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Autore: Evelyn    08/12/2011    3 recensioni
"Rivolse un ultimo sguardo ad Hilda, alla donna che amava, mentre il suo cuore perdeva un battito come ogni volta che poteva ammirarla. Sulle sue labbra tirate e pallide si stendeva un cupo sorriso, privo di calore. Come di trionfo." Ho sempre desiderato approfondire questa parte della storia dal punto di vista, per così dire, sentimentale. Sullo sfondo della guerra, amori che s'intrecciano, che nascono e che muoiono. Hyoga/Flare, Hilda/Sigfried, Hagen/Flare
Genere: Drammatico, Guerra, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Cygnus Hyoga, Un po' tutti
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo Nove




Hyoga sfiorò la sua armatura con la punta delle dita, appena. Non riusciva a non pensare che l’ultima volta che l’aveva indossata, era stato per porre fine alla vita di chi, in fondo, aveva dato un senso alla sua. Ad ogni gambale infilato ed ogni sperone stretto, i ricordi sbiaditi di un santuario immacolato e di un uomo steso a terra nel suo sangue gli risalivano attraverso i nervi agli occhi, desiderando divenire lacrima, trattenuta. I mesi passati erano stati per lui una lunga guerra interiore, costellata di punti bui. Non era servito a niente indugiare razionalmente sugli eventi al di sopra delle loro volontà personali che li avevano costretti, maestro e allievo, a confrontarsi così duramente, fino alla morte stessa, e a niente era servito il calore della sua dea, Atena, che con le braccia spalancate li aveva ringraziati tutti innalzandoli sul palmo della sua mano. Camus dell’Acquario non esisteva più ormai, e non c’era ragione o divinità in grado di far cambiare le cose.

Il cavaliere del Cigno si osservò distrattamente allo specchio oblungo disposto nella sua stanza, contemplando con distacco la lucentezza del potente metallo, la fattura cangiante, l’aspetto più deciso. Era stato Milo, Milo di Scorpio, a donare il suo sangue per la sua riparazione. Lo stesso uomo che gli aveva concesso di oltrepassare indenne le spesse mura della casa che custodiva, convinto dalla sua forza di volontà, dalla sua tenacia da neocavaliere.
“Noi siamo pronti.” l’aveva avvertito Shun senza entrare, la testa che faceva capolino dallo stipite. Il suo aspetto gracile strideva con la durezza dell’armatura di Andromeda, con le catene pesanti che si trascinava dietro come fili di seta leggeri.
“Arrivo…” disse sistemando all’altezza del suo cuore, sotto la corazza, la croce dorata che sua madre gli aveva donato da bambino, prima di scomparire sommersa dai ghiacci eterni della Siberia.

Fuori l’aria era freddissima, ma priva di vento. Il sole era stato offuscato da una nube molto scura, densa di nevischio, e l’aspetto che la terra circostante aveva presto assunto incuteva quasi timore.
“Io mi recherò subito al picco della preghiera, in vece di Hilda, sperando che possa servire a qualcosa…”
Isabel aveva sospirato, guardando negli occhi i suoi cavalieri uno ad uno.
“Voi affrettatevi a palazzo e recuperate gli zaffiri…”

Flare si era stretta addosso il cappotto di Isabel, al fianco della divinità per la quale sarebbero andati di nuovo in battaglia, per la quale, chissà, forse non sarebbero nemmeno più tornati.
“Buona fortuna, cavalieri di Atena…” aveva sussurrato tesa e triste e in colpa perché aveva pensato che era stata Hilda la causa di tutto questo, non una volontà superiore che la stava rendendo schiava. Si avvicinò per ultimo al cavaliere del Cigno, trattenendosi un po’ davanti alla sua figura marziale. Osservò i contorni decisi della sua armatura, assieme a quelli regolari del suo volto giovane e pulito, contratto d’ansia. La sua mano si mosse da sola, risoluta, a sfiorandogli la guancia gelida per il freddo.
“Ti prego, Hyoga…fa attenzione…”

Erii gli aveva rivolto parole simili a quelle, l’ultima volta. Lui aveva evitato il suo sguardo supplice e colmo d’amore, che ormai aveva imparato a indirizzargli ogni volta che avevano una discussione. Sempre più spesso di recente.

