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Autore: Hullabaloos    06/12/2011    2 recensioni
"Quel che voglio far capire, è di non considerare i personaggi come graziose bambole che danzano nel vostro teatrino. Può darsi che quanto racconterò stia accadendo anche su questa terra, chissà. Dopotutto, questa è solo la storia di anime perse in questo spazio e tempo indefinito, che intrecciano la loro esistenza seguendo un sottile filo comune, così facile da spezzare. Tutto quello che chiedono è di essere ascoltate"
Genere: Azione, Drammatico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
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Il ragazzo urlò con tutto il fiato che aveva in corpo. Le mani vagavano sul viso, incapaci di trovare pace. Un urlo rauco, disperato, uscì dalla bocca, un buco nero da cui usciva inarrestabile una piena di dolore. Un altro spasmo. Le pupille, iniettate di sangue, erano coperte da una patina lucida, l’azzurro delle iridi tremò, gorgogliò, sembrò crearsi un vortice oscuro, da cui nascevano spire vermiglie. Un altro urlo. Le vesti, furono strappate dalla rabbia, e i brandelli raggiunsero i resti dello scuro mantello, dilaniato poco fa. Gridava, nel tentativo di alleviare quella sofferenza irradiata in ogni singola cellula. Ma era inutile. Si sentiva cadere in pezzi, la propria pelle incartapecorirsi, rattrappirsi, come un foglio che si contorceva tra le fiamme. Ancora una fitta. Sbarrò gli occhi. Preso dalla furia, afferrò con disperazione il bordo del tavolo davanti a sé. Il legno, inizialmente, s’incrinò leggermente, piccole screpolature percorsero tutta la sua lunghezza. Una nuova fitta. Un latrato disumano, e il mobile di quercia si sgretolò letteralmente tra le sue dita. Sentiva la propria voce raschiare lungo la gola, sbatteva confuso contro le pareti della stanza, senza riuscire a trovare un attimo di tregua.

-RAIVIS!!-

Percorse con le mani la pelle lasciata scoperta dalle vesti lacere e cadenti. Le unghie solcarono il candore del torace, delle braccia, del viso.

-RAIVIS!!!-

D’un tratto, due piccoli palmi gli afferrarono i lati del viso. Nonostante la vista fosse offuscata dalle lacrime, vide quel viso paffuto, quei capelli arruffati, quegli occhi grandi.

-Sono qui, Toris, sono qui-

Il ragazzo lo strinse in un abbraccio stretto, soffocante.

-Raivis, fa male…-, sussurrò, la frase rotta da singhiozzi.

Sentì una piccola mano circondargli, con qualche difficoltà, il petto glabro.

-No, non è vero-

-Si, invece!-, ribatté il castano, stringendo spasmodicamente il mantello nero del bambino, -sto bruciando dappertutto…-

-Sshhh…-

Toris sentì le piccole dita che gli carezzarono dolcemente i capelli.

-Non fa così male…-

-Ma…-

Il bambino gli afferrò delicatamente entrambe le mani, e se le portò sulle guance calde.

-Tu non stai provando dolore, no?-

Il petto del castano, che prima si alzava e abbassava impazzito, lentamente, tornò a un ritmo regolare. Le spire cremisi furono riassorbite dal blu. Toris osservò amorevolmente il bambino, che adesso stava posando le sue manine sulle sue gote. Si immerse nei suoi occhi chiari.

-Tu sai di chi è la colpa di questo Toris, vero?-

Il castano era troppo immerso in quelle iridi per dare una risposta lucida.

-Si…-

-Dillo…-

-…-

-Toris, dillo-

-Aletheia…-

La presa si strinse un po’.

-Esatto, è tutta colpa loro, Toris, è colpa loro se ti senti così-

Il lituano lo avvolse, sentì il viso caldo del bambino poggiato al proprio petto.

-Li ucciderò tutti, Raivis-, gli baciò i capelli, -lo farò per noi due-

Il ragazzo tornò a sorridere, sentendo quel peso caldo all’altezza del cuore, che invece che farlo sprofondare, lo alleggeriva. Non si accorse, però, che quel calore proveniva non da un bambino, ma da qualcosa più simile a una statua di ghiaccio, che scrutava silenziosamente il buio della stanza.

