Fanfic su attori > Cast Il Signore degli Anelli
Segui la storia  |       
Autore: Panenutella    06/12/2011    3 recensioni
Lo guardai meglio: era un angelo….
Aveva il viso cordiale e aperto. Gli occhi neri e profondi come due pozzi guardavano attenti il mondo e risplendevano come la luna. I suoi lineamenti era fini e eleganti, proprio come quelli di un Elfo. La sua stretta era gentile, la sua pelle calda. I capelli corti e neri erano pettinati in modo sbarazzino. Indossava una maglietta bianca a maniche corte e mi salutò con un largo sorriso.
Nella mia mente contorta cominciai a sbavare come un mastino.
ATTENZIONE: la protagonista interpreta il ruolo della figlia di Galadriel – ovviamente inventata da me -, Hery, che ha una storia d’amore con Legolas e segue i protagonisti nel loro viaggio.
La maggior parte degli avvenimenti narrati in questa fic sono realmente accaduti, ma sono raccontati dal POV della protagonista.
Divertitevi, leggete e recensite in tanti! :)
Genere: Avventura, Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Orlando Bloom
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Lesley's World'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
La mia vita sul set – Cap. 15

Sembrava una tradizionale festa di paese, con luci, risate, musica, birra e balli. Solo che non era una normale festa di paese, era una festa Hobbit. Non importava che fosse per finta: in quel momento ognuno di noi, anche quelli dietro le quinte, era un vero Hobbit. Era come se un incantesimo fosse caduto sopra di noi come neve, facendoci dimenticare tutte le preoccupazioni e la tristezza e nessuno di noi faceva qualcosa per spezzare la magia. Peter, anche se sotto effetto di “incantesimo”, si faceva trascinare dall’euforia a modo suo, trascinando tutti con la sua allegria e vitalità pur mantenendo il suo ruolo di regista. Scorrazzava in giro fra gli Hobbit, correggeva e incoraggiava le comparse a dare di più, mostrava loro quello che intendeva. Noi della Compagnia avevamo già dimenticato l’incidente con Justin e cercavamo tutti di divertirci il più possibile. Appena aveva un attimo di tempo e se non era impegnato a fare finta di non conoscere gli altri Hobbit davanti alla telecamera, spariva dalla circolazione per un paio di minuti e nessuno di noi si chiedeva dove andasse, conoscendo già la risposta.
-    Ah, essere giovani e innamorati -, aveva sospirato Dom ad un certo punto prima
di invitarmi a ballare inchinandosi come un vero gentleman. Presi la sua mano e mi lasciai condurre in mezzo alla folla.
-    Cosa vorresti insinuare Mon, che non sei più giovane?
-    No, ho semplicemente detto quello che avrebbe detto Sean se fosse stato lui a parlare!
Mi presi un attimo per afferrare il concetto. Lui intuì che il suo scherzetto era riuscito e ridacchiò. Un giretto di ballo con Dom e lui si dileguò non appena vide che Super-Peter si era fermato un attimo. Corse verso di lui con una mela in mano e praticamente gli saltò addosso. Gli chiese qualcosa sventolando la mela davanti al naso di Peter, lui si grattò il mento e alla fine ridacchiò annuendo. Dom se ne andò dalla parte opposta mordendo con gusta una bella mela verde. Sembrava piuttosto contento.
-    Dovrebbe essere sempre così, vero? – disse Sean, affiancandosi alla mia contenta persona.
-    Sempre una festa – annuii. Sean mi prese a braccetto e cominciammo a girovagare.
-    Sai, il bello deve ancora venire. – mi disse ad un certo punto.
Lo guardai. – Cosa intendi?
-    Dom e Billy devono girare la scena del petardo. Ci sarà da divertirsi.
-    Quale petardo? – chiesi curiosa. Sean si fermò.
-    La scena del fuoco d’artificio che fanno scoppiare dentro la tenda. Non hai letto il Signore degli Anelli?
Mi dondolai sui talloni, arrossendo. – No – ammisi riluttante.
Alzò un sopracciglio. – Non hai nemmeno il libro, vero?
