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Autore: Less_    07/12/2011    1 recensioni
«Buongiorno». «Buongiorno» il miracolo della pazzia. Solo uno squinternato quanto me potrebbe avere voglia di scandire e solo uno più squinternato di me potrebbe avere voglia di gioire. È mattina. Fa freddo. Se non sbaglio sta anche per piovere. «Sono le otto meno dieci». Sono sempre le otto meno dieci, quando arriviamo in città. Non so se mi spiego. Potrebbe essere l’una di notte, e lo stesso mi verrebbe automatico dire ‘sono le otto meno dieci’. Deformazione professionale, suppongo.
Genere: Comico, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Dopotutto non credevo che avrei dato loro ascolto. Voglio dire, sono qui a scrivere di me – oh mio dio, è impensabile, proprio di me –, su consiglio di un paio delle mie personalità. Che si odiano, fra parentesi.
Ma poi cosa dovrei scrivere? Mi suona tanto di autocelebrazione.
Sospiro. Sono completamente pazza. Non ci credo che sto davvero pensando di farlo. Non ci credo che lo sto davvero facendo.
Bene, visto che è la prima volta che lo faccio, e che non ne ho la minima voglia, penso che comincerò dandovi oziose ed inutili informazioni su quello che mi succede.
Sono le sei e venticinque di mercoledì. Sto ancora cercando di scrollarmi di dosso l’odiosa sensazione di aver sbagliato qualcosa. Per inciso, quel qualcosa è l’aver voluto incontrare un ragazzo che mi piace. Piaceva. Piace.
I pantaloni del pigiama mi scivolano sui fianchi. Oh, davvero elegante, davvero.
Mi tasto la pancia. È davvero vuota, e se cerco di gonfiarla non si espande. Sarebbe spaventoso, se non sapessi di mangiare più che abbastanza.
Ho deciso che è un ‘piaceva’, comunque.
I primi venticinque minuti della mia esistenza, anche per questo giorno, sono completamente dimenticati. È inutile, niente da fare, sono ancora completamente sballata.
Giro la chiave nella serratura e apro la porta. Lotto per non svellere la porta dai cardini, per poi realizzare di aver mollato la colazione in frigo. Fantastico. C’è mancato un pelo che mia madre mi sospettasse di anoressia. Sfreccio in cucina e recupero il mio desinare. Sono di nuovo fuori. L’aria è fredda – veramente è gelida, e ci metto pochi secondi a perdere sensibilità alle dita.
Dannazione. Ecco un circolo vizioso: vorrei tornare dentro a prendere i guanti, o almeno mettere le mani in tasca, però ho il libro per mano. E non posso mettere il libro in borsa – sarebbe controproducente, visto che non ne ho la minima cura – né lasciarlo a casa, che equivarrebbe a svariate ore di noia, nonché ad un fuoco di fila di domande scioccate sul perché non abbia un libro con me. Ma principalmente per la noia.
Scendo le scale e faccio l’inutile tragitto fino alla fermata dell’autobus. Inutile, sul serio. Potrei attraversare tagliando attraverso il giardino del bar, ma non voglio farlo. C’è del fango. E poi non sono nota per il mio equilibrio.
Okay, breve flash-forward: per i prossimi dieci minuti aspetterò sotto al lampione. L’autista arriverà tardi. Forse leggerò o forse ascolterò la musica.
I miei vicini arriveranno dopo di me, perché loro abitano nella casa vicina al bar, e non devono fare uno stupido safari per arrivare in tempo. Il fratello piccolo non mi saluterà, e la sorella grande non mi saluterà, ma lo rimprovererà per non avermi salutato.
Che palle. Fa freddo.
Piace. Piaceva. No, è decisamente più un ‘piaceva’. L’unico motivo per cui continuo ad immaginare di trovarlo ad aspettarmi per chiedermi una seconda possibilità è semplice istinto di conservazione. Vorrei non essere io il problema.
D’accordo, cazzate. Piace.
Piaceva.
«Buongiorno».
«’giorno».
Logorrea di prima mattina. Adorabile.
Okay, c’è il ragazzo, che chiameremo Biondo, davanti alla panchina sulla quale sedeva l’anno scorso, prima della bocciatura e della scuola privata e tutto il resto. Dio, me li scelgo con il lumicino. Comunque, c’è il Biondo che cincischia guardandosi i piedi – questo è rammarico, Lie to me rulez. Io arrivo, e rimango impalata a bocca aperta, e poi... dannazione, il tempismo dell’autista è seriamente schifoso.
Salgo sull’autobus, tipo letargica, tentando di coordinare la mano che regge il libro e un fumetto che devo restituire e tutto il resto del corpo affinché io non combini un disastro di proporzioni epiche. Ovviamente riesco solo in parte nel mio intento; gli altri pendolari sono illesi, ma il mio polso destro inizia a mandarmi fitte estremamente dolorose, che suonano come un ‘bene, a te non frega niente di me? E io ti ammazzo di dolore’. Veramente efficace.