Da quando le cose erano iniziate a precipitare? Hyoga non avrebbe saputo dirlo con certezza, perché all’inizio la presenza di quella ragazza allegra e spontanea aveva avuto il potere di mitigare come un unguento miracoloso il dolore ardente che sentiva dentro, che lentamente gli divorava le viscere. Lei lo amava, comunque, anche quando, in più di un’occasione, i suoi sentimenti non si erano dimostrati all’altezza dei suoi.

Guardò negli occhi la giovane donna che aveva di fronte, bellissima, con i lunghi boccoli disordinati che le scendevano sulle spalle, e le incorniciavano il volto. Da che l’aveva conosciuta, il biondo cavaliere di Atena non era stato affatto indifferente alla sua bellezza: le iridi verdissime, profonde, il naso piccolo, le guance tornite. Flare se ne stava lì ferma, con le spalle dritte, lo sguardo avvilito. C’era una compostezza regale in quell’immagine, un misterioso decoro che la faceva apparire come il punto esatto da cui ogni cosa aveva inizio e fine. Hyoga avvertì il suo cuore stringersi, e si sorprese, perché non era come quando pensava a Camus e la sofferenza che sentiva nel petto aveva il potere di togliergli il fiato.

“Farò attenzione…te lo prometto…”

***
Quando erano arrivati i draghi, Hilda aveva appena ricevuto Beslöja. Era poco più che una ragazzina, allora, con la testa piena di sogni e di ambizioni di armonia per il suo popolo. Non sapeva ancora che la pace era solo una bolla di fragile immobilità pronta a spezzarsi da un momento all’altro, una falla temporale del corso degli eventi, una stasi innaturale in cui la vita è un sottile nastro di illusioni che si distende lentamente su un piano di menzogne. O almeno questo era stato quello che Fafnir le aveva sputato contro con alito caldo e putrescente, che odorava delle carni cotte dei soldati sfortunati che aveva smembrato con le fauci.

Era un pomeriggio stranamente assolato quello. La primavera ad Asgard sapeva essere clemente a volte, rendendo il clima di quelle gelide terre molto simile ai paesi europei delle montagne centrali, secco e sereno, sopportabile e persino gradevole anche fino a tardi. Hilda, infagottata del lungo abito sacerdotale, una veste bianca e sottile soverchiata da un ingombrante pastrano d’argento, si era concessa qualche minuto di riposo dagli esercizi spirituali a cui Dhor aveva iniziato a sottoporla da che aveva preso il velo. Alla fine, ricevere Beslöja era equivalso né più né meno ad abbracciare un’esistenza monacale fatta di solitudine e preghiera, come una qualsiasi suora cristiana.

I raggi tiepidi del mattino avevano sfiorato le sue guance impercettibilmente, fin giù le labbra. Lei aveva steso le lunghe gambe davanti a sé, seduta sul bordo della grande fontana al centro del cortile, con acqua fredda zampillante che con le temperature più basse ghiacciava in intrigati sculture affusolate.
“Buongiorno Sacra Vestale…”
Alberich aveva abbassato il capo, a fondo, inchinandosi sulle gambe forti.
“Buongiorno a te, cavaliere di Megrez. Come mai da queste parti?”
Il nobile guerriero sorrise, schermandosi gli occhi dal sole accecante con la mano guantata. Indossava l’armatura, come se fosse pronto ad andare in battaglia o attendesse una qualche cerimonia ufficiale.
“Torno da una riunione…” erano state le sue uniche parole. Hilda si strinse negli omeri, senza chiedere altro.

In lontananza, dietro l’angolo che le mura del palazzo creavano con la costruzione adiacente delle cucine apparve un’altra figura armata, alta e slanciata, che si bloccò sul posto non appena visualizzò chiaramente la scena che aveva di fronte. Il cavaliere di Orion parve fare una smorfia, come di disappunto, prima di procedere verso di loro ad ampie falcate, l’andatura consueta con cui era solito farsi strada nel mondo.
“Sacra Vestale…”
“Sigfried!” aveva esclamato lei contenta, gli occhi grandi e limpidi dei suoi sedici anni che scintillavano di sincera gioia.

