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Autore: Dew_Drop    08/12/2011    3 recensioni
Quasi tutti ci siamo chiesti dove e soprattutto chi sia la madre di Yamamoto. La metà di noi, se scrivesse una storia in merito, aggiungerebbe Gokudera alla trama. Ben pochi però saprebbero dire con certezza cosa potrebbe accadere; si limiterebbero, come me, ad immaginarlo.
E allora immaginiamo che Yamamoto abbia veramente la possibilità di conoscere la madre; che decida di lasciare Namimori per incontrarla, e che un immancabile Hayato lo segua. Possiamo persino approfittarne per incorniciarli insieme in un bel motivetto di famiglia.
E adesso, partano le scommesse.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: G, Hayato Gokudera, Nuovo Personaggio, Takeshi Yamamoto
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO TERZO





CAPITOLO TERZO
SCIACALLO


    La prima sensazione fu quella di un suono ovattato e arido, assorbito dalla foschia della stanchezza.
    Ritmato.
    Toc toc. Tuc tuc.
   Gokudera Hayato aprì piano gli occhi per ammortizzare l’impatto con la luce bianca del salotto. Gli ci vollero pochi secondi per intuire d’essersi appisolato sul tappeto, seduto lì dov’era contro al divano. Seguì il suo primo istinto e si lanciò un’occhiata alle spalle, scostandosi dal cuscino con pungente rapidità: Yamamoto e Yukiko stavano ancora dormendo e non sembravano intenzionati a svegliarsi. Soffocò uno sbadiglio e si alzò sulle gambe infiacchite a causa dell’orrida posizione in cui si era fatto cogliere da Morfeo. Si era completamente dimenticato di ciò che lo aveva destato quando alle sue orecchie giunsero di nuovo quei colpi:
    toctocTUCTUC!, protestò vivamente la porta.
    Già, la porta. Qualcuno stava bussando. Squadrò l’orologio da parete e la sua mente tradusse “ventidue e trenta”. E chi aveva avuto la strabiliante idea di venirli a trovare a quell’orario? Si diede una scrollata ai capelli dirigendosi pigramente all’ingresso.
    Tanto per onor di cronaca, era stato facile violare l’appartamento di sua sorella. Gli era bastato un piccolo candelotto per far saltare solo la serratura, e una volta dentro, per assicurarsi di “fottere eventuali ladruncoli” (come aveva annunciato lo stesso Mr. Smokin’ Bomb), aveva agganciato una piccola asse scorrevole sulla porta, così da barricarla qualora ce ne fosse stato il bisogno. Insomma si era comportato, almeno a detta di quel credulone di allocco, come un vero genio.
    Ma mentre faceva scorrere oziosamente la sbarra di legno, Gokudera non poteva immaginare che la sua grande opera sarebbe stata letteralmente distrutta. Non poteva, non quando riteneva d’aver svolto un lavoro coi fiocchi; non quando non si aspettava di vedere lui. Il tempo di aprire un varco giusto per buttar fuori la testa e azzardare un: “E chi cazz...?”
    Esatto, quest’attimo.
    Un’onda anomala, forse eccitata da quella lama d’ingresso, gli si abbatté addosso con l’educata intenzione di buttar giù la porta. Un: “Bianchi-chuaaa...!” , un: “Eek!” del malcapitato inquilino, e Gokudera franò sul pavimento accompagnato dal botto della porta che colpiva il muro.
    E dal peso di qualcuno sui fianchi.
   “...uaaa-ARGH!” inorridì Shamal, guizzando immediatamente in piedi nel momento in cui si trovò a cavalcioni sopra al suo allievo. “Accidenti, un uomo...! Un... Ah, Hayato!”
    “Sha-Shamal!” raggelò l’italiano, incollato al pavimento dallo sconcerto. “Adesso mi vuoi spiegare perché mi sei saltato addosso? E togliti quella mostruosa espressione dalla faccia, schifoso maniaco!
    “Schifos...? Ah!”, e ricompose le labbra così oscenamente arricciate nel viscido tentativo di un bacio. “Avanti Hayato, non ho fatto apposta, lo sai... io non vado mica con gli uomini” puntualizzò scoccandogli un sorrisino.
    Gokudera si rimise in piedi e lo inquadrò truce. Stava già per scostare i lembi della camicia e pescare tre candelotti per mano quando una risata cristallina lo gelò sul posto. Si voltò con la lentezza di un automa e un occhio incartocciato dall’irritazione, macinando tra i denti il primo nome che gli saltò in mente:
    “Yamamoto-Takeshi. Che ti ridi?”
    Il moro si gustò tutto il divertimento senza fare troppi complimenti e sventolò la mano soffocando gli ultimi spasmi d'ilarità: “Lascia stare, lascia stare...”. Persino Yukiko, che per un momento se n’era rimasta intontita, si unì alla sua infantile felicità e cominciò a battere le manine, incurante del chiassoso risveglio.
    Shamal si rassettò un ciuffo castano dagli occhi e si ficcò una mano in tasca con tanto di spaventosa nonchalance. “Hayato”, riprese in tono roseo, “non dovresti prendertela così ogni volta. Poi rischi un esaurimento nervoso, fidati di un dottore.”
     “Tu sei un dottore solo quando ti fa comodo.”
    “Bella testolina che hai. E io che pensavo di trovare Bianchi-chan. Dalla strada ho visto le luci accese e ho pensato ci fosse lei in casa... non è qui, uhm?”
    “Razza di idiota, quella non si scollerebbe da Reborn-san neanche con una dinamite nelle mutande” lo aggredì acido Gokudera. “Dove vuoi che sia se non a Namimori? Ma dico, tu la testa la usi solo per andare a donne?”
    “Ah-ah.” L’indice dell’uomo scattò da destra a sinistra in un dondolio di ammonimento. “Qui ti sbagli. Cioè, almeno sulla penultima cosa. Sono venuto fino a Shiruka per accertarmi che fosse veramente partita.”
    “Partita?” si allacciò Yamamoto, scivolando a sedere sul divano ed arruffandosi i capelli con espressione assonnata. “Che intendi?”
    “Per l’Italia. A quanto pare i Varia hanno avuto dei problemi e Sawada e compagnia sono dovuti part...”
    “Il Decimo?” si precipitò Gokudera. “Il Decimo è partito per l’Italia?”
    “Non hanno avuto il tempo di avvisarvi, allora. Ebbene”, e Shamal prese un gran respiro chiudendo gli occhi. “Mi è stato detto che sarebbero partiti ieri. Non chiedetemi altro perché non saprei rispondervi.”
    Ci sono cose che un braccio destro detesta, e non è il non essere informato dal proprio boss, anzi: una spalla che si rispetti sa bene che se non viene coinvolta, allora c’è una ragione che ha convinto il superiore a non riferire nulla. Ma un ottimo collaboratore, per essere appunto ottimo, deve conoscere alla perfezione colui per il quale lavora, e di conseguenza riuscire facilmente ad indovinare la suddetta motivazione. Questo, in breve, il requisito minimo dell’impeccabile right-hand man.
    E Hayato Gokudera realizzò ancor prima che Takeshi Yamamoto potesse anche solo pensarci. Questa consapevolezza, che gli lampeggiò nella mente nero su bianco, ebbe il potere di pietrificarlo sul posto per una buona manciata di secondi. Poi, a imitazione di un copione hollywoodiano, il tanto fiero Smokin’ Bomb venne investito da un fremito incondizionato che gli impartì di lasciare il salotto a passo di marcia.
    Quell’uscita di scena fu ufficializzata dal perentorio colpo della porta dello scantinato.
    Yamamoto sbatté le palpebre, fissando inebetito là dove il coinquilino era scomparso. “Go-Gokudera...?”
    “Hayato, Hayato...” commentò Shamal, scuotendo il capo con un sorrisetto. “Il solito.”
    “Che diamine gli è preso? ...Shamal?”
    “Perché siete qui a Shiruka?”
    “Come?” Il moro non pescò subito la finalità della domanda. Si grattò la fronte a labbra arricciate:     “Ehm... cose personali.”
    “Qualcosa che ha a che fare con la famiglia?”
    “Diciamo che... sì, è abbastanza urgente.”
    “Come immaginavo.” Pausa di riflessione. Poi, a spalle alzate: “Penso proprio che Sawada abbia preferito non dirvi della partenza per non farvi rinunciare a questo vostro impegno. Se vi avesse informati, sareste andati con lui. E Hayato...”
    “...per colpa di questo mio viaggio...”
    “...non ha potuto seguire il suo amato Juudaime” concluse Shamal in tono smeraldino. “Ragazzo mio, la convivenza non promette bene.”
    Yamamoto si azzannò il labbro, si passò una mano sul collo. Gokudera non gliel’avrebbe mai perdonato:     Tsuna si era allontanato
senza di lui dal Giappone e non si stava parlando della casa dall’altra parte della strada. Era più corretto dire dall’altra parte del mondo. In Italia, così lontano, dove tra l’altro, a detta di quel dottore casanova, le cose non andavano per nulla bene.