In più sospetto che sia un canale di comunicazione a senso unico, perché non riesco a spiegare più o meno questo ‘scusa, non volevo. Mi spiace tanto. Sono impedita e me ne rammarico. Puoi perdonarmi?’.
La cosa veramente triste è che queste cose le sto pensando davvero, e non solo per poi scriverle da qualche parte.
Davvero. Triste.
Siccome sono le sette e un quarto, c’è una ragionevole probabilità che il pullman della mia linea sia già passato. Siccome l’unica cosa peggiore di perdere l’autobus è quasi perderlo e doversi sbracciare come uno psicolabile per farlo fermare, ovviamente succede quello.
L’evento più traumatico dell’intera mattinata, oserei dire, è quello di dovermi sedere al posto vicino al finestrino, che mia cugina tiene occupato per me. Non sarebbe un problema per una persona normale. E non lo sarebbe neanche per me, se non fosse che sono dotata di uno scarsissimo senso dell’equilibrio e di una coordinazione ancora minore. Mia cugina emette un gemito quando i miei dieci kili di libri le martoriano la spalla.
Un ipotetico modo per ovviare al problema sarebbe che io mi sedessi nel posto che dà sul corridoio. Quando suggerisco l’idea, cosa che faccio più o meno ogni tre giorni, mia cugina la scarica, liquidandomi con un ‘ma tanto io scendo prima’. Ci sarebbe da rispondere qualcosa come ‘ma tanto la spalla è tua’, però lei è la mia cugina preferita.
Atterro con un tonfo decisamente sgraziato sul sedile.
«Buongiorno».
«’giorno».
Come dicevo, logorrea mattutina. Veramente adorabile.
«Come va?». Ancora prima che risponda, so che la risposta oscilla fra ‘male’ o ‘peggio’ anche stamattina.
«Male». Be’, non c’è che dire, sono stata fortunata.
«In una scala che va da ‘tanto’ a ‘di più’, quanto ti ho uccisa?».
«Tanto». Questa che è fortuna, gente.
«Scusa».
Sorride. Sa quanto me che non c’è speranza che domani, o il giorno successivo, vada meglio.
«Quanto hai dormito?».
Altra domanda relativamente inutile e alquanto retorica. Intuisco che, stamattina, almeno quattro ore di sonno sono state portate a compimento. La cosa irritante è che io ho lo stesso aspetto da cocainomane in astinenza, solo che dormo sempre tipo nove ore per notte. Sia chiaro, nessuna delle due si droga. Anche se forse, a questo punto, più che altro aiuterebbe.
«Quattro ore». Bingo!
«Cosa devi studiare?».
È mercoledì, quindi lo so già. Dev’essere storia.
Ma oggi la risposta è sorprendente.
«Storia dell’arte e chimica».
Oh, bene. Una doppietta. O meglio, un ambo.
«Io penso che dormirò. Oggi ho educazione fisica e penso che scoprirò in mondovisione quanto esattamente io sia impedita e non sappia fare un bagher. Ovviamente lo so già, però senza l’ebbrezza di ventiquattro telespettatori. Venticinque, contando il bidello. Farà schifo».
Mia cugina annuisce. Ha sempre gli auricolari infilati nelle orecchie, non si sa perché. Forse anche a lei piacerebbe affogarmi, ogni tanto.
Ed è così che, ancora una volta, mi sono definitivamente svegliata prima di chiunque altro. I primi giorni sono sempre un gran casino, sul pullman. Immagino che con il tempo la carenza di sonno uccida anche i primini.
Li odio, i primini. Che schifo.
Quaranta minuti e due canzoni in croce ripetute ossessivamente dopo siamo in città. Ah, davvero bella. Così tanto che, tornando da Parigi, mi venne un collasso nervoso, un anno fa.
Sorvolo. Prima della mia fermata mancano due semafori e, quant’è vero che sono cinica, li prenderemo tutti rossi.
Forse potrei risultare persino piacevole, se non dovessi fronteggiare tutta questa merda per tutti i giorni della settimana.
Rosso. Verde. Rosso. Verde.
L’autobus si ferma prima che la canzone che sto ascoltando possa finire. E sì che è la mia ultima fissazione, e l’avrò sentita almeno sessanta volte da che l’hanno rilasciata, però inspiegabilmente mi trascino dietro una sensazione di incompletezza.
«Buongiorno».
«Buongiorno» il miracolo della pazzia. Solo uno squinternato quanto me potrebbe avere voglia di scandire e solo uno più squinternato di me potrebbe avere voglia di gioire.
È mattina. Fa freddo.
Se non sbaglio sta anche per piovere.
«Sono le otto meno dieci».
Sono sempre le otto meno dieci, quando arriviamo in città. Non so se mi spiego. Potrebbe essere l’una di notte, e lo stesso mi verrebbe automatico dire ‘sono le otto meno dieci’.
Deformazione professionale, suppongo.