Alberich aveva saputo contenere il rammarico con l’aplomb che si confaceva al suo rango e alla sua antica casata. Già da tempo il cavaliere di Megrez aveva notato la confidenza che c’era tra i due, una confidenza che né approvava né reputava degna della custode di Beslöja. Con un rigido inchino si congedò, salutando con devozione la principessa di Asgard, senza lasciar cadere neppure un rapido sguardo sul cavaliere che gli stava severamente accanto.

“Cosa voleva?” le aveva chiesto subito Sigfried, con voce dura.
“Passava di qui…mi ha detto che avete avuto una riunione…”
Sigfried sospirò, vergognandosi per la ruvidezza con cui si era rivolto ad Hilda. Si sedette accanto a lei, con un impercettibile clangore di metallo.
“Si tratta di mio zio…” rivelò in un soffio, fissando intensamente l’azzurro del cielo terso, all’orizzonte. La spiò di sottecchi, indeciso se svelarle le sue preoccupazioni.
“Tuo zio? Fafnir?”

Sigfried annuì, muovendosi a disagio sul posto. Non gli faceva piacere parlare troppo di suo zio, il fratello riuscito male di Reginn, così come molti tra i commilitoni paterni bisbigliavano con malignità al passaggio del nano dalla lingua lunga come una serpe. Fafnir non aveva ereditato nulla della bellezza che la sua famiglia si tramandava come un tesoro di generazione in generazione: piccolo, tozzo, con la testa troppo grande e gli occhi piccoli e vicini, solo la sua spavalderia era stata capace di offrire un ruolo a quell’ometto respinto brutalmente dalla fortuna. Le sue labbra carnose, eccessivamente grandi nel complesso, si muovevano rapide come una spada quando voleva, affondando terribili stilettate a chiunque avesse avuto l’ardire di non prenderlo sul serio.

“Le spie di Dhor sostengono che stia tramando una congiura…”
Hilda rimase immobile, senza sapere bene cosa dire.
“Il fatto è che…in realtà è molto probabile…nessuno trarrebbe vantaggio dal denigrare uno come Fafnir…”
La principessa poggiò una mano sul braccio di Sigfried, delicatamente, con calore.
“Mi dispiace…”
“Anche a me.”
“E cosa pensate di fare?”

Il cavaliere di Orion si prese qualche secondo per rispondere. Dhor aveva proposto le forche, un’esecuzione esemplare al picco della preghiera come monito feroce per chiunque stesse confabulando con lui, che ovviamente non poteva essere da solo. Il traditore sarebbe stato sottoposto al giudizio di Odino, un antico rituale che il sacerdote aveva imparato segretamente a compiere e che gli avrebbe permesso di sapere con certezza se il fratello deforme di Reginn fosse davvero colpevole. Anche Hilda un giorno avrebbe appreso a fare lo stesso, non ora però. Beslöja era stata calata sul suo capo troppo di recente per conferirle la giusta connessione con la natura necessaria a compiere senza pericolo il rituale.

“Ancora non lo sappiamo…” mentì, per non turbare la principessa “Dobbiamo prima saperne di più su tutta questa storia…non credi?”
“Giusto. E poi ti dirò, tuo zio mi sta simpatico…anche se è imperdonabilmente irriverente, ha mente acuta e spirito pronto.”
Fin troppo, pensò senza replicare.

Sigfried avrebbe voluto aggiungere qualcosa, per prolungare ancora quella conversazione, per avere di nuovo il piacere di ascoltare la sua voce calda, di vedere le sue labbra morbide muoversi piano, come era solita fare, fantasticando di poterne percepire la consistenza sotto le sue. Anche se Hilda ormai era solo un sogno, irrealizzabile.

