambelle, preso da un lancinante dolore, e si erse in tutta la sua altezza,
spalancando la bocca per farne uscire un rantolo strozzato.
Poi le fiamme di Satana lo avvolsero
nella loro morsa mortale, bruciandolo da dentro; infine, un taglio netto lo
separò, facendo cadere le due metà del corpo colossale in due punti differenti
della città. Dall’apertura creatasi, ne uscì Faust con una falce dalle forme
spigolose, di un rosso acceso e dalla lama sanguinante, con un enorme occhio posto
in cima, la cui pupilla a spillo si dilatò al contatto con il nero sangue.
Faust, per nulla sconvolta dal viaggio
nell’apparato digestivo del demone, atterrò con grazia sul viale, osservando
con aria schifata il mostro. La testa era rivolta verso di lei e ogni traccia
di follia era svanita da quegli occhi spiritati, adesso ricolmi di una
tristezza e di una malinconia strazianti, e di qualcosa di molto più profondo:
pentimento. Calde lacrime di sangue scesero da quel volto pallido e singhiozzi
strozzati provenivano da quella gola vorace che tanto aveva divorato, senza mai
accontentarsi.
Faust, per nulla impietosita da questa
scena, alzò la falce in alto, pronta a fare l’atto estremo. Mephisto,
da dentro, non disse nulla, ma guardò gli occhi della ragazza e notò la
differenza dalla prima volta che l’aveva incontrata: un cieco odio e un folle
desiderio, misto a una forte speranza, esprimevano quei due lapislazzuli, le
cui pupille rosse rivelavano la loro natura demoniaca.
Per un attimo, Mephisto
provò compassione per quel demone che stava per passare sotto la lama di quella
che gli uomini chiamavano “giustizia”.
“Intrappolata nella tua infanzia, non
sei riuscita ad affrontare il mondo crudele degli adulti e sei ricaduta negli
abissi della follia. Ciò che ti resta, ora, è solo un folle odio privo di senso
verso ciò che prima amavi, e che poi ti ha ridotto così: la tua infanzia, con i
tuoi peluche e le tue torte, è stata la tua stessa rovina. Per questo, ora ti
libero dal tuo incubo” recitò Faust, pronunciando parole che pensava non
avrebbe mai detto: da dove venivano? Era forse Mephisto
a suggerirle?
Calò la sua falce, ignorando gli occhi
spaventati del demone, e compì l’atto estremo. L’incubo della donna della casa
rosa terminò.
Mentre il corpo del demone svaniva,
anche il resto del meraviglioso mondo
stava lentamente cadendo a pezzi, rivelando ciò che era in realtà:
un’immensa landa di oscurità, ciò che ci aspetta prima del risveglio.
Ben presto Faust si ritrovò sospesa in
queste tenebre, con i palazzi di torte, il viale a scacchi e i cadaveri dei
giocattoli svaniti. Solo a quel punto tornò in sé, sentendo quella parte che
l’aveva controllata finora nascondersi negli antri più remoti della sua anima.
Solo a quel punto, si rivolse finalmente a Mephisto.
“È tutto finito?” domandò con un filo
di voce.
“Mia cara, siamo appena agli inizi, e
manca ancora molto all’alba! Il divertimento deve ancora venire!” disse
giocoso.
Faust si abbandonò all’oscurità,
sicura che prima o poi sarebbe finita. Allora, le tornò in mente il volto del
demone: sembrava che stesse piangendo per ciò che aveva fatto, e che le stesse
chiedendo scusa. E anche qualcos’altro.
Ti
prego, non farlo!, sembravano dire i suoi occhi. Quando chiese
di questo a Mephisto, lui non le rispose. Al contrario,
canticchiò una canzone appena inventata da lui su una bambina curiosa e su un
coniglio bianco: l’intento era quello di tranquillizzare l’animo inquieto della
ragazza.
Faust si addormentò, cullata dalla
voce del demone, e sperò nuovamente di non sognare niente, come faceva sempre.
Ma aveva riiniziato a farlo in questa notte, quando il suo piccolo mondo cadde
in rovina.
Forse, se qualche ora fa non avesse
sognato, tutto ciò si sarebbe potuto evitare.
SPAZIO DELL’AUTRICE:
capitolo molto lungo e molto sofferto… Arrivata a un certo
punto, tutto filava liscio ma quando sono giunta alla descrizione della battaglia
contro le bambole indemoniate, mi sono bloccata. È stato difficile scegliere
l’arma adatta a Faust, ma alla fine ho optato per uno scettro in grado di
cambiare la materia! E non sarà solo quella una delle armi…
Vi è piaciuto questo incubo? Io mi sono divertita a
descriverlo, spero che anche voi vi siate divertiati
a leggerlo ^^. Per alcuni tratti mi sono ispirata a Mahou Shoujo Madoka
Magica – appena finito di vedere – e per altri ai giocattoli che tengo in
camera: tranquilli, non ci sono bambole assassine! Sono indecisa se mettere
altri incubi, ma così rallenterei la storia… Voi che ne pensate?
Dai, commentate! Le critiche, sia negative sia positive,
sono ben accettate. Ora me ne vado davvero: al prossimo capitolo!
Eins, Zwei, Drei! *puff