Stamattina anche il mio accompagnatore è taciturno. È un ragazzo, e l’unico motivo per cui tollero la sua presenza è che ha due anni più di me. Penso che se fosse altrimenti uscirei di testa.
Forse potrei risultare persino piacevole, se non dovessi avere a che fare con i musi lunghi della gente abitualmente gaia.
«Non dici niente?». A volte perfino il mio marmoreo autocontrollo si incrina.
«Uhm, no. Stavo pensando ad una domanda intelligente da farle».
«Mmm. Fantastico».
Questo ha anche voglia di darmi del lei. E ovviamente io farò lo stesso, più per inerzia che per altro.
«Secondo lei perché ridiamo?».
Sono disarmata. Abbiamo percorso venti metri scarsi, ed è già pronto con le domande esistenziali. La mia voce ha un ridicolo innalzamento di tono mentre, frustrata, mi accingo a rispondere.
«Non lo so... ridiamo perché qualcosa è... divertente?».
Mi sembra di essere in un collegio di monaci zen. Metti la cera, togli la cera.
«Mmm... secondo me perché qualcosa è assurdo».
Forse non erano monaci... fa lo stesso.
Fortunatamente il tempo a nostra disposizione è limitato; il tempo di percorrere altri cinque metri, ed è fatta. Mi sono liberata della filosofia per le prossime cinque ore, se tutto va bene.
«Buona giornata».
«Ciao».
L’altrui loquacità mi fiacca alquanto.
Infilo le cuffie e mi godo i primi sessanta metri di vera solitudine della giornata.
Penso che, in fin dei conti, con Messer l’Accompagnatore Le-do-del-Lei esco di testa lo stesso, solo che almeno lui non ha bisogno della scusa dell’immaturità per seccarmi.
La canzone che sto ascoltando è la stessa di prima, quella messa in replay per tipo settanta volte. Mi domando quando mi stomacherà. Quel momento non sembra troppo vicino, comunque.
Fronteggio ancora marciapiedi troppo alti e asfalto sconnesso. Quando arrivo di fronte alla scuola sono le otto meno cinque, e ne ho abbastanza di solitudine. Se non fosse dicembre e le mie mani non rischiassero di cadermi, blu e ipotermiche, passerei il mio tempo a leggere.
Però effettivamente è dicembre, e le mie mani sono sul punto di dire addio per sempre al resto del mio corpo, perciò opto per l’attesa frenetica.
Federica, la mia migliore amica, dice che sembro un gufo quando faccio così.
Tempo tre minuti e mi sono rotta di aspettare; al diavolo le mani, tanto non servono. Apro il libro e riprendo a leggere. Gioisco per non avere bisogno di segnalibri. Se ne avessi avuto uno, ora sarebbe caduto, e per raccoglierlo avrei dovuto piegarmi, cosa che non posso fare, a meno che io non voglia spezzarmi miseramente in due.
Il Malefico Stecco Mongospastico mi sfila davanti, ed ingoio una sfilza di improperi. Be’, li sussurro a mezza bocca, ma più o meno fa lo stesso.
È così ingombrante, con la sua voce potente e cafona, la sua stupida sacca da calcio che sospetto si porti appresso anche quando non ha allenamento – il tutto per avere il suo bravo stuolo di cretine lobotomizzate, dalla voce rigorosamente più acuta di almeno un ottavo rispetto al tollerabile e una risatina nervosa così irritante da scartavetrare i timpani e non solo.
E poi da quando mi ha presa di mira sono oggetto della sua attenzione, cosa che mi smonta profondamente. Un conto è l’esistenza di esseri come lui, un altro è l’interazione. Non consenziente da parte mia, fra l’altro.
Ad ogni modo passa e se ne va – non mancando di incedere in modo straziantemente lento, suppongo per dare alla sua cretina di turno la possibilità di irritarmi più di quanto già non faccia lui – e io cerco di ristabilire il controllo sulle mie sinapsi scocciate e di ignorare il fatto che esiste, vive e respira non troppo lontano da me.
Uno a zero per le mani: non posso proprio più sopportare di reggere il libro a mezz’aria. E poi non riesco nemmeno a leggere, se quel cafone continua ad essere convinto che il marciapiede sia una specie di passerella costruita in sua funzione.
I prossimi cinque minuti sono di quiete. Forse posso sperare di rilassarmi, almeno per un po’.


Terra chiama Less

Okay, è un esperimento. Questa è davvero la mia giornata tipo (be', dalle sei e mezza alle otto circa). Forse la continuerò, forse no, ma è un progetto senza impegno, e comunque non permetterò che interferisca con Beasts. Di cui non sto scrivendo, comunque.
Per domande, critiche, recensioni, curiosità eccetera ci sono. Per verdura marcia e tutto il resto, no. :)
Spero di strapparvi un sorriso.

Less.

   
 
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