Cavolo, era intuitivo. – No – confessai alla fine.
Sospirò. – Lo devi fare assolutamente! – esclamò. – è un libro stupendo. Adesso scusami, devo tornare da Rosie a ballare – si passò una mano in mezzo alla parrucca con fare sensuale e si allontanò sensuale, partecipando un poco alla mia risata.
Un lampo di luce bianca e uno scoppio illuminò il cielo, una sirena suonò e tutti i nostri nasi si rivolsero verso l’alto. Mi trovavo in mezzo a un gruppo abbastanza corposo di Hobbit, che levarono insieme a me la testa in alto e produssero degli “Ooooooh!” di meraviglia che trasmettevano allegria. Ma a Peter non andavano bene: si avvicinò a loro – cioè, a noi, perché c’ero anch’io in mezzo – e disse:
-    I vostri “ooooh!” vanno bene, ma non trasmettete abbastanza entusiasmo. Saltate! Acclamate! – fece vedere quello che intendeva imitando i gesti.  – Più entusiasmo ad ogni fuoco.
Molti degli Hobbit annuirono e lo ringraziarono, e Peter andò verso altre comparse a dare dritte e consigli. Per quanto ci riguardava, riprendemmo dove eravamo rimasti. Un altro lampo bianco e un’altra sirena. Gli Hobbit, tutti gli Hobbit, alzarono le teste e urlarono entusiaste, tipo cori da stadio. C’era chi indicava il cielo, chi saltava e applaudiva, chi rideva.
La festa continuava e mi spostai da zio Ian, o meglio Bilbo Baggins, il festeggiato. Se ne stava in uno spiazzetto di prato, seduto su uno sgabello con intorno un gruppetto di bambini Hobbit che solo a guardare i loro occhietti vivaci e infantili ti scioglievi dalla tenerezza. Peter era seduto accanto a zio Ian e teneva sulle ginocchia una bambina. Diceva: - State seduti qui buoni e il signor Bilbo vi racconterà una storia.
Sorrisi e continuai a girare, e capitai per caso dalle parti di Ian/Gandalf, anche lui impegnato a intrattenere un gruppetto di bambini. Si appoggiava al suo bastone da stregone, accanto ad una specie di paletto di legno. I bambini – alti un terzo di lui, specialmente con quel cappello da stregone -,  lo guardavano con quell’attenzione che in un bambino si può catturare giocando sulla sua curiosità. Erano cinque o sei e gli stavano davanti in ordine sparso. Ian disse:
- Chi vuole vedere le farfalle salti su e giù! Hop! Hop! – i bambini cominciarono a saltare. – Molto bene! Uno, due e… pumpupuuu! – puntò il bastone di legno levigato contro il bastoncino piantato nel terreno dal quale uscì una luce bianca e i bambini fecero finta di seguire delle farfalle immaginarie, spargendosi e saltando su e giù cercando di catturare l’aria con le loro piccole manine. Sorrisi e fui presa istantaneamente da un’inspiegabile nostalgia, come un’ondata di tristezza.
Un urlo isterico nella tenda poco lontano dal punto in cui mi trovavo catturò tutta la mia attenzione: la tenda in questione era chiusa solo da tre lati, mentre quello rivolto verso le colline era aperto. L’urletto da donna aveva seguito una luce bianca – il set quella sera era pieno di luci bianche. Feci il giro della tenda e vidi Billy e Dom che si spanciavano dal ridere e i cameraman che applaudivano ridendo.
-    Cos’è successo? – chiesi curiosa e con un sorriso incerto, quello di chi sa che sta
arrivando una risata.
Dominic uscì dalla tenda tenendosi la pancia dalle risate e mi battè una pacca sulla spalla, senza rispondere. – Dai dai dai, qualcuno mi dice cos’è successo? – insistetti.
-    La colpa, teoricamente, è mia – mi rispose Billy appoggiato alla tenda e asciugandosi gli occhi inceneriti dal gran ridere. – Ho fatto un urletto da isterica, ma mi sono spaventato!
La risata tanto attesa arrivò.
-    Lesley – Peter mi aveva raggiunta. – Per ora qui abbiamo finito. Ho già mandato a dire a Viggo, Orlando e Sean. Per voi è ora di andare.
-    Ma… non abbiamo finito, Pete.
-    Les, sono le dieci e mezza di sera. Domattina avete l’aereo alle sei. Sarà meglio che tu vada a toglierti il trucco e riposare.