Qualcosa, però, in quell’atmosfera serena e ovattata all’improvviso si ruppe. Entrambi alzarono lo sguardo al cielo, che un attimo prima appariva terso e brillante ai loro occhi, luminoso. Un’ombra scura e oblunga attraversò i raggi luminosi del sole, trafiggendo con rapidità le scarse nuvole bianche, soffici, che decoravano la volta al di sopra delle loro teste. Un urlo disumano risuonò nello spazio circostante, scuotendo le cime innevate degli alti pini, stridulo, minaccioso. Dietro altre figure scure e dall’aspetto viscido scivolavano come serpenti.

“Non è possibile…” farfugliò il cavaliere di Orion alzandosi di scatto, inaspettatamente catapultato in uno spiacevole incubo.

***

Hagen aspettava il suo avversario dall’alto di una rupe rivestita di ghiaccio impenetrabile, vicino la caverna del fuoco. Non sapeva chi fosse, che aspetto avesse e quanto fosse forte, ma poteva avvertire nitidamente un cosmo gelido molto simile al suo. A mano a mano che lo sentiva avvicinare, il cavaliere di Artax lottava per trattenersi dall’andargli incontro, smanioso di sconfiggere il nemico. Nel corso delle ultime ore, Hagen aveva percepito nelle stelle la vita dei propri compagni spegnersi, come se una ventata inarrestabile e improvvisa le avesse spazzate via in un solo colpo. Era una sconfitta che gli bruciava dentro quella. Una sconfitta che avrebbe vendicato assieme al rapimento della principessa Flare.

Si spostò dal suo avamposto, scivolando elegantemente sugli speroni. La sua armatura riverberava dei bagliori che la neve dipingeva sul pregiato metallo, foderandolo di un innaturale candore. Ancora non riusciva a credere al tradimento della donna che amava, sebbene fosse stata proprio Hilda a farglielo presente, sebbene ogni cosa lo lasciasse presagire. Flare era una persona onesta e leale, pensò vagamente, se aveva ritenuto opportuno agire in questo modo, liberando il cavaliere di Atena che impudentemente aveva osato infiltrarsi a palazzo per aiutarlo a fuggire, doveva esserci un motivo che andava certamente al di là delle apparenze. E i suoi nemici avrebbero pagato anche per questo.

Finalmente all’orizzonte apparve qualcuno. Si trattava di un giovane cavaliere, protetto di un’armatura dai colori argentei, luminosi come la neve che li circondava. Aveva un aspetto stranamente nordico, con la carnagione chiara e i capelli biondi. Per un istante riconsiderò il suo cosmo. Gelido e impietoso, quasi come il clima delle sue amate terre.

“Il tuo cammino termina qui, cavaliere di Atena!” gridò Hagen parandoglisi di fronte e preparandosi allo scontro, i muscoli tesi dal desiderio di colpire, negli occhi la furia accesa della vendetta.
Hyoga inchiodò sul posto, assumendo istintivamente una posizione di difesa. Davanti a lui un uomo alto e possente, col volto parzialmente celato dall’elmo.
“Il mio nome è Hagen, sacro cavaliere di Odino, protetto dalla costellazione di Artax. Ricorda bene questo nome ragazzino, perché appartiene al guerriero che porrà fine alla tua esistenza!”

Dalle sue mani giunte, una raffica spietata di gelo si sprigionò sul cavaliere del Cigno. Hyoga espanse il cosmo in un bagliore, riuscendo a contrastare solo parzialmente l’incredibile forza del nemico. La sua armatura appariva come ricoperta di un sottile strato di brina, traslucido e ruvido al tatto, ma le sue ossa avevano accusato il colpo, nonostante in apparenza l’attacco sembrasse superficiale. Hagen tirò un sorriso sbieco.
“Non sono qui per combattere, cavaliere. Solo una cosa ti chiedo, per il bene di Asgard e della tua regina Hilda.” disse Hyoga cercando di non dare a vedere il dolore sordo che gli fasciava il braccio sinistro come un guanto.
Il cavaliere di Odino dapprima non replicò. Fissava l’avversario con una strana intensità, gli occhi ridotti a due fessure. Il colore delle iridi, verdissimo e liquido, pareva emanare saette.