 

Uno scatto, un luccichio di lame, un forte clangore.

Antonio vide il viso dell’italiano deformato, un ghigno folle che si allargava sui dolci tratti del viso. Ma gli occhi erano il vero specchio di questa follia: l’oro delle iridi si mescolava al nero della pupilla, dilatata a causa dell’adrenalina. Il colore dorato si mescolava in vortice pericoloso di pura pazzia con l’oscurità della propria anima, questa nera forza bruciava, palpitava.

Le due spade, il pugnale dell’italiano estratto con uno scatto fulmineo dalla camicia e il fioretto sfilato dalla fascia alla vita dello spagnolo, collidevano, tremavano, facevano scaturire scintille metalliche.

-Sei proprio un figlio di puttana…-, gongolò Romano, la voce instabile, il ghigno maligno che si accentuava sempre di più, -con quel sorriso del cazzo sembravi solo un idiota…-

Affondò con maggiore forza il pugnale. La fredda lama sfiorava la gola scoperta del moro.

-…e hai avuto anche il coraggio di venire qui con quella lurida faccia a parlarmi di mio fratello!-.

Dalle labbra i canini scintillavano, da quelle stesse labbra uscivano quelle parole, impregnate di folle goduria, di folle dolore.

Imprimendo forza all’elsa, Antonio riuscì a staccarsi e a scaraventare il ragazzo lontano da sé. Lovino atterrò qualche metro più in là, il sorriso maligno che scintillava nella penombra del locale.

-…ora tu mi dirai dove è Feliciano…-

L’italiano avanzò verso la spagnolo, l’andatura barcollante, come un ubriaco, come una danza perversa, insana.

-E POI TI AMMAZZERÒ, BASTARDO!!!-

Dopo il ruggito, seguì un potente fendente, diretto alla gola del moro. Questo fece in tempo a buttarsi verso i tavoli alla sua destra. Lovino atterrò sul bancone, che si spaccò di netto. Si alzò una fitta nube di polvere e schegge.

-…non sarebbe forse meglio fermarsi a discutere…?-, propose l’ispanico, accovacciato sotto un tavolo, tentando un sorriso timido.

Un piccolo brivido gli percorse la schiena, quando vide l’italiano, il viso adombrato da ciuffi scomposti, estrarre con una semplice mossa il pugnale conficcato in profondità tra i miseri resti del banco. Poi, con lentezza esasperante, si voltò verso di lui. Poggiò una guancia sulla spalla, il gioco di luci e ombre che accentuavano quel ghigno demoniaco, le pupille, ora piccolissime, nere, tremolavano, le pupille erano iniettate di sangue.

-…che ne dici se prima ti ammazzo…?-

Antonio sgattaiolò appena in tempo tra l’intrigo di gambe legnose, prima che queste fossero distrutte in mille pezzi.

Il moro si slanciò verso l’uscita, comprendendo che, rimanendo lì, non avrebbe ottenuto altro che un conto salatissimo per il rimborso dell’intero mobilio. Sentì un ruggito dietro di sé.

-FERMATI!!-

Corse verso la strada, dribblando donne, bambini, mercanti e carri . Lanciò uno sguardo dietro di sé. Una chioma scura, un’ombra spintonava tra la folla, sbraitando e maledicendo i passanti.

Tornò a guardare davanti a sé. Gli occhi cercavano frenetici un luogo di riparo.

Si sentì un forte rumore, come uno squillo di tromba, e un improvviso trambusto. La folla si divise in due ali, lasciando libera la strada. Il mistero fu spiegato dall’arrivo di una carrozza, appartenente al signore del luogo. Gli abitanti chinarono il capo , si abbassarono con reverenza, mentre i cavalli della diligenza erano lanciati a tutta velocità lungo la stretta via.

Antonio colse l’occasione al volo, aspettando che il rumore degli zoccoli sul selciato si avvicinasse. Con un balzo, atterrò sulla scaletta posta sotto la porta che conduceva all’interno del cocchio. Vide la faccia basita dell’italiano, che lo vide sfrecciargli da sotto il naso. Il moro tirò un sospiro di sollievo, credendosi al sicuro.