Nonostante Peter fosse una persona sensazionale, simpatica e solare, era esattamente come me: quando si metteva in testa non si schiodava neanche a morire. E figurarsi cosa succede se io me ne metto in testa un’altra. “Un delirio” aveva commentato Billy una volta, qualche giorno dopo il mio arrivo. Ma comunque Peter era il regista: ero obbligata a cedere terreno. Così, dopo aver parlato con Orlando – il quale mi disse che sarebbe venuto con me e gli altri – tornai in albergo, controllai di non avere lasciato niente negli armadi e nel bagno, mi feci un ultima doccia e mi infilai a letto.

Alle sei l’aereo sarebbe partito, e per evitare di fare di corsa Viggo, Bean, Orlando e io alle cinque e mezza eravamo già in aeroporto.
-    È un po’ strano partire senza gli Hobbit, vero? – dissi, seduta su una panca
dell’atrio, grattandomi sopra un orecchio.  – Viggo annuì.
-    Non c’è la solita ridarella. – disse in tono lugubre. Era innervosito perché sapeva
che non avrebbe potuto portarsi la spada sull’aereo. Il legame con la sua spada era molto speciale: se aveva la spada al suo fianco, si sentiva Aragorn. Se non aveva la spada, il suo personaggio non avrebbe mai potuto essere completo. In più, se la portava ovunque, e sapeva maneggiarla molto meglio di noi altri attori messi assieme. Nessuno sapeva per quante ore giornaliere si allenasse. Era come se Aragorn fosse diventato una parte integrante del suo essere, un modello di vita. Viggo non era solo uno di noi, era il nostro Aragorn. Se avevi qualche problema, era lui a spingerti ad andare avanti o tornare indietro. Era il nostro leader, non appena se ne presentava l’occasione. Viggo Mortensen era uno spirito selvaggio, un modello, un esempio.
Bean allungò le gambe. – Dunque, abbiamo già fatto imbarcare i bagagli, dobbiamo solo oltrepassare il metaldetector… qualcuno conosce qualche barzelletta?
-    Bean, ti supplico, non adesso. – disse Orlando alzando gli occhi al cielo. Era
risaputo che il più delle volte le barzellette di Bean non facevano ridere.
-    Secondo voi ci raggiungeranno? – chiesi, appoggiandomi allo schienale.
-    Ovvio, sennò come faremmo a girare le scene? Ci raggiungeranno domani al
massimo, con Barrie Osborne e Peter. Faranno a turno per un po’. – rispose Bean.
-    Ma torneremo a Matamata? – Bean annuì.
-    Dobbiamo finire di girarci le scene, ma qualcosa mi dice che resteremo lontani
per un po’.
Orlando si riscosse per un attimo. Si stava riaddormentando. – Ehi, che giorno è?
-    È il 20 agosto, OB. Buonanotte. – gli risposi.
-    Mmm, ‘notte… - e ritornò a ronfare con la testa penzoloni.
Dieci minuti dopo l’altoparlante ci avvisò che l’aereo era pronto per l’imbarco.

La sensazione di staccare il corpo dal terreno e lentamente immergersi tra le nuvole mi inebriava e spaventava insieme. Avrei fatto volentieri a meno della sensazione di vuoto nello stomaco e le orecchie tappate, ma non avrei saputo rinunciare alla bellezza di vedere il mondo dall’alto. Mi sembrava di avere un potere soprannaturale: vedere tutto e niente contemporaneamente.
Una hostess ci servi una bottiglia d’acqua di plastica da un litro e quattro bicchierini. Eravamo di nuovo in prima classe. Per me era il primo viaggio in prima classe: prima di questo li avevo tutti fatti in turistica.  Orlando, seduto sul sedile attaccato al muro, si era immerso nella lettura di un giornale di auto sportive comprato precedentemente in aeroporto; Bean si era infilato nelle orecchie le cuffie del lettore Mp3 e si era isolato dal mondo; io me ne stavo con le gambe allungate a guardare silenziosa la terra che scorreva velocemente sotto di noi.
Viggo, notando il mio silenzio, versò l’acqua in un bicchiere, mi si sedette accanto e me lo porse.
-    Hai sete?
Lo guardai un attimo e poi annuii. – Grazie – dissi prendendolo e svuotandolo in pochi sorsi.
-    Qualcosa non va? – chiese, amichevole. Seguii distrattamente il bordo del
bicchiere con un dito.
-    Mah, è solo che… stavo pensando ad un sogno che ho fatto qualche giorno fa.
-    Racconta. – Inspirai profondamente.
-    Non è che mi ricordi molto, so solo che mi ha turbata.
-    Cosa ricordi? – Si versò l’acqua in un bicchiere e la sorseggiò.
-    Acqua e roccia. Nient’altro.
-    Beh, è un po’ poco. Ci dev’essere qualcosa di più. Come ti sentivi?
Lo guardai confusa. – Che intendi?
-    Che emozioni provavi.
Rievocai quelle immagini sfocate che mi affollavano la mente. Non mi ero concentrata sulle mie sensazioni, ma la risposta arrivò come se l’avessi saputa già da tempo.
-    Paura.
-    Paura? – ripetè. – Perché?
-    Io ho paura dell’acqua. – Orlando alzò gli occhi dal giornale.
-    Come come? Ho sentito bene?
-    No Orlie, hai sentito benissimo. Io ho paura dell’acqua. Non so nuotare.
Sembrava sconvolto. – Peter lo sa?
-    Penso di sì.
Orlando sfoderò una momentanea faccia da poker, poi, lentamente, chiuse il giornale e lo mise dentro al suo zaino. – Avresti dovuto dirmelo. – disse senza guardarmi in faccia. Viggo si allontanò da me e fece finta di cercare qualcosa dentro al suo borsone.
-    Lo so – dissi – ma mi vergognavo.
Per qualche strano motivo, sentivo la tensione crescere fra me e lui. Chiuse lentamente la cerniera dello zaino e poi mi guardò.
-    Non fa niente – sorrise. – Dovremo solo fare attenzione. – La tensione svanì. – Poi un giorno ti insegnerò a non avere più paura dell’acqua.
Lo ringraziai silenziosamente.  L’aereo cominciò a scendere dolcemente.