Una sinistra risata si diffuse all’improvviso nello spazio silenzioso della foresta, insinuandosi tra le fronde come vento. “Il bene di Asgard…” farfugliò tra le risa, divertito e al contempo incredulo.
“Sta zitto! Che ne sai tu di Asgard e della nostra regina?? Come osi nominarla senza vergognarti di quanto tu e i tuoi compagni state facendo?”
Hyoga parve arretrare di fronte a tanto rancore, inaspettato.
“Fino a prova contraria, quelli che hanno dato il via a questa assurda e ingiustificata guerra siete proprio voi! Come osi tu parlarmi come se fossimo stati noi ad usurpare il regno di Asgard?!” scattò poi di rabbia, incapace di dialogare col cavaliere di Artax nonostante inizialmente fossero questi i suoi propositi. L’uomo che aveva davanti era arrogante e pieno di acredine. Sembrava combattere non solo per la sua gente e la sua regina, ma anche per se stesso, come se lui fosse stato in prima persona toccato dalla situazione.
“Voi avete raggirato e rapito la principessa Flare, mettendola contro sua sorella e il suo popolo. Un’azione tanto ignobile merita di essere lavata col sangue!”

Hagen scagliò sul nemico il temibile potere del Nord, con tutta la sua forza e il suo risentimento. La donna che amo. Non riusciva ancora a credere che gliel’avessero portata via.
Hyoga si difese prontamente, alzando attorno a lui un’inviolabile barriera di ghiaccio. Non aveva intenzione di combattere, almeno non prima di aver tentato di trovare un terreno di collaborazione, sebbene in quel momento quest’impresa gli sembrasse persino più grande della stessa guerra con Asgard.
“Cavaliere, ascoltami! La principessa Flare non è stata rapita…”

Per un istante Hagen parve allentare la presa. Hyoga si rilassò, incapace di mantenere troppo a lungo la barriera di difesa. “Flare mi ha seguito di sua spontanea volontà, perché la portassi da Atena. È stata lei a chiedere il nostro aiuto!” incalzò, sperando di far breccia nel ferreo livore dell’avversario. L’ondata di gelo del Nord cessò di colpo. Un silenzio pieno d’aspettative si posò sulle loro teste, greve.

Hagen ripensò all’ultima volta che aveva visto la principessa. In quell’occasione le aveva strappato un bacio, lungo e timido, incerto. Il sapore della sua bocca era divenuto come un veleno che s’infiltrava in tutte le sue vene, irrorandolo per intero. Aveva sempre creduto di amare Flare dallo stesso istante in cui era venuta al mondo. Dopo quel bacio però, il sentimento che nutriva verso di lei era cresciuto a dismisura, colmando del tutto ogni pensiero e desiderio della sua vita.

“Cedimi lo zaffiro che hai incastonato nell’armatura…” insisté il cavaliere del Cigno credendo che il nemico stesse finalmente cedendo. “Hilda è tenuta prigioniera da un maleficio, una sorta di sigillo imposto sull’anello che porta, l’anello del Nibelungo…” proseguì speranzoso, abbassando la guardia ed avvicinandosi di qualche passo.

Ora Hagen poteva vederlo meglio, in ogni singolo dettaglio. Era molto giovane, notò con disappunto, più giovane di lui. I suoi occhi erano di un azzurro intenso, di un tono più chiaro e brillante delle profondità dell’oceano che li circondava. I lineamenti erano regolari, piacevoli, e la carnagione chiara non era pallida come la sua, ma velata come di una sfumatura dorata. Con riluttanza ammise che era un bel ragazzo. Una qualità che avrebbe potuto catturare l’attenzione della principessa assieme all’aura di giustizia che si portava dietro come un biglietto da visita un cavaliere d’Atena. Mi ha seguito di sua spontanea volontà.

“Cosa le hai promesso maledetto per convincere Flare?! Cosa le hai detto??”