D’un tratto, sentì un sibilo. Si voltò curioso. La lama del pugnale si conficcò nel legno finemente decorato della carrozza, a pochi millimetri dal suo viso. Se la cosa lo scioccò non poco, rimase decisamente sorpreso nel vedere Lovino scaraventare a terra un uomo qualunque dal suo destriero, salire sulla sella  e fiondarsi a tutta velocità verso di lui. Antonio, consolandosi, colse solo un lato positivo in tutta quella faccenda, deducendo che il ragazzo fosse disarmato.

Poi, un altro pugnale rischiò di conficcarsi precisamente in mezzo alle sue gambe, centrando per fortuna il ferro della scaletta. Il moro fissò a bocca aperta l’italiano estrarre l’ennesima lama dal gilè di pelle. Ma da dove diavolo spuntavano tutte quelle armi??

L’ennesima stilettata che per poco lo evirò, fece capire allo spagnolo il bisogno di trovare un riparo più efficiente. Con qualche difficoltà, si issò sulla tettoia.

Intanto, per la strada era nato un grande caos dovuto a quella scena decisamente inusuale. Persone correvano, alcuni gridavano, isterici, guardie del signorotto si erano lanciati alla ricorsa dei due folli.

Nel frattempo, Antonio cercò di mettersi in piedi, impresa non facile, dato il vento che sibilava minacciandolo di scaraventarlo via da un momento all’altro. Agitando le braccia, infine, trovò un suo equilibrio.

D’un tratto, intravide, a poche centinaia di metri, un’ antica chiesa gotica, stranamente isolata dagli altri edifici.

Un sorriso si formò sul viso abbronzato. Senza fermarsi a valutare adeguatamente la situazione, spiccò un balzo verso la facciata di pietra. Si trovò così a penzolare nel vuoto, le mani che stringevano l’architrave sporgente del portone. Tirandosi su, poggiò le piante dei piedi sullo stretto passaggio.

Guardò di sotto. Sorrise compiaciuto. Lovino, furibondo, dopo essere sceso dal destriero, aveva iniziato ad affondare due pugnali nel legno delle due spesse ante del portone, issandosi su con la sola forza della braccia, nel vano tentativo di una scalata rocambolesca lungo la facciata. L’italiano sbraitava, sbuffava, comprendendo l’inutilità del suo gesto, continuando nonostante tutto ad piantare quelle lame nella quercia. Ad Antonio veniva da ridere di fronte a quel scena che, in effetti, aveva qualcosa di comico.

Il sorriso, però, scomparse dal suo viso, quando il legno del portone, cedendo sotto la furia del ragazzo, si sfracellò letteralmente sotto il suoi colpi. Il Possessore sbarrò gli occhi, incrociando lo sguardo del ragazzo,ora acceso da soddisfatta perfidia. E con terrore, lo vide fiondarsi all’interno dell’antico edificio. Non gli ci volle molto a capire che in pochi minuti avrebbe raggiunto il rosario di vetro posto sopra l’architrave, magari grazie all’ausilio di una scala.

Si guardò intorno, frenetico. L’unica via di fuga possibile in quel momento era proprio sopra di sé. Trasse un profondo respiro. Infilò una mano tra le crepe della murata. Dopo qualche tentativo andato a vuoto, riuscì a trovare un appiglio anche per i piedi. Con enorme sforzo, si spostò non più di qualche metro lungo la facciata crepata. Appena in tempo.

Sentì un rumore di vetro in frantumi. Guardò giù. Dal finestrone circolare cadde una pioggia di cristalli colorati, che si riversarono sulla strada sottostante. Dall’incavo tondeggiante sbucò fuori una testa. Antonio fece appena in tempo ad arrivare alla linea divisoria tra una parete all’altra, prima di vedere quelle iridi brucianti conficcarsi sul suo viso.

I muscoli cominciavano a dolergli. Antonio lanciò uno sguardo alla sua destra. La chiesa, essendo a croce cristiana, era composta da due assi perpendicolari. Fortunatamente, si trovava a breve distanza dall’ala destra, un prolungamento architettonico di livello più basso rispetto alla navata principale.