Viggo, Bean, Orlando ed io aspettavamo i nostri bagagli.
-    Oh, ecco il mio! – esclamò Bean e lo prese al volo, tirandoselo quasi sui piedi.
-    Sapete – Orlando adocchiò il suo e lo prese di volata. – non sapevo che
Queenstown avesse un aeroporto.
-    Io non sapevo nemmeno che Queenstown esistesse. – Dissi. Trovai la mia valigia e la sollevai con molta fatica dal nastro trasportatore.
-    Complimenti Lesley, complimenti per la conoscenza approfondita della geografia neozelandese. – commentò Orlando.
-    Ma smettila! Sai in che regione siamo?
Orlando sembrò preso in contropiede. Aggrottò le sopracciglia e arricciò le labbra, evitando il mio sguardo. Aprì la bocca un paio di volte, ma entrambe le volte la richiuse subito, senza parole.
-    Siamo nella regione Otago. – Disse Viggo, interrompendo il mio principio di
risata. – Ci voltammo verso di lui e lui, impassibile, posò la valigia a terra, incrociò le braccia e disse: - Ignoranti.

Fuori dall’aeroporto ci aspettava un operatore della crew con una specie di grande taxi, un furgoncino-taxi. Una macchina abbastanza grande da permettere a quattro attori e i loro bagagli di stare seduti comodamente senza stripparsi a vicenda. Quindi io mi sedetti davanti, Orlando, Bean e Viggo dietro. L’autista che era venuto a prenderci ci avrebbe scortato direttamente in albergo.
-    Non deve essere un albergo molto lontano dalla location, vero? – chiesi all’uomo appena imboccammo la strada principale.
-    È il primo hotel adatto a voi che si incontra sulla strada, signorina Dalton. –
Rispose ossequiente l’uomo.
-    La prego, mi chiami Lesley.
-    Ok, e lei mi chiami Steve.
-    Interessante la sua tattica nel fare nuove amicizie – commentò Bean,
probabilmente riferendosi a me.
-    Capacità che magari tu non avrai mai – ribatté Orlando.
-    1 a 0, palla al centro. – disse Viggo.
La macchina prese la seconda uscita ad una rotonda e imboccò Kawarau Road.
- Vedete, la strada è veramente molto semplice – ci spiegò Steve. – Basta fare qualche curva, e per il resto è tutto dritto. Ci vogliono circa dieci minuti. – Ci immergemmo in uno spazio meraviglioso: a sinistra si affacciavano le case di Queenstown, a destra verdi prati e alberi.
La strada continuò dritta per qualche minuto, poi ad un’altra rotonda Steve prese la prima uscita ed entrò a  Frankton Road. – Ora è sempre dritto. La destinazione è sulla sinistra.
Percorse tutta la strada e ad un tratto il paesaggio cambiò: la strada si affacciava sulla destra su un bosco di fitti alberi. Sempre dritto, sempre dritto, sempre dritto. A sinistra cominciammo a scorgere le acque del lago.
- Non posso credere che questo sia un lago. Dev’essere il mare, è troppo grande! – dissi estasiata osservando le placide acque del lago solcate da qualche motoscafo, canoa e, a volte, romantiche barchette a remi. Continuammo a costeggiare il lago. Avevo perso la cognizione del tempo quando Steve frenò la macchina e ci annunciò di essere arrivati.
Scendemmo di corsa dalla macchina e salimmo sul marciapiede, ma quasi immediatamente rimanemmo come statue di sale.
L’ “albergo”, se così si poteva definire, si affacciava direttamente sulle acque del lago e aveva una splendida facciata blu ricca di archi. Un cartello ci diceva “Villa del Lago”*.
-    Io devo andare alla location. Se vi serve qualcosa, beh…. Chiamate qualcuno.
Steve saltò in macchina, lasciandoci soli a bocca aperta davanti a quella meraviglia di posto.
-    E questo sarebbe il primo hotel adatto a noi che si trova sulla strada? – esclamò Bean. – Ne avrò visti passare venticinque, di hotel!
-    Credo che “adatto a noi” voglia dire a “luogo fantastico a cinque stelle dove possiamo alloggiare come sultani” – dissi a mezza voce.
Orlando saltellò contento. – Non voglio più tornare a Londra, non voglio più tornare a Londra!! Questo è il posto più bello del mondo!

