CAPITOLO TERZO
SCIACALLO
La prima sensazione fu quella di
un suono ovattato e arido, assorbito dalla foschia della stanchezza.
Ritmato.
Toc toc. Tuc tuc.
Gokudera Hayato aprì piano gli
occhi per ammortizzare l’impatto con la luce bianca del salotto. Gli ci vollero
pochi secondi per intuire d’essersi appisolato sul tappeto, seduto lì dov’era
contro al divano. Seguì il suo primo istinto e si lanciò un’occhiata alle
spalle, scostandosi dal cuscino con pungente rapidità: Yamamoto e Yukiko
stavano ancora dormendo e non sembravano intenzionati a svegliarsi. Soffocò uno
sbadiglio e si alzò sulle gambe infiacchite a causa dell’orrida posizione in
cui si era fatto cogliere da Morfeo. Si era completamente dimenticato di ciò
che lo aveva destato quando alle sue orecchie giunsero di nuovo quei colpi:
toctocTUCTUC!, protestò vivamente la porta.
Già, la porta. Qualcuno stava
bussando. Squadrò l’orologio da parete e la sua mente tradusse “ventidue e
trenta”. E chi aveva avuto la strabiliante idea di venirli a trovare a
quell’orario? Si diede una scrollata ai capelli dirigendosi pigramente
all’ingresso.
Tanto per onor di cronaca, era
stato facile violare l’appartamento di sua sorella. Gli era bastato un piccolo
candelotto per far saltare solo la serratura, e una volta dentro, per assicurarsi
di “fottere eventuali ladruncoli” (come aveva annunciato lo stesso Mr. Smokin’
Bomb), aveva agganciato una piccola asse scorrevole sulla porta, così da
barricarla qualora ce ne fosse stato il bisogno. Insomma si era comportato,
almeno a detta di quel credulone di allocco, come un vero genio.
Ma mentre faceva scorrere
oziosamente la sbarra di legno, Gokudera non poteva immaginare che la sua
grande opera sarebbe stata letteralmente distrutta.
Non poteva, non quando riteneva d’aver svolto un lavoro coi fiocchi; non quando
non si aspettava di vedere lui. Il
tempo di aprire un varco giusto per buttar fuori la testa e azzardare un: “E
chi cazz...?”
Esatto, quest’attimo.
Un’onda anomala, forse eccitata
da quella lama d’ingresso, gli si abbatté addosso con l’educata intenzione di
buttar giù la porta. Un: “Bianchi-chuaaa...!”
, un: “Eek!” del malcapitato
inquilino, e Gokudera franò sul pavimento accompagnato dal botto della porta
che colpiva il muro.
E dal peso di qualcuno sui
fianchi.
“...uaaa-ARGH!” inorridì Shamal, guizzando immediatamente in piedi nel
momento in cui si trovò a cavalcioni sopra al suo allievo. “Accidenti, un uomo...! Un... Ah, Hayato!”
“Sha-Shamal!” raggelò l’italiano, incollato al pavimento dallo
sconcerto. “Adesso mi vuoi spiegare perché mi sei saltato addosso? E
togliti quella mostruosa espressione dalla faccia, schifoso maniaco!”
“Schifos...? Ah!”, e
ricompose le labbra così oscenamente arricciate nel viscido tentativo di un
bacio. “Avanti Hayato, non ho fatto apposta, lo sai... io non vado mica con gli
uomini” puntualizzò scoccandogli un sorrisino.
Gokudera si rimise in piedi e lo
inquadrò truce. Stava già per scostare i lembi della camicia e pescare tre
candelotti per mano quando una risata cristallina lo gelò sul posto. Si voltò
con la lentezza di un automa e un occhio incartocciato dall’irritazione,
macinando tra i denti il primo nome che gli saltò in mente:
“Yamamoto-Takeshi. Che ti ridi?”
Il moro si gustò tutto il
divertimento senza fare troppi complimenti e sventolò la mano soffocando gli
ultimi spasmi d'ilarità: “Lascia stare, lascia stare...”. Persino Yukiko, che
per un momento se n’era rimasta intontita, si unì alla sua infantile felicità e
cominciò a battere le manine, incurante del chiassoso risveglio.