Con enorme sforzo, si arrampicò fino al basso tetto e, infine, riuscì a sedersi a cavalcioni sullo stretto passaggio che divideva le due superfici spioventi.

Tirò un sospiro di sollievo, passandosi una mano tra i capelli, ciuffi scuri che si appiccicavano alla fronte imperlata di sudore.

Poi, un grido. Alzò di scatto la sguardo. Il rumore di vetri infranti accompagnò la figura dell’italiano che si tuffò proprio verso di lui. Lo spagnolo saltò in piedi, indietreggiando velocemente, prima che un pugnale avesse la possibilità di trafiggergli il petto. Per un istante barcollò, gli stivali di pelle che slittavano lungo la sottile linea del tetto.

Per qualche breve istante, calò il silenzio più assoluto. Solo il fischio del vento e il loro respiro affannato. Antonio vide il viso di Lovino accendersi di quella luce sinistra, dovuto al senso di compiacimento, di una vittoria sicura, del raggiungimento di una meta tanto agognata. Notò l’assottigliarsi degli occhi, la pupilla di nuovo dilatata, come una bestia pronta all’attacco.

Lo spagnolo alzò le braccia, mostrando i palmi della mani, prorompendo in una risatina nervosa.

-Ahahahah, emh… Eccoci qua…-

Sobbalzando, osservò il movimento deciso con cui il ragazzo avvicinò il pugnale al viso, i muscoli contrarsi sotto la camicia attillata.

-…Eheheh… Quale momento migliore per una bella chiacchierata…?-

A quanto pare neanche quel secondo tentativo funzionò. La lingua rosa leccò serpentina le labbra, che schioccarono poi soddisfatte.

-…Emh, che ne diresti allora di abbassare quel giocattolino…?-

Le ultime parole gli morirono in gola. Ebbe appena il tempo di sfilare nuovamente il fioretto dalla cintura stretta alla vita, prima che la lama del ragazzo si abbattesse su di lui. Un’altra volta, come nella locanda, lo scaraventò lontano da sé. Questo, però, non perse tempo, e si  rigettò sul moro.

-Ascoltami!-

La voce dello spagnolo aveva assunto un tono più serio, il sorriso bonario era scomparso.

-Io non voglio combattere!-, evitò un affondo, -Voglio solo parlare con te!-, parò una stoccata, -Tanto più che la nostra posizione non è delle migliori!-

L’ultima affermazione fu pronunciata con un sorriso, un tentativo di mostrare la propria sincerità. Capì che fu un gesto inutile, quando una pugnalata rischiò di squarciargli il petto.

-Ehi, non sto scherzando, potresti farti seriamente del male!-

Con grande abilità, lo spagnolo parò tutti gli affondi dell’italiano, i piedi che scivolavano con sicurezza lungo la labile linea del tetto, i passi che si muovevano in una decisa danza di guerra, la spada che ruotava, affondava, apparentemente senza difficoltà.

Poi, all’improvviso, inaspettatamente, Lovino si abbassò, ruotò l’anca, un calcio colpì le ginocchia di Antonio. Lo spagnolo, colto di sorpresa, si sbilanciò, oscillando pericolosamente. Con un urlo, l’italiano balzò su di lui, pronto ad affondare la lama. Ma si trovò i polsi intrappolati dalla presa dell’uomo: questo, la schiena appoggiata sullo stretto cammino del tetto, non avendo la possibilità di indietreggiare, aveva atteso il suo arrivo.

Ora Lovino era sopra di lui, mentre cercava di liberarsi da quella forte morsa, imprecando, agitando le braccia, ringhiando.

-Ti piace giocare sporco, eh?-

Lovino spalancò gli occhi, quando sentì la punta degli stivali dello spagnolo appoggiarsi sul suo petto. Prima che potesse accorgersene, si trovò scaraventato contro la parete della chiesa.

Per un breve istante, il fiato gli si mozzò, quando il suo corpo si scontrò contro la dura pietra. Si ritrovò a cavalcioni sul tetto, il fiato corto, tossendo, catturando l’ossigeno a grandi boccate. Maledetto. Alzò il viso. Lo spagnolo era in piedi, la spada in mano, in posizione di guardia, quello stupido sorriso, quell’odioso sorriso sul volto.