Appena entrammo in quello splendido hotel di lusso un facchino ci prese i bagagli e ce li posizionò ordinatamente in fila su un carrello di ottone che si era portato dietro. Viggo si avvicinò per parlare con l’addetta alla reception, una donna di circa vent’anni con i capelli scuri legati in uno chignon e con un bel sorriso sulle labbra.
Viggo appoggiò un gomito sul bancone e, piegandosi in avanti, parlò a bassa voce, come faceva quando doveva parlare degli affari suoi – o quando non era a suo agio, ma non capitava quasi mai.
-    Buongiorno.
-    Buongiorno – ricambiò lei. – Fate parte del cast del Signore degli Anelli? Ci sono
delle stanze prenotate per voi. Ce ne sono molte, ma mi hanno detto di consegnarvi una singola e una da tre. Ovviamente tutte sono munite di soggiorno con caminetto e cucina.
L’aveva detto come se una stanza d’albergo con soggiorno e caminetto fosse una cosa normale, una cosa ordinaria.
Viggo prese le due chiavi che la signorina gli porgeva e si diresse verso di noi.
- Signor Mortensen – lo fermò lei. Viggo si voltò e vide che gli porgeva un foglio da lettera con il logo blu dell’albergo in cima. – La prego, mi farebbe un autografo, cortesemente?
Viggo ritornò al bancone e fece svolazzare la penna scribacchiando la propria firma, mentre lei lo guardava con trepidazione. Quando Viggo ebbe posato la penna, lo sguardo della signorina si posò su Orlando. – Lei è Orlando Bloom? La prego, un autografo!
Orlando l’accontentò, e subito dopo lei volle anche quello di Bean. Quando anche Bean l’ebbe accontentata, mi porse il foglio. – Sa, io l’ho vista sulle copertine dei giornali – cinguettò. – Congratulazioni! – esclamò con un sorriso a trentadue denti palleggiando lo sguardo fra me e Orlie. – Grazie mille, non voglio trattenervi oltre. Per le stanze di là.
Ci indicò una precisa direzione sulla sinistra, verso suntuose scale di marmo e corrimano in ottone.
Prima di salire le scale, ci consultammo.
-    Allora, credo che la singola tocchi alla nostra piccola Les. – disse Viggo,
porgendomi la chiave. – Quella a tre la prenderemo noi.
-    Sicura, Les? – mi chiese Orlando. Notai una vaga punta di malizia nella sua voce. –
Potremmo condividere la singola. Sono certo che ci sia il letto matrimoniale.
La proposta, per qualche oscuro motivo, mi turbò. Orlando, dapprima sorridente, mi guardò perplesso e con lo sguardo di chi non è sicuro di aver detto una cosa gradita.
– Les? – abbozzò.
-    Eh… noi, ragazzi, andiamo. Dai Viggo! – Bean si trascinò Viggo su per le scale, ma
poi ci ripensarono e presero l’ascensore.
-    Les, ho detto qualcosa di sbagliato? – si avvicinò e mi toccò una mano.
-    No, solo che… la convivenza?
-    Les, non intendevo questo, stavo solo scherzando! – si scusò in fretta.
-    Lo so, Orlie, ma… in ogni caso… non mi sento ancora pronta per una cosa del genere.
Non rispose subito. - Capisco.
-    Ehi, OB – lo fermai. – Io ti amo, lo sai.
Posò la valigia a terra e si chinò a baciarmi. – Lo so – disse. – Dopotutto, non dobbiamo per forza cominciare con la convivenza, no? Possiamo accontentarci di qualche notte passata assieme! – mi fece l’occhiolino.
Si caricò la valigia in spalla e prese in mano la mia, guardò il numero della mia stanza nella chiave che tenevo ancora in mano e, dando un’occhiata in giro, salì le scale. Quella piccola rampa di scalini dava a un corridoio, e al muro era appeso un cartello che portava, in scrittura fine ed elegante, il testo “Alle camere 11  15”.
-    La tua è la 12. Per di qua. – disse Orlando. Percorremmo il corridoio e,
oltrepassata una portafinestra di vetro, scendemmo delle scale all’aria aperta, percorremmo un vialetto con vari fiori piantati ai lati. La porta della stanza 12 era a sinistra. Infilai la chiave nella toppa e la girai. La porta si aprì dolcemente e senza fare il minimo rumore. Non credetti ai miei occhi.
Era la stanza più bella che io abbia mai visto e immaginato. La porta blu che avevo aperto si affacciava su un salotto con moquette scura al pavimento. C’era un divano blu rivolto verso un caminetto incassato nel muro, e dietro un tavolo in legno circondato da sedie. Dietro al tavolo, un meraviglioso piano cottura, con banconi lucidi e ben organizzati. Poltrone di pelle erano sparse per la stanza e accanto al caminetto un televisore al plasma. Una portafinestra si affacciava su un grande balcone con un tavolino rotondo di metallo e una fantastica vista sul lago.
- Caspita! – commentò ammirato Orlando posando la mia valigia per terra. – Che lusso!
- Grazie mille Orlie – dissi. – Ora sistemo la roba.
- D’accordo. – disse. – Poi ti racconto com’è la nostra!
Uscì dalla porta e io la chiusi. Poi mi voltai, presi la valigia e andai verso la camera da letto. Dominava un suntuoso letto matrimoniale, con coperte bianche, e una camera armadio. Il bagno poi, non ne parliamo. Era grande poco meno della camera da letto, aveva piastrelle al pavimento e al muro, e una grande vasca da bagno.
Mi ritrovai a condividere lo stesso pensiero di Orlando.
-    Non voglio più tornare a casa! – cinguettai, mettendomi a saltare in giro per la
stanza.