Shamal si rassettò un ciuffo
castano dagli occhi e si ficcò una mano in tasca con tanto di spaventosa
nonchalance. “Hayato”, riprese in tono roseo, “non dovresti prendertela così
ogni volta. Poi rischi un esaurimento nervoso, fidati di un dottore.”
“Tu sei un dottore solo quando ti
fa comodo.”
“Bella testolina che hai. E io
che pensavo di trovare Bianchi-chan. Dalla strada ho visto le luci accese e
ho pensato ci fosse lei in casa... non è qui, uhm?”
“Razza di idiota, quella non si
scollerebbe da Reborn-san neanche con una dinamite nelle mutande” lo aggredì
acido Gokudera. “Dove vuoi che sia se non a Namimori? Ma dico, tu la testa la
usi solo per andare a donne?”
“Ah-ah.” L’indice dell’uomo
scattò da destra a sinistra in un dondolio di ammonimento. “Qui ti sbagli.
Cioè, almeno sulla penultima cosa. Sono venuto fino a Shiruka per accertarmi
che fosse veramente partita.”
“Partita?” si allacciò Yamamoto,
scivolando a sedere sul divano ed arruffandosi i capelli con espressione
assonnata. “Che intendi?”
“Per l’Italia. A quanto pare i
Varia hanno avuto dei problemi e Sawada e compagnia sono dovuti part...”
“Il Decimo?” si precipitò Gokudera. “Il Decimo è partito per
l’Italia?”
“Non hanno avuto il tempo di
avvisarvi, allora. Ebbene”, e Shamal prese un gran respiro chiudendo gli occhi.
“Mi è stato detto che sarebbero partiti ieri. Non chiedetemi altro perché non
saprei rispondervi.”
Ci sono cose che un braccio
destro detesta, e non è il non essere informato dal proprio boss, anzi: una
spalla che si rispetti sa bene che se non viene coinvolta, allora c’è una ragione che ha convinto il superiore a
non riferire nulla. Ma un ottimo collaboratore, per essere appunto ottimo, deve conoscere alla perfezione
colui per il quale lavora, e di conseguenza riuscire facilmente ad indovinare
la suddetta motivazione. Questo, in
breve, il requisito minimo dell’impeccabile right-hand man.
E Hayato Gokudera realizzò ancor
prima che Takeshi Yamamoto potesse anche solo pensarci. Questa consapevolezza,
che gli lampeggiò nella mente nero su bianco, ebbe il potere di pietrificarlo
sul posto per una buona manciata di secondi. Poi, a imitazione di un copione
hollywoodiano, il tanto fiero Smokin’ Bomb venne investito da un fremito incondizionato
che gli impartì di lasciare il salotto a passo di marcia.
Quell’uscita di scena fu
ufficializzata dal perentorio colpo della porta dello scantinato.
Yamamoto sbatté le palpebre,
fissando inebetito là dove il coinquilino era scomparso. “Go-Gokudera...?”
“Hayato, Hayato...” commentò
Shamal, scuotendo il capo con un sorrisetto. “Il solito.”
“Che diamine gli è preso?
...Shamal?”
“Perché siete qui a Shiruka?”
“Come?” Il moro non pescò
subito la finalità della domanda. Si grattò la fronte a labbra arricciate:
“Ehm... cose personali.”
“Qualcosa che ha a che fare con
la famiglia?”
“Diciamo che... sì, è abbastanza
urgente.”
“Come immaginavo.” Pausa di
riflessione. Poi, a spalle alzate: “Penso proprio che Sawada abbia preferito
non dirvi della partenza per non farvi rinunciare a questo vostro impegno. Se
vi avesse informati, sareste andati con lui. E Hayato...”
“...per colpa di questo mio
viaggio...”
“...non ha potuto seguire il suo
amato Juudaime” concluse Shamal in tono smeraldino. “Ragazzo mio, la convivenza
non promette bene.”
Yamamoto si azzannò il labbro, si
passò una mano sul collo. Gokudera non gliel’avrebbe mai perdonato: Tsuna si
era allontanato senza di lui dal Giappone e non si stava parlando della casa
dall’altra parte della strada. Era più corretto dire dall’altra parte del mondo. In Italia, così lontano, dove tra
l’altro, a detta di quel dottore casanova, le cose non andavano per nulla bene.