    “Gokudera.”
    “...”
    “Ohi, Gokudera? So che sei lì dentro.”
    “Ti sei per caso appostato fuori?”
    “Sì. No, forse...”
    “Ti consiglio di non scassare se non vuoi che ti faccia saltare in aria, sfigato del baseball!
    La porta sussultò all’improvviso, complice un colpo ben assestato dall’interno, e Yamamoto balzò via con il cuore in gola. “Avanti Gokudera, ne parliamo! Io... mi dispiace!”
    Gli rispose il silenzio. Shamal, che se n’era rimasto spettatore di quel vano tentativo, si passò in rassegna le unghie con espressione desolata.
    “Ma insomma, aiutami a farlo uscire!”
    “Stai perdendo il tuo illustre autocontrollo, Yamamoto Takeshi?”
    "Ehm... no.” Il moro concepì un fastidioso bollore sulle guance. “M-ma... come posso dire, voglio parlare con lui... scusarmi. La colpa è solo mia.”
    “Lo conosci, no, il tuo amico? La sua testardaggine è insuperabile, credimi. Non uscirà.”
    “Shamal...”
    “Sarà meglio che vada, tanto Bianchi-chan non c’è.”
    “Eh? Come?, così di punto in bianco? Ma Gokudera...!”
    “La smetti di preoccuparti per lui?” Shamal si era fermato sull’uscio, il tono improvvisamente più arido. Al che Yamamoto, ghiacciandosi di colpo, avvertì l’incomoda sensazione di essere nel torto. Di certo non si aspettava quella rude presa di posizione, perché in quel momento, testimone il fremito nelle iridi, le labbra gli tremarono un poco:
    “Preoccuparmi... per lui?”
    Riprendere le parole dell’italiano fu l’unica cosa che scoprì di saper fare. L’uomo sulla soglia si umettò le labbra in un gesto apatico. Non l'aveva mai visto così serio prima d'ora.
    “Hayato ha paura di tutto l’affetto che gli riservi.”
    “Paura... dell’affetto?”
    “Allora hanno ragione tutti quanti, a dire che sei troppo tenero.”
    “Io... tenero?”
   “Non affezionarti a Hayato”, concluse criptico Shamal, “e gli riserveresti solo la fatica di capirti. Fagli questo favore, se veramente sei suo amico.”
    La porta si chiuse strozzando quel fragile scambio di battute. Forse Yamamoto avrebbe fatto bene a prendere in considerazione quel consiglio, e la verità è che fece proprio così; ma chiedere a uno come lui di ignorare i sentimenti altrui è come chiedere ad un lanciatore di giocare in battuta.
      Non funzionerebbe.
     Baseball Freak aveva troppo cuore. Baseball Freak era troppo sentimentale, troppo affezionato. E forse Baseball Freak era anche troppo bambino. Ma quest’idiota si piaceva per quello che era e mai avrebbe cambiato le regole con cui era sempre vissuto: sport e amici. Faceva parte di un codice d’onore, di una risolutezza che mai e poi mai avrebbe abbandonato. Per lui era impossibile aver paura dell’affetto, non quando uno dei suoi fondamenti era proprio l’amicizia. Shamal gli aveva chiesto troppo e per questo non gli diede retta.
    Gokudera non sarebbe uscito per un bel po’. Era stato anche furbo a pescare la chiave dello scantinato dal mobile vicino alla porta, così da potersi barricare in quegli scarni metri quadrati di buio totale. Molto probabilmente avrebbe adottato la tecnica di sopravvivenza degli sciacalli, optando per veloci perlustrazioni notturne al di fuori del nascondiglio in cerca di qualcosa da sgranocchiare, prima di tornarsene nella tana alle prime luci del giorno. Nella testa del Guardiano della Pioggia balzò l’idea di sfondare la porta, ma per un motivo non ben identificabile sapeva anche che sarebbe stata una pessima scelta. Non perché impossibile, dato che il legno non era nemmeno eccellente in resistenza, quanto perché quell’uscio sigillato assunse ai suoi occhi una valenza particolare ed inaspettata.
    Erano i pensieri di Gokudera. Il suo mondo, i suoi rimorsi, i suoi silenzi. E secondo questa teoria, Yamamoto mai si sarebbe permesso di irrompere come un barbaro in quell’angolo di intimità. Così scoprì anche di capirlo, almeno un poco, tanto che non tentò nemmeno un nuovo dialogo.
       Ci fu solo una cosa diversa.
    Per un giorno intero, fuori dalla porta dello scantinato, si intervallarono piatti caldi in attesa di un silenzioso cliente troppo cocciuto per permettersi anche solo un assaggio. Eppure la mano che li cucinava non si stancò mai di prepararne di nuovi, un po’ come una battitore che, ostinato anch’egli, mai si stanca di colpire impeccabilmente una pallina dietro l’altra.
    Si trattava, tutto sommato, di un’affettuosa ed insolita gara di testardaggine.