-Peccato che a me piaccia giocare pulito!-

Lovino, mentre ancora ansimava, rannicchiato in cima a quella chiesa, strinse convulsamente lo stoffa della camicia all’altezza dello sterno. Drignò i denti, sentì il sapore del sangue in bocca. Maledetto. Lo stava sfidando. Lo odiava. Quel sorriso. Si stava prendendo gioco di lui.

Lo spagnolo, giocosamente, gli fece segno di avanzare.

-Allora? Non volevi ammazzarmi?-

L’italiano sbarrò gli occhi. Stronzo. Figlio di puttana. Lo stava deridendo. Sentì una fredda stilettata nel suo orgoglio, una punta gelida che squarciava il suo autocontrollo, che lacerò quella sottile linea che ancora lo separava dalla pura follia.

Con un grido disumano,quasi animalesco, si alzò di scatto, afferrò un pugnale, corse verso il suo avversario. Voleva toglierlo. Voleva togliere quel fottuto sorriso, quell’irritante sorriso, quel sorriso così fuori luogo in quel momento, o almeno per qualcuno che stava duellando in bilico sul transetto di una cattedrale.

Voleva squarciargli il viso, vederlo rigarlo di sangue. E colpiva, agitava la lama fredda, cercava di raggiungere quelle labbra, voleva squarciarle, creare un sorriso di carne lacerata. Eppure, a ogni attacco, ecco pronta la contromossa. Nulla serviva tentare finte, mosse inaspettate, attacchi a sorpresa. Lo spagnolo sembrava prevedere ogni suo singolo movimento, come se riuscisse a leggergli la mente, come se captasse le sue intenzioni semplicemente osservando il guizzo delle sue pupille dilatate. Ogni fendente era parato con tale naturalezza, con tale facilità, come se i suoi pensieri fossero un libro aperto. Questo non fece che aumentare la sua rabbia, la sua forza, la sua pazzia. I suoi affondi divennero sempre più violenti, più brutali, più diretti. Gli stridii, i clangori,  il rumore della spada che cozzava, che si scontrava con l’altra lama, gli riempì la testa, nessun pensiero razionale, solo quel pezzo di carne davanti a lui da triturare, trafiggere, uccidere.

Lo spagnolo sembrò cedere di fronte a quella furia, indietreggiando sempre di più, fino a giungere al limite dello stretto passaggio.

Un ghigno deformò il viso di Lovino, i canini scintillarono, eruppe in una risata sguaiata. Le armi si scontrarono di nuovo. Le spade, a contatto tra loro, tremavano violentemente. Di nuovo, Antonio lo spinse lontano da sé. Ormai è inutile, pensò l’italiano, fissando con perfida soddisfazione l’uomo, che in quel momento sembrò barcollare sul ciglio del tetto, un piede che scivolò nel vuoto e che, per un momento, rischiò di farlo cadere.

Lo sguardo folle del ragazzo indugiò solo un istante, pregustandosi l’imminente vittoria.

-Non hai più scampo…-

Ridacchiò, perverso, mentre lo spagnolo lanciò un’occhiata dietro di sé, rabbrividendo leggermente. Nessuno si sarebbe potuto salvare da quella altezza.

Prima che lo spagnolo tornasse a guardarlo, Lovino si avventò su di lui, il braccio alzato, il pugnale pronto a affondare.

Avvenne tutto in un istante.

Antonio si abbassò di colpo, evitando così di essere colpito.

In quell’istante, una terribile consapevolezza.

Aveva preso troppo slancio, credeva di scontrarsi contro il corpo dell’uomo. Vide con terrore il proprio corpo sorpassare quello dell’ispanico. Vide il vuoto sotto di sé. In quell’attimo, il suo cuore si fermò. Sospeso nell’aria, un pensiero, veloce come un fulmine, lo colpì in tutto la sua crudeltà.

Stava per cadere.

Un grido disperato eruppe dalla sua gola, mentre sentiva la forza di gravità trascinarlo giù.