“Gokudera.”
“...”
“Ohi, Gokudera? So che sei lì
dentro.”
“Ti sei per caso appostato
fuori?”
“Sì. No, forse...”
“Ti consiglio di non scassare se
non vuoi che ti faccia saltare in aria, sfigato
del baseball!”
La porta sussultò all’improvviso,
complice un colpo ben assestato dall’interno, e Yamamoto balzò via con il cuore
in gola. “Avanti Gokudera, ne parliamo! Io... mi dispiace!”
Gli rispose il silenzio. Shamal,
che se n’era rimasto spettatore di quel vano tentativo, si passò in rassegna le
unghie con espressione desolata.
“Ma insomma, aiutami a farlo
uscire!”
“Stai perdendo il tuo illustre
autocontrollo, Yamamoto Takeshi?”
"Ehm... no.” Il moro concepì un
fastidioso bollore sulle guance. “M-ma... come posso dire, voglio parlare con
lui... scusarmi. La colpa è solo mia.”
“Lo conosci, no, il tuo amico? La
sua testardaggine è insuperabile, credimi. Non uscirà.”
“Shamal...”
“Sarà meglio che vada, tanto
Bianchi-chan non c’è.”
“Eh? Come?, così di punto in bianco? Ma Gokudera...!”
“La smetti di preoccuparti per
lui?” Shamal si era fermato sull’uscio, il tono
improvvisamente più arido. Al che Yamamoto, ghiacciandosi di colpo, avvertì
l’incomoda sensazione di essere nel torto. Di certo non si aspettava quella
rude presa di posizione, perché in quel momento, testimone il fremito nelle
iridi, le labbra gli tremarono un poco:
“Preoccuparmi... per lui?”
Riprendere le parole
dell’italiano fu l’unica cosa che scoprì di saper fare. L’uomo sulla soglia si
umettò le labbra in un gesto apatico. Non l'aveva mai visto così serio prima d'ora.
“Hayato ha paura di tutto
l’affetto che gli riservi.”
“Paura... dell’affetto?”
“Allora hanno ragione tutti
quanti, a dire che sei troppo tenero.”
“Io... tenero?”
“Non affezionarti a Hayato”,
concluse criptico Shamal, “e gli riserveresti solo la fatica di capirti. Fagli
questo favore, se veramente sei suo amico.”
La porta si chiuse strozzando
quel fragile scambio di battute. Forse Yamamoto avrebbe fatto bene a prendere
in considerazione quel consiglio, e la verità è che fece proprio così; ma
chiedere a uno come lui di ignorare i sentimenti altrui è come chiedere ad un
lanciatore di giocare in battuta.
Non funzionerebbe.
Baseball Freak aveva troppo cuore. Baseball Freak era troppo sentimentale, troppo affezionato. E forse
Baseball Freak era anche troppo
bambino. Ma quest’idiota si piaceva
per quello che era e mai avrebbe cambiato le regole con cui era sempre vissuto:
sport e amici. Faceva parte di un codice d’onore, di una risolutezza che mai e
poi mai avrebbe abbandonato. Per lui era impossibile aver paura dell’affetto,
non quando uno dei suoi fondamenti era proprio l’amicizia. Shamal gli aveva
chiesto troppo e per questo non gli diede retta.
Gokudera non sarebbe uscito per
un bel po’. Era stato anche furbo a pescare la chiave dello scantinato dal mobile vicino alla
porta, così da potersi barricare in quegli scarni metri quadrati di buio totale. Molto
probabilmente avrebbe adottato la tecnica di sopravvivenza degli sciacalli, optando
per veloci perlustrazioni notturne al di fuori del nascondiglio in cerca di
qualcosa da sgranocchiare, prima di tornarsene nella tana alle prime luci del
giorno. Nella testa del Guardiano della Pioggia balzò l’idea di sfondare la
porta, ma per un motivo non ben identificabile sapeva anche che sarebbe stata
una pessima scelta. Non perché impossibile, dato che il legno non era nemmeno
eccellente in resistenza, quanto perché quell’uscio sigillato assunse ai suoi
occhi una valenza particolare ed inaspettata.