Il cosmo di Hagen s’incendiò come una torcia, facendo rifulgere di immenso potere la sua armatura come un faro. Hyoga non poté vedere il colpo arrivare, ma lo sentì. Una teca di ghiaccio lo avvolse interamente in un’esplosione di luce, lasciandolo senza fiato. Per un istante i suoi sensi sopiti dal freddo non poterono registrare quando accadesse intorno. Una luce azzurrina aveva deposto un velo sopra i suoi occhi, impedendogli di vedere bene il nemico.
“Flare vi ha sempre creduto superiori a noi, per il solo fatto d’aver prestato fedeltà alla dea della giustizia. Non immaginavo sarebbe stato sufficiente così poco per farti fuori!”
Il cavaliere del Cigno percepiva le parole di Hagen in maniera confusa, ovattata, come se tutti i suoni fossero stati inghiottiti dalla foresta. Faceva freddo nella teca, eppure quell’atmosfera a suo modo era piacevole, in grado com’era di intorpidire ogni pensiero. Se fosse rimasto così per sempre magari avrebbe smesso di sentirsi in colpa per Camus, di sentire terribilmente la sua mancanza, di avvertire costantemente quel senso d’oppressione che gli stringeva lo stomaco in una morsa.
“Morirai qui bel biondino. Dirò alla principessa che hai combattuto senza dignità, senza valore, tu che hai avuto la presunzione di portarmela via!”

Qualcosa scattò nella mente di Hyoga, come un pungolo che faceva sentire la sua punta acuminata in lontananza. Era questo allora, pensò in un barlume di lucidità, come sentendosi dal di fuori. Era per la principessa Flare che il cavaliere di Artax stava lottando in quel modo, con tutta la rabbia di cui fosse capace. I suoi pensieri si riempirono subito di lei, di come aveva affrontato la neve con determinazione quando erano scappati insieme, delle preziosi informazione che aveva fornito, dello sguardo colmo d’amore che aveva sempre per le sue bianchissime terre. Ricordò la sensazione di calore che aveva provato al tocco del palmo delle sue mani sul volto, di come gli avevano sfiorato la pelle con tenerezza, quasi si conoscessero da una vita. A stento si era trattenuto dal baciarla. Flare esercitava su di lui un’attrazione molto pericolosa.

Lentamente concentrò le forze nel richiamare a sé il proprio cosmo. Lo sentì crescere piano, all’altezza del cuore, il suo piccolo universo di energia che si dispiegava al centro per permettergli di attingere al potere delle stelle che lo proteggevano. Doveva ottenere quello zaffiro ad ogni costo. Per Atena, per Asgard. E per Flare.

Una bolla di luce abbacinante, più fredda della neve stessa, conflagrò all’improvviso, riducendo in mille pezzi la teca di ghiaccio. Hagen rimase a guardare attonito, immobilizzato sulle sue lunghe gambe. Da quella bolla si sprigionò un potere immenso, il potere di un cavaliere d’oro, feroce come la Siberia. Provò a resistere espandendo a sua volta il cosmo e preparandosi a lanciare un colpo, ma Hyoga fu più rapido, scagliando su di lui la violenza dell’aurora boreale. Il cavaliere di Artax venne respinto per molti metri, fino alla roccia su cui qualche minuto prima stava scrutando l’orizzonte in attesa del nemico. La durezza della pietra toccò la sua testa con brutalità. Se non avesse avuto l’elmo a proteggerlo, Hagen sarebbe morto.

“Cedimi lo zaffiro.” disse Hyoga aspramente. “Cedimelo e ti risparmierò la vita.”

Hagen sputò a terra un grumo di sangue. A fatica si rimise in piedi, avvertendo le proprie costole scricchiolare. La sua mente lavorò rapida, cercando il punto debole del nemico.
“Tu devi essere il cavaliere di Cygnus…” proferì tentando di prendere tempo “Il gelo della Siberia è ben poca cosa rispetto a quello di Asgard, ma il tuo maestro deve averti addestrato bene…”
Hyoga sentì il suo cuore restringersi come in un pugno. Il pensiero di Camus gli invase prepotente i pensieri. Non replicò, pronto a colpire.
“Se vuoi questo zaffiro, devi venire a prendertelo!” gridò infine prima di scomparire dentro la bocca minacciosa di una caverna.

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Qualche precisazione: il mito di Sigfrido e Fafnir è stato un po’ ritoccato…un po’ tantino in realtà, ma mi piaceva che Sigfried avesse un padre buono e forte, nobile, da cui trarre esempio. Buona lettura!

  
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