Era mezzogiorno. Avevo sistemato le mie cose nella cabina armadio e nel bagno, aperto tutti i cassetti, provato la tv, aperto il frigorifero – pieno di cibo! -, mi ero buttata a pesce sul letto, ingozzata di coca-cola dentro al freezer, stiracchiata all’aria gelida di Queenstown e… il cellulare aveva interrotto la mia calma cosmica.
- Buongiorno principessa! – mi aveva salutato Viggo. – Mi dispiace interrompere la tua calma materialmente beata, ma ci attendono tutti alla location. Sei tu che vieni a prenderci o ti dobbiamo prelevare? Vestiti pesante! Si va a esercitarci sul fiume.
- No no, vengo io. Che numero è?
- Che giorno è oggi? – rispose, e riattaccò.

Bussai alla porta della stanza 20 e Bean venne ad aprirmi. Avevo indossato una felpa rossa e delle scarpe da trekking.
-    Ciao Les! Pronta?
Uscirono tutti e tre di corsa, come se non volevano farmi vedere com’era il loro appartamento superlusso.
Posammo le chiavi alla reception e salimmo in macchina. Venni a sapere che John Mahaffie, director della seconda troupe, aveva spiegato ai ragazzi come raggiungere il set.

-    Certo, Viggo, che invece di farmi l’indovinello, anche se non molto difficile,
avresti potuto dirmi direttamente il numero della stanza.
-    Dai Les – rispose lui, con gli occhi incollati sulla strada e le mani ben piazzate sul
volante -  l’hai detto tu, non era così terribile. Tant’è che sei arrivata subito… e poi tenere in attività il tuo cervellino è una delle mie missioni segrete. Questione di vita o di morte portarla a termine è.
-    Com’è che adesso parli come Yoda? – chiese Bean.
-    Semplice Bean, io sono Yoda. Solo… più figo.
-    A proposito Les, ci onorerai della tua presenza stasera? – chiese chinandosi verso
di me e dandomi un colpetto sulla spalla.
-    Certo! – risposi - Monopoli?
-    Veramente pensavamo di più a Risiko!. – mi informò Orlando ridacchiando.
Sapevano che la strategia militare era il mio tallone d’Achille.
Viggo frenò e spense il motore: eravamo arrivati.

Il set era stato montato sul fiume Kawarau, abbastanza discosto dalla città. Era un corso d’acqua che aveva scavato la roccia, aprendosi la strada in mezzo agli scogli e alla dura roccia. Il dirupo dal quale era protetto doveva essere il frutto di migliaia di anni di scavi e erosione da parte dell’acqua.
Quando ci fecero indossare i salvagente e l’istruttore di canoa ci spiegò che percorso seguire, ci disse immediatamente che in quel punto la corrente era molto forte. La tensione mi attanagliò lo stomaco, ma cercai di reprimerla, pensando che barche di salvataggio erano pronte per darci una mano alla minima necessità. Orlando doveva aver notato la mia preoccupazione, perché mi prese per mano e mi rivolse uno sguardo che diceva espressamente: “Andrà tutto bene”.
Salimmo sulle canoe insieme alle piccole controfigure degli Hobbit e Brett, la controfigura di John Rhys-Davies. Avevo già lavorato con loro in precedenza, ma non li conoscevo ancora bene perché non avevamo passato molto tempo con loro, a differenza dei quattro Hobbit. Brett era la controfigura di Gimli, e toccava a me e Orlando scarrozzarcelo dietro – non che per me fosse un problema, ma per quanto leggero che fosse, era sempre del peso in più.
Ma dovevo dare retta a Orlando. Sarebbe andato tutto bene. Di questo ne ero certa. Saltai sulla canoa e impugnai il remo, pronta a combattere la mia paura dell’acqua.

Era stato il primo allenamento con le controfigure che avevamo fatto fino a quel momento. Decisamente molto più faticoso, sommato al peso in più e alla forte corrente che dominava in quel tratto di fiume. Tuttavia riuscimmo a tenere a bada le barche piuttosto bene in discesa, anche se risalire il fiume era un’impresa tanto impossibile quanto sfiancante.
Subito dopo aver finito di provare e riprovare Viggo, Bean, Orlando e io tornammo a Villa. Andai direttamente nella loro camera – che, per la cronaca, era situata su tre piani ed era anche più bella della mia. Viggo ci diede prova della sua abilità di cuoco preparandoci una deliziosa pasta alla puttanesca. Mangiammo come se non l’avessimo mai fatto prima, sparecchiammo e preparammo la tavola per Risiko!.