Erano i pensieri di Gokudera. Il
suo mondo, i suoi rimorsi, i suoi silenzi. E secondo questa teoria, Yamamoto
mai si sarebbe permesso di irrompere come un barbaro in quell’angolo di
intimità. Così scoprì anche di capirlo, almeno un poco, tanto che non tentò nemmeno
un nuovo dialogo.
Ci fu solo una cosa diversa.
Per un giorno intero, fuori dalla
porta dello scantinato, si intervallarono piatti caldi in attesa di un
silenzioso cliente troppo cocciuto per permettersi anche solo un assaggio.
Eppure la mano che li cucinava non si stancò mai di prepararne di nuovi, un po’
come una battitore che, ostinato anch’egli, mai si stanca di colpire
impeccabilmente una pallina dietro l’altra.
Si trattava, tutto sommato, di
un’affettuosa ed insolita gara di testardaggine.
Quasi ventiquattro ore di
permanenza ininterrotta nella tana portarono lo sciacallo alla resa. Furono i
piagnucolii dello stomaco e l’odore della polvere a costringerlo ad uscire allo
scoperto. Per non ferire oltremodo il proprio orgoglio, quella strana razza di
canide dalle fattezze umane mise fuori il muso solo a mezzanotte passata: i
bisogni fisiologici chiamati “fame” e “sete” si erano fatti insistenti fino al
punto di divenire non più ignorabili. E poi, a dirla tutta, la vescica s'era fatta pesante.
Una volta sporto il naso oltre il
ristretto spiraglio che si era concesso, l’animale annusò cauto l’atmosfera.
Silenzio.
Si guardò circospetto attorno.
Assenza di esseri viventi.
Mosse un primo passo.
Nessuna reazione dall’ambiente esterno.
Così, come se nulla fosse
successo, il fiero Hayato Gokudera se ne uscì quatto quatto
dallo scantinato.
Stava già per zompare verso la cucina – dove sicuramente
avrebbe trovato
qualcosa da sgranocchiare – quando si rese conto d’aver
rischiato di rovesciare
una ciotola di riso lasciata nell’angolo vicino alla porta.
Storse il naso e accartocciò le labbra in un’espressione
di critica.
Quell’idiota del baseball gli
aveva sul serio preparato un piatto caldo dopo l’altro nella speranza di farlo
uscire dal nascondiglio. Un po’ come il cacciatore che piazza le tagliole per
i leprotti. Così si spiegò gli odorini invitanti che erano filati alle sue
narici attraverso la serratura. Un calcio ben assestato, un rotolio ovattato, e
il pasto ancora tiepido servì a sfamare le assi del pavimento. Ma che andasse
al diavolo, Yamamoto Takeshi.
Una volta in cucina accese solo
la piccola lampada sul bancone e frugò nella dispensa. Sapeva
che Bianchi si era trattenuta a Shiruka circa una settimana prima e
forse era rimasto qualcosa. Non saper cucinare era
certo un peccato, in quanto avrebbe dovuto far affidamento solo su pane
e fette
biscottate, ma questa era sicuramente la soluzione migliore
perché mai si
sarebbe presentato in ginocchio da quell’allocco ritardato per
reclamare un
pasto caldo. Questione d’orgoglio. E a proposito di allocco, i
suoi occhi
guizzavano ad intermittenza verso il corridoio, pronti a catturare il
benché
minimo movimento estraneo ai piani. Anche se di certo l’idiota
stava dormendo in
camera, la prudenza rimaneva di regola.
Con mani febbrili acciuffò un
pacchetto di grissini e si ritirò dalla mensola. Bastò una sensazione, un lieve
strattone ai jeans consunti, e il tanto sospirato nutrimento gli scappò dalle
dita finendo a terra. Gokudera si voltò, abbassò lo sguardo. Gli servì un
attimo di analisi perché i suoi occhi venissero scossi da un fremito assassino:
“Che vuoi, pulce? ...Ma cazzo,
sei ancora qui?”