 

    Quasi ventiquattro ore di permanenza ininterrotta nella tana portarono lo sciacallo alla resa. Furono i piagnucolii dello stomaco e l’odore della polvere a costringerlo ad uscire allo scoperto. Per non ferire oltremodo il proprio orgoglio, quella strana razza di canide dalle fattezze umane mise fuori il muso solo a mezzanotte passata: i bisogni fisiologici chiamati “fame” e “sete” si erano fatti insistenti fino al punto di divenire non più ignorabili. E poi, a dirla tutta, la vescica s'era fatta pesante.
    Una volta sporto il naso oltre il ristretto spiraglio che si era concesso, l’animale annusò cauto l’atmosfera.
    Silenzio.
    Si guardò circospetto attorno.
    Assenza di esseri viventi.
    Mosse un primo passo.
    Nessuna reazione dall’ambiente esterno.
    Così, come se nulla fosse successo, il fiero Hayato Gokudera se ne uscì quatto quatto dallo scantinato. Stava già per zompare verso la cucina – dove sicuramente avrebbe trovato qualcosa da sgranocchiare – quando si rese conto d’aver rischiato di rovesciare una ciotola di riso lasciata nell’angolo vicino alla porta. Storse il naso e accartocciò le labbra in un’espressione di critica.
   Quell’idiota del baseball gli aveva sul serio preparato un piatto caldo dopo l’altro nella speranza di farlo uscire dal nascondiglio. Un po’ come il cacciatore che piazza le tagliole per i leprotti. Così si spiegò gli odorini invitanti che erano filati alle sue narici attraverso la serratura. Un calcio ben assestato, un rotolio ovattato, e il pasto ancora tiepido servì a sfamare le assi del pavimento. Ma che andasse al diavolo, Yamamoto Takeshi.
    Una volta in cucina accese solo la piccola lampada sul bancone e frugò nella dispensa. Sapeva che Bianchi si era trattenuta a Shiruka circa una settimana prima e forse era rimasto qualcosa. Non saper cucinare era certo un peccato, in quanto avrebbe dovuto far affidamento solo su pane e fette biscottate, ma questa era sicuramente la soluzione migliore perché mai si sarebbe presentato in ginocchio da quell’allocco ritardato per reclamare un pasto caldo. Questione d’orgoglio. E a proposito di allocco, i suoi occhi guizzavano ad intermittenza verso il corridoio, pronti a catturare il benché minimo movimento estraneo ai piani. Anche se di certo l’idiota stava dormendo in camera, la prudenza rimaneva di regola.
    Con mani febbrili acciuffò un pacchetto di grissini e si ritirò dalla mensola. Bastò una sensazione, un lieve strattone ai jeans consunti, e il tanto sospirato nutrimento gli scappò dalle dita finendo a terra. Gokudera si voltò, abbassò lo sguardo. Gli servì un attimo di analisi perché i suoi occhi venissero scossi da un fremito assassino:
    “Che vuoi, pulce? ...Ma cazzo, sei ancora qui?”
    La piccola Yukiko, con indosso solo un paio di mutandine color pesca, rimase a fissarlo ancora per qualche istante con le labbra appena schiuse. Per sua fortuna non aveva inteso tutto della domanda, tanto che in un pigolio si limitò a chiedere: “Hayato è arrabbiato?”