-    E ora, dopo aver attaccato il Quebec, mi dirigo verso le truppe viola di Lesley. Ti
attacco con tre carri armati – annunciò Orlando puntando tre modellini verso il mio povero, sconsolato ultimo modellino viola esistente sul territorio del Quebec.
-    Guarda, è inutile che ti scomodi! Mi arrendo! – annunciai, e tolsi il carrettino
armato dal tabellone. Orlie fu ben felice di riempire lo spazio vuoto con tre dei suoi carri armati neri. Ormai il mio obbiettivo, quello di distruggere le armati marroni, era andato a farsi benedire.
- Tocca a me! – disse Bean. Appoggiò il mento su una mano e si mise ad analizzare il tabellone.
-    Quando arrivano gli Hobbit? – chiesi, bevendo un lungo sorso d’acqua dal
bicchiere di vetro con incise sopra le iniziali dell’albergo.
-    Dovrebbero arrivare stanotte tardi, ma credo che li vedremo solo domattina. –
rispose Viggo buttandosi l’ennesima nocciolina in bocca.
- Ma ci credete che abbiamo quasi finito la Compagnia dell’Anello? Mancano solo tre o quattro location e poi passiamo a Le Due Torri. Che bello, mi toccherà schiattare! – sdrammatizzò Bean continuando a fissare il tabellone.
-    Ehi, Les, domattina ti va di provare a guidare? – chiese Orlando mentre si
illuminava ma poi si rimetteva a pensare.
-    Non credo sia il caso di mettere a rischio la vita di poveri innocenti mettendomi
in mano un volante, Ol. – risposi giocherellando con un carro armato. Viggo rise.
-    Ma no, non intendevo fin da subito. Conosco una strada secondaria per arrivare
alla location. La mia idea era: guido io fino fuori città, e poi sali tu.
-    Potrebbe essere un’idea! Anche se non credo di fare faville. Se guiderò bene come
ho guidato le mie truppe purpuree, puoi star certo che ci perderemo. – Sbadigliai. – Beh, meno male che Sauron non mi ha affidato la guida delle sue truppe. Sarebbe stato fin troppo facile sconfiggerlo – scherzai. – Mi arrendo. Tanto il Quebec era il mio ultimo territorio rimasto. Io me ne vado a letto.
-    Dai, ti accompagno! – saltò su Orlie. Mi aprì la porta e gli diedi la buonanotte con
un tranquillo bacio.
-    Ci vediamo domani – lo salutai.
-    Sicuro! Buonanotte.

Non fu difficile trovare la porta del mio appartamentino, anche perché i corridoi e i viali erano illuminati a giorno. Mentre passavo, scorsi qualche altro ospite, e lo salutai. Impressionante come tutti in quell’albergo fossero felici e sereni. Dovevano avere dei portafogli ben imbottiti, per permettersi quel posto.
Entrai in camera, accesi la luce e aprii la portafinestra per cambiare l’aria e osservai le acque scure del lago. L’acqua era un elemento straordinario, capace di scavare la roccia, sconfiggere il fuoco e nutrire la terra. Perché ne avevo così tanta paura? Qualche anno prima avevo letto da qualche parte che era una cosa psicologica, dovuta probabilmente a qualche trauma subito da piccoli. Ma io non avevo subito nessun trauma. Avevo dovuto inventare con Elijah, tempo prima, perché mi stava mettendo alle strette e dovevo trovare una scusa plausibile, ma la verità era che io non avevo neanche il coraggio di avvicinarmici. I miei avevano provato a iscrivermi ad un corso di nuoto, quando ero piccola, ma non avevo neanche osato mettere un dito nell’acqua e la piscina dovette rimborsarli. Mio padre voleva farmi vedere da qualche psicologo, ma mia madre era contraria a qualsiasi tipo di terapia psicologica. Spesso mi diceva: “Oh, tesoro, nessuno può sapere quello che c’è nella tua testa meglio di te. Devi imparare a gestirlo da sola”. Così il mio “problema” non venne mai risolto. Più volte avevo tentato di avvicinarmi all’acqua del mare, dicendomi che non c’era nulla da temere, ma non c’ero mai riuscita.
Sospirando, chiusi la portafinestra. Andai in camera, mi cambiai e mi infilai sotto le coperte. Rimasi a riflettere per qualche minuto, poi mi addormentai.

La mattina dopo mi svegliai di buon’ora, fresca e riposata: avevo dormito benissimo in quel letto regale. Feci colazione con un po’ di latte trovato nel frigorifero, mi lavai, mi vestii e uscii, dopo aver controllato di aver lasciato tutto in ordine.
Prima di uscire dall’albergo mi infilai un paio di occhiali da sole – anche se si congelava -, salutai l’addetto alla reception e, dopo essere uscita, andai dalla macchina messa a disposizione per noi quattro. Non passò molto tempo prima di vedere Bean, Viggo e Orlando camminare scherzando verso di me.
-    Buongiorno! – mi salutò allegro Orlie. – Allora, pronta per guidare?
-    In effetti, Orlie, ti andrebbe se lo facciamo un’altra volta? Siamo già abbastanza in
ritardo e per arrivare alla location ci vuole mezz’ora.
-    D’accordo! Magari proveremo stasera, dopo le riprese. Non possiamo guidare delle canoe al buio.
Saltò in macchina, salito a ruota da me, Viggo e Bean.