In quel piccolissimo lasso di tempo, ne ebbe coscienza: stava per morire. Quella constatazione era la più dura, la più feroce: tra poco si sarebbe schiantato contro il suolo, avrebbe sofferto, sarebbe scomparso.

E come un lampo, rivide il suo viso, lo rivide quell’ultimo giorno, nella loro soffitta romana. E avrebbe gridato il suo nome, se non avesse sentito il fiato essere risucchiato dal vuoto. Si sentì morire ancora prima di toccare terra, quell’istante in cui il cuore fu stretto da una morsa crudele. Chiuse gli occhi, la sua immagine ancora impressa nella retina.

Stranamente, nessun dolore sopraggiunse. Che la morte sia così, totalmente indolore?

Lentamente aprì gli occhi. Preferì non averlo fatto. Vide il proprio corpo, le proprie gambe, oscillare sul vuoto, mosse dal vento, che fischiava nelle sue orecchie.

Cacciò un urlo. Si aggrappò maggiormente, per istante a quel braccio. Spalancò gli occhi. Un  braccio?

Alzò la testa. Due mani stringevano spasmodicamente la manica della sua camicia. Le pelle scura si era sbiancata sulle nocche a causa dello sforzo. Il suo sguardo proseguì lungo le braccia, i muscoli in tensione, gonfi, finché non giunse al volto.

Gli si bloccò il respiro.

Il viso dello spagnolo era sopra di sé, a una così breve distanza. Finalmente, quello stupido sorriso era scomparso. Per qualche strano motivo, però, questo non lo rese felice, non si sentì fiero di aver raggiunto quella piccola vittoria.

Lo aveva salvato. Stava per cadere, e lui aveva fermato la sua caduta. Poteva lasciarlo andare, lasciare che si sfracellasse al suolo, e invece lo aveva salvato.

Era così confuso, il cuore batteva come impazzito, il suo rumore era così assordente gli riempiva la testa, tanto che non riuscì a capire nulla di quello che stava uscendo da quelle labbra. Carpì solo il tono allarmato, perché?, la preoccupazione che agitava il suo corpo, le sue labbra che fremevano, gli occhi che fissavano i suoi cercavano di comunicargli qualcosa.

Si sentiva stordito, i suoni giungevano ai suoi orecchi ovattati, distorti, come se si trovasse sott’acqua.

Appena si accorse che Antonio, facendo leva sulle gambe, lo tirò su, finché non fu di nuovo sul tetto. Senza forze, si accasciò sulle tegole. Quel senso di morte, di fine imminente, di completo annientamento, la coscienza di essere scappato per un pelo da tutto questo, lo avevano completamente svuotato.

Sentì due braccia che lo strinsero a sé, una mano che gli accarezzò i capelli con delicatezza, come per consolarlo.

Per la prima volta in vita sua Lovino sentì il bisogno di essere consolato, di essere protetto, non di proteggere. E con le mani sia aggrappò con disperazione alla casacca dell’uomo, affondando il viso nel tessuto ruvido della camicia. Si accorse solo allora di stare tremando violentemente, ma non gli importava. Voleva semplicemente godersi ancora per un poco quel caldo abbraccio, quella sensazione momentanea, ma così potente, di sicurezza, quella strana convinzione che tutto si sarebbe aggiustato.

Sentì quella grande mano calda che accarezzava con dolcezza la sua schiena, e bisbigli, parole di conforto sussurrate nell’orecchio, che non comprese, ma che lo avvolsero come una calda coperta.

-…tutto si sistemerà, va bene…? Ti racconterò tutto…-

 

-Ehi, a cosa stai pensando?-

Lovino si riscosse dal quel torpore. Non si era neppure accorto di essersi perso nei suoi pensieri. Rivolse uno sguardo all’uomo seduto di fronte a lui. Di nuovo quel sorriso idiota, senza senso, parcheggiato dietro un piatto di qualche schifezza servita in quel locale. Voltò la testa stizzosamente.

-Tsk, pensavo a quanto sembri stupito, anche quando mangi-

Ovviamente, lo spagnolo rise, ancora un raggio di sole che schiariva l’oscurità di quella locanda. Gli sorrise, prima di tornare il suo pasto.