    “Chi ti ha detto il mio nome?”
    “...”
    “Quel cretino del baseball?”
    “Chi è?”
   “Sì, ho capito, è lui” Gokudera trattenne un ringhio e si chinò per raccogliere il misero spuntino. Non aveva proprio voglia di parlare con quel microbo, ma la sensazione d’essere fissato da quegli occhioni incredibilmente espressivi gli rodeva lo stomaco. Era impossibile sostenere il peso di quelle iridi immobili ed insistenti che guardavano solo lui reclamando un po’ di attenzione dal basso. “Ohè pulce”, ricominciò dunque in tono neutrale, mordendo con ferocia la carta per poter aprire il pacchetto, “il cretino è a dormire?”
    “Chi?”
    “L’allocco... il fringuello... Yamamoto, o come diavolo lo chiami.”
    Yukiko fece di sì con la testa.
    “E tu non dormi? Ma lo sai che ore sono?”
    “Non ci riesco.”
    “Ah, ottimo. Ti pare un buon motivo per ronzarmi attorno? Anzi, dovremmo consegnarti alla polizia, non è possibile che tua madre non sia ancora tornata” le rinfacciò aspro lui. Si infilò un grissino tra le labbra mentre già, quasi quel gesto gli avesse ricordato una fonte di nutrimento ancor più importante, apriva un cassetto e ne pescava un accendino e un pacchetto di sigarette. Era da ore che non si faceva una fumata a dovere, tanto che in quel momento la voglia di masticare il sapore asprigno del fumo era più forte della fame e della sete messe assieme. Il silenzio che ricevette in risposta lo incuriosì non poco e l’occhiata di striscio che indirizzò alla bambina fu l’indizio di uno stringato eppur indiscutibile desiderio di sapere:
    “Allora, pulce?”
    “Takeshi è agitato.”
    “Solo per questo non riesci a dormire?”
    “Uhm-uhm”
    “Dormi in salotto, no?”
    "Ho paura del buio.”
    “Tsk, c’era da immaginarselo.” Gokudera si concesse un ultimo grissino prima di accendersi una sigaretta e soffiare fumo dalle narici. “Tutti i bambini hanno paura del buio, come hai fatto a non pensarci, Hayato?”
Il suo era un tono di critica verso se stesso, ma ancora una volta il silenzio che seguì riuscì a ribaltare il suo intento di indisponibilità. Incrociò di sfuggita gli occhi di Yukiko:
    "Hai detto che è agitato?”
    “Uhm.”
    “Quello non riesce a stare fermo neanche mentre dorme.”
    Era una conclusione sbrigativa, frettolosa di chiudere quello scambio di battute alla luce soffusa della cucina. Eppure una traditrice parte della coscienza gli bisbigliò che in fondo era inutile negarlo alla razionalità; negare che sì, spesso aveva visto Yamamoto dormire - spesso Juudaime li invitava a casa sua per la notte -, e mai si era agitato nel sonno, come se durante la giornata desse sfogo a tutta quella sua grinta spaventosa. Insomma l’idiota, quando riposava, era sempre tranquillo. E allora perché la pulce gli aveva appena detto che quella notte non era così?