Sul set ci aspettavano i truccatori, le controfigure, i cameraman e John Mahaffie. Erano tutti pronti a partire, ed erano le sette del mattino. I costumisti ci consegnarono un salvagente ciascuno e i nostri costumi, e ci indicarono un capannone per cambiarci. Poi, i truccatori ci presero da parte e misero a me e Orlando le protesi alle orecchie – beati Viggo e Bean, che essendo uomini non ne avevano bisogno. Quando fummo tutti pronti, potemmo partire. Era chiaro che tutti noi pensavamo la stessa cosa: “Dopo tutto questo esercizio, finalmente possiamo far vedere quanto ci siamo impegnati”. Prima di cominciare a remare, Orlie si voltò verso di me e disse:
-    Non preoccuparti Les, non può succederti niente finchè ci sono io. Se hai paura, prendi la mia mano.
-    Orlie, come faccio a prenderti la mano se sto remando?
Stava per rispondere, quando John disse “azione!” e noi partimmo. Mi concentrai subito solo nel remare: la corrente era più forte del giorno prima, e quel tratto di fiume era pieno di scogli appuntiti e affilati. Scendemmo e risalimmo più e più volte. La prima volta John era contento, ma – per ordine di Peter – dovevamo fare più riprese, e lui era ben contento di accontentare il nostro regista primario.
In quella scena solo Viggo doveva parlare, e svolse il suo lavoro in modo come al solito eccellente, ma anche lui si lasciò prendere dalla foga. La prima volta si dimenticò un pezzo di battuta; la seconda volta, mentre scendevamo, sentimmo Viggo che strillava “Cosa???”, così, ridendo, dovemmo risalire di nuovo il fiume; la terza volta tutto andò bene, ma John la volle rifare. Cominciavo a sentire la forza dell’acqua e la stanchezza, e pensai che magari era lo stesso anche per gli altri: era chiaro che stavamo facendo fatica. Anche se cercavamo di non darlo a vedere, ansimavamo.
Stavamo risalendo il fiume per la quarta volta, ma la corrente aumentò. Forse per un motivo scientifico, o forse era solo una mia impressione dovuta alla stanchezza delle mie braccia: fatto sta che la nostra barca cominciò a prendere colpi e a seguire il flusso dell’acqua. Un operatore, prontissimo, afferrò la prua della barca, per trattenerci. La paura cominciò a impossessarsi di me. L’operatore teneva ferma la barca, ma la corrente era tale che la barca cominciò a riempirsi.
-    Oh mio Dio! – urlai. A riva cominciarono a muoversi.
-    Molla la presa! Molla la presa! – continuava a gridare Orlando rivolto
all’operatore, ma lui non cedeva. Orlando si voltò e mi prese forte la mano.
La barca fu sommersa. Finimmo sott’acqua.
Nonostante avessi stretto convulsamente la mano di Orlando, la corrente me la fece scivolare via, facendomi ritrovare sola e terrorizzata in mezzo ai flutti. Non riuscivo a risalire, mi agitavo convulsamente. Migliaia di bollicine sguazzavano veloci intorno a me verso la superficie, mentre andavo, andavo, andavo.
In un lampo di lucidità mi ricordai del salvagente. Tirai la corda, ma non si gonfiò.
Ero terrorizzata perché non sapevo nuotare. Perché il mio salvagente non si era gonfiato. Perché c’era un fiume che mi stava trascinando via dritta verso gli scogli.
Sott’acqua, il mio corpo non ce la fece più e in una contrazione muscolare inalò acqua. Sentii il liquido scendermi fin dentro ai polmoni. Il mondo cominciò a diventare sempre più scuro.
Sbattei contro qualcosa di duro e appuntito, che riuscì a bloccarmi per un po’ di tempo. Ormai lasciai perdere i ragionamenti e seguii l’istinto.
Cercai di aggrapparmi allo scoglio. Ferendomi, ma aggrappandomi. Fu quasi un miracolo riuscire a sentire la scarica di adrenalina che mi invase i muscoli e il cuore.
Facendo leva con le braccia riuscii a issarmi fuori dall’acqua, ma non riuscivo a inspirare aria.
Paonazza, appoggiai una mano sulla superficie bagnata e scivolosa dello scoglio. La mia mano scivolò.
Vidi avvicinarsi la dura roccia a velocità inaudita.
Crack! Sentii fare la mia fronte.
Poi, il buio.

Dovete perdonarmi per la lunghezza inaudita di questo capitolo e per l’attesa a cui vi ho costretti, ma spero di avervi ripagati con il contenuto di queste undici, lunghissime pagine di Word. Ma il mio obbiettivo era finire il capitolo in questo modo e non mi sono fermata finchè non l’ho raggiunto. Per Niniel: spero che non sia troppo per te!
Fatemi sapere che ne pensate, è molto importante per me!
* L’hotel Villa del Lago non è di mia invenzione, ma esiste realmente. Nominandolo qui non intendo violare diritti d’autore o roba del genere.
   
 
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su attori > Cast Il Signore degli Anelli / Vai alla pagina dell'autore: Panenutella