Lovino teneva ostinatamente il viso rivolto a testa. Dopo un poco, però, lanciò un’occhiata di sottecchi all’uomo. Quello, del tutto ignaro, continuava a trangugiare cibo, sempre con quel sorrisetto.

L’italiano posò una mano sulla guancia, il gomito che gli sosteneva la testa, ovviamente ostentando il proprio disinteresse, imponendosi di non guardando. Ma, costando che gli occhi non facevano che scivolare davanti a sé, sbuffò irritato, afferrando la forchetta posta accanto al suo piatto, e iniziando a giocherellare svogliatamente con i pomodori sul suo piatto. Infine, disse, cercando di dare una certa indifferenza al proprio tono.

-Senti, tu…-

-Mh?-

Antonio sollevò la testa mentre ancora masticava un boccone. Lovino ruotò la forchetta, e indicò con la posata lo spagnolo con aria annoiata.

-È da almeno due settimane che non facciamo altro che mangiare in queste catapecchie…-

Lo spagnolo aveva l’unico pregio di mostrare interesse per tutto quello che usciva dalla bocca del più piccolo. Aveva posato il coltello, le mani stese sul legno del tavolo, gli occhi curiosi fissi in quelli dell’altro.

-Hai ragione-, disse cordiale, sorridendo nuovamente.

Lovino distolse lo sguardo.

-E ancora non mi hai detto niente di mio fratello. Cioè, oltre al fatto che non è in pericolo e che si trova bene…-

-Esatto-

Adesso Antonio, proprio come lui in precedenza, aveva poggiato il viso su una mano, le palpebre socchiuse, le iridi puntate unicamente sull’italiano. Quest’ultimo replicò leggermente scocciato.

-Quando andrà ancora avanti questa storia? Sono stanco della merda che servono in questo posto!-

Lo spagnolo alzò la testa dal palmo della mano, spalancò leggermente la bocca, gli occhi si sgranarono appena, come se fosse sorpreso. Poi scoppiò nuovamente in quella calda risata.

Lovino si innervosì per quella reazione. Non gli sembrava di aver detto nulla di insensato, no?

-Che cazzo hai da ridere?-, sbottò quello.

L’ispanico si passò un dito sotto la palpebra sinistra, catturando una lacrima, le spalle ancora scosse dalle risate.

-Oddio, scusami Lovi, ma non posso proprio farlo…!-

Il ragazzo si innervosì ancora di più per quel nomignolo. Era pronto a contro ribattere con qualcosa di molto poco gentile. Ma poi sentì queste parole.

-…perché poi non avrei altro scuse per incontrarti…!-

L’italiano boccheggiò per qualche istante. Antonio sorrise per quella reazione, molto dolce a suo parere. Questo pensiero venne barrato da una linea rossa appena un istante dopo. Una forchetta si conficcò con violenza sul legno, precisamente nel punto in cui, pochi istanti fa, era distesa la sua mano, che lui aveva repentinamente ritratto. Lanciò uno sguardo sbalordito al ragazzo di fronte a sé.

Aveva nuovamente il viso poggiato sulla mano, la testa, rivolta alla sua destra, un cipiglio irritato.

-…non iniziare a sparare cazzate…-

Antonio sorrise comunque, vedendo la piccola mano del ragazzo tremare leggermente.

 

Fissò le due ante di ferro, la bocca semi aperta, gli occhi sgranati.

Non poteva essersi sbagliato. Aveva sentito qualcuno bussare. Indugiò. Forse se lo era immaginato? Dopotutto, racchiuso tra quelle quattro mura bianche, nulla aveva avuto più senso. Momenti di veglia si alternavano a quelli di sonno, tutto aveva contorni sfocati. Quanto tempo era passato da quando aveva sentito quella voce? Giorni, mesi, anni? E se l’avesse semplicemente immaginata?

Sobbalzò. Qualcuno aveva bussato di nuovo. Un sussurro roco, incerto.

-…ci sei…?-

Trattenne il fiato.

-…Gilbert…?-

Gattonò fino alla porta, poggiò le mani sul freddo metallo.

-…Si, sono io-

L’uomo sorrise, una felicità immensa lo riempì. Era tornato, era tornato! Se ne era andato, ma era tornato! Un’ombra gli attraverso gli occhi. Già se ne era andato… Una dolorosa rabbia montò lentamente dentro di lui.