    Ma soprattutto... perché ci stava pensando?    

    Gokudera mordicchiò la sigaretta e incitò la bambina con delle leggere spinte alla schiena: “Su su, muovi le zampe... Ti ci accompagno io, a letto, ma vedi di restarci.”
    Yukiko obbedì senza spiccicar parola e si aggrappò alla sua camicia per accertarsi di non restare indietro. Il ragazzo le scoccò un’occhiataccia come di rimprovero, subito sostituita dalla classica espressione indolente che sfoggiava nelle occasioni più imbarazzanti. Non era nei suoi piani camminare con una pulce incollata addosso, ma quello era un sacrificio necessario nonostante odiasse ammettere – e si rifiutò categoricamente, almeno di prima battuta, di farci anche solo un pensiero – che quell’inconveniente era di fatto indispensabile per il raggiungimento del vero obiettivo.
    Perché buttare un’occhiata in camera da letto non era una brutta idea, no? Era diventato così schifosamente sdolcinato, sotto l’influenza di quel fringuello di bosco, da preoccuparsi persino per gli altri, nevvero, Gokudera Hayato?
    Si fermarono sull’uscio semiaperto. La sonnolenta luce della strada filtrava attraverso le tende e si scioglieva nel silenzio solo apparente della stanza.
      Solo apparente.
    Yamamoto dormiva. Sdraiato su un fianco, la finestra alle spalle, le coperte raccolte disordinatamente poco al di sotto dell’ombelico. Gokudera si sfilò la sigaretta di bocca e soffiò per sfumare la fastidiosa nuvola di fumo che non gli permetteva una visuale dettagliata. I suoi occhi si assottigliarono.
     C’era qualcosa che non andava, notò. Glielo leggeva sulle labbra, serrate e febbrili, come lo si indovinava sul lucido velo di sudore che gli imperlava viso e busto; persino i suoi occhi fremevano, accompagnati da  un’insana espressione di disagio. Fu allora che venne il dubbio.
  “Ohi”, bisbigliò Gokudera, senza scostare lo sguardo dal moro, “di’ un po’, oggi è uscito di casa? Stamattina, ad esempio?”
    “Mi ha detto che doveva fare una cosa, però è rimasto con me tutto il tempo.”
    “Quindi non è uscito?”
    Yukiko negò in silenzio, la mano ancora aggrappata al lembo della camicia.
    “Tua madre non è ancora tornata, pulce?”
    “No.”
    “La sai una cosa? Anche Yamamoto aspetta che qualcuno torni.”
    “Anche lui?”
   “Uhm. Mi aspettavo che uscisse per incontrare questa persona, ma a quanto pare ha preferito aspettare che fossi io quello ad uscire.”
    “E lui chi aspetta?”
    Gokudera si riportò la sigaretta fra le labbra e in quel momento nei suoi occhi si riflesse una strana luce abilmente mascherata dal soffio di fumo dalle narici. Con l’esperienza aveva imparato a nascondere i sintomi di una debolezza da sempre affrontata ma mai sconfitta... Un piccolo difetto nella fierezza in cui si nascondeva fin da bambino. “Sua madre” si pugnalò senza pietà. “Anche lui aspetta questa lei. La sua è malinconia, Yukiko: non farti incantare dai suoi sorrisi.”
    “Il fratellone si comporta così perché è triste?”
    “Molto. E sorride sempre per lo stesso motivo.”
    “Ma anche tu sei triste. Aspetti la mamma come noi?”
    A lui scappò un sorriso. Ma sì, forse oramai ne valeva la pena. Facciamoci del male in compagnia. Non sono da condividere, i sentimenti?
    “La mia è in ritardo di qualche anno. I ritardi sono una brutta bestia, lo sai, pulce? ...Nah, non importa, adesso è troppo tardi. Semplicemente non è tornata fino ad ora e non penso tornerà più.” Si scostò dallo stipite e indirizzò alla bambina uno sguardo incolore sfumato dallo schizzo mal riuscito della serenità: “Fila a letto, adesso. E non dire al cretino che sono uscito.”
    Yukiko scivolò in camera senza dir altro. Si arrampicò sul grande letto e si accoccolò al petto di Yamamoto. A Gokudera sembrò di scorgere un sorriso sulle labbra di quel meraviglioso idiota, ma non volle restare a guardare. Fu a quel punto che il velo sfuggente del fumo lo salvò dal desiderio di coricarsi lì con loro, come una piccola, amorevole famiglia.


* * *

Lo dico in forma ufficiale: Yukiko non è la sorellastra di Yamamoto x) So che ad una prima analisi del caso
potrebbe parere così, ma preferisco bruciare
in partenza le vostre speranze per scagionare l'apparente prevedibilità
della fic.
E ancora. Questo capitolo presenta evidentemente Gokudera in vesta di protagonista. Mi piace, avrete notato,
ricalcare il suo disagio - si trova in una situazione a lui estranea. Eh sì, Haya-kun è un irresistibile
dessert per noi amanti dell'introspezione malinconica xD

Nel prossimo capitolo, Yamamoto prenderà un'iniziativa che rientra decisamente nel suo stile.

Ne approfitto per avvisare che aggiornerò molto probabilmente il prossimo weekend, data l'ingente
quantità di studio che i prof ci hanno rifilato ;w; Il prossimo capitolo è scritto a metà, quindi dovrò riprendere
in mano la stesura.
Pareri negativi e/o positivi sono, 'manco bisogno di dirlo, ben accetti.
Alla prossima, e grazie a coloro che hanno aggiunto in seguite/preferite.
Benvenuti a bordo! <3

Dew_


   
 
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