-Perché se andato via…?-

Strinse i pugni.

-Perché sei corso via…?-

Nessuna risposta arrivò dietro la porta. L’uomo si allarmò. Se ne era andato di nuovo?

-Gilbert, ci sei?-

Tastò freneticamente la fredda superficie. Perché lo aveva detto? Si era arrabbiato, se ne era andato, andato!

-…ci sono-

Fissò la porta, incredulo. Tirò un profondo sospiro di sollievo. Meno male, era ancora lì. Ormai non gli interessava più che lo avesse lasciato solo, voleva che rimasse lì.

-…volevo raccontarti di un sogno-

L’uomo alzò la testa, guardò le ante scintillanti, come se potesse vedere attraverso di loro il suo interlocutore.

-Un sogno…?-

Un momento di silenzio. Poi la voce roca continuò, insicura.

-…lo faccio ogni notte, da quando sono stato qui-

E la voce iniziò a raccontare della storia di un bambino, un piccolo bambino che viveva in una grande casa. I genitori lo odiavano, i grandi lo odiavano, e lui odiava tutti. Il bambino cercava solo un po’ di affetto. Inizialmente, obbligò suo padre e sua madre a volergli bene, ma capì presto che all’amore non si poteva ordinare. Poi, alla fine, incontrò due persone speciali, che lo amarono per quello che era.

L’uomo si appoggiò alla porta e si lasciò cullare da quel lento gracchiare. Le immagini descritte da quel basso bisbiglio di dipinsero sulle bianche pareti. Chissà perché, quella storia lo colpì. I genitori lo avevano odiato. Per qualche strano motivo, gli balenò davanti gli occhi l’immagine di una casa di legno, dispersa in mezzo alla neve delle montagne. Vide una donna che piangeva, un uomo che picchiava un bambino in lacrime. E poi quelle iridi solari, che sciolsero il ghiaccio intorno a lui. Scosse violentemente la testa. No, non ora, non voleva pensarci. E si concentrò semplicemente su quelle fioche parole. Cercò di immaginarsi la figura del loro possessore.

D’un tratto, il raccontò finì. Dopo un attimo di esitazione, continuò.

-…non so perché ti ho raccontato tutto questo. Non so nemmeno perché sono tornato, ecco…-

Sentì uno sbuffo, sembrava che il ragazzo, oltre la porta, si stesse sforzando.

-…semplicemente, mi sembrava giusto dirtelo, boh, non lo so…-

L’uomo sorrise, stringendosi le gambe al petto, tuffando il mento tra la morbida lana.

-Sai, a me piacciono i sogni…-

Oltre il portone, non sentì nulla.

-Nei sogni puoi fare qualunque cosa, nulla è impossibile, e anche se succede qualcosa di brutto, sai che tutto andrà bene!-

L’entusiasmo scemò in un sorriso triste.

-Peccato che debbano finire prima o poi…-

Calò un momento di silenzio. Il ragazzo sembrò riflettere sul significato delle parole dell’altro.

All’improvviso, l’uomo si girò verso le ante, come se non ci fosse tutto quel ferro a dividere i due.

-Ehi, la sai una cosa…?-

-Cosa?-

L’uomo tornò a fissare il bianco davanti a sé, sorridendo.

-Spero che il sogno che stiamo vivendo adesso non finisca mai~-

 

 

 

Note d’Autrice

 

Ebbene si. Sono tornata. Non ci speravo neanche più. Ma eccomi di nuovo qua a rompervi l’anima, dehihihu!

Comunque… Non so se lo avete notato, ma mi sono divertita come una matta a descrivere l’inseguimento tra Lovi e Anto, non so perché, ma mi tornava in mente il grande capitan Jack Sparrow che correva con la sua andatura molto virile! Leggere poi di questi due con in sottofondo “The god of melodicspeedmetal” di Hetaoni… beh, gasa, e parecchio.

Boh, non saprei che altro dire. Devo pubblicare. DEVO PUBBLICARE.

Per questo, ci vediamo presto (spero)! :D

   
 
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