La piccola Yukiko, con indosso
solo un paio di mutandine color pesca, rimase a fissarlo ancora per qualche
istante con le labbra appena schiuse. Per sua fortuna non aveva inteso tutto
della domanda, tanto che in un pigolio si limitò a chiedere: “Hayato è arrabbiato?”
“Chi ti ha detto il mio nome?”
“...”
“Quel cretino del baseball?”
“Chi è?”
“Sì, ho capito, è lui” Gokudera
trattenne un ringhio e si chinò per raccogliere il misero spuntino. Non aveva
proprio voglia di parlare con quel microbo, ma la sensazione d’essere fissato
da quegli occhioni incredibilmente espressivi gli rodeva lo stomaco. Era
impossibile sostenere il peso di quelle iridi immobili ed insistenti che
guardavano solo lui reclamando un po’ di attenzione dal basso. “Ohè pulce”,
ricominciò dunque in tono neutrale, mordendo con ferocia la carta per poter
aprire il pacchetto, “il cretino è a dormire?”
“Chi?”
“L’allocco... il fringuello... Yamamoto, o come diavolo lo chiami.”
Yukiko fece di sì con la testa.
“E tu non dormi? Ma lo sai che
ore sono?”
“Non ci riesco.”
“Ah, ottimo. Ti pare un buon
motivo per ronzarmi attorno? Anzi, dovremmo consegnarti alla polizia,
non è possibile che tua madre non sia ancora tornata” le
rinfacciò aspro lui. Si infilò un grissino tra
le labbra mentre già, quasi quel gesto gli avesse ricordato una
fonte di
nutrimento ancor più importante, apriva un cassetto e ne pescava
un accendino e
un pacchetto di sigarette. Era da ore che non si faceva una fumata a
dovere,
tanto che in quel momento la voglia di masticare il sapore asprigno del
fumo era
più forte della fame e della sete messe assieme. Il silenzio che
ricevette in
risposta lo incuriosì non poco e l’occhiata di striscio
che indirizzò alla
bambina fu l’indizio di uno stringato eppur indiscutibile
desiderio di sapere:
“Allora, pulce?”
“Takeshi è agitato.”
“Solo per questo non riesci a
dormire?”
“Uhm-uhm”
“Dormi in salotto, no?”
"Ho paura del buio.”
“Tsk, c’era da immaginarselo.”
Gokudera si concesse un ultimo grissino prima di accendersi una sigaretta e
soffiare fumo dalle narici. “Tutti i bambini hanno paura del buio, come hai
fatto a non pensarci, Hayato?”
Il suo era un tono di critica
verso se stesso, ma ancora una volta il silenzio che seguì riuscì a ribaltare
il suo intento di indisponibilità. Incrociò di sfuggita gli occhi di Yukiko:
"Hai detto che è agitato?”
“Uhm.”
“Quello non riesce a stare fermo
neanche mentre dorme.”
Era una conclusione sbrigativa,
frettolosa di chiudere quello scambio di battute alla luce soffusa
della
cucina. Eppure una traditrice parte della coscienza gli
bisbigliò che in fondo
era inutile negarlo alla razionalità; negare che sì,
spesso aveva visto
Yamamoto dormire - spesso Juudaime li invitava a casa sua per la notte
-, e mai si era agitato nel sonno, come se durante la giornata
desse sfogo a tutta quella sua grinta spaventosa. Insomma
l’idiota, quando
riposava, era sempre tranquillo. E allora perché la pulce gli
aveva appena
detto che quella notte non era così?
Ma soprattutto... perché ci stava pensando?
Gokudera mordicchiò la sigaretta e
incitò la bambina con delle leggere spinte alla schiena: “Su su, muovi le
zampe... Ti ci accompagno io, a letto, ma vedi di restarci.”
Yukiko obbedì senza spiccicar
parola e si aggrappò alla sua camicia per accertarsi di non restare
indietro. Il ragazzo le scoccò un’occhiataccia come di rimprovero, subito
sostituita dalla classica espressione indolente che sfoggiava nelle occasioni
più imbarazzanti. Non era nei suoi piani camminare con una pulce incollata
addosso, ma quello era un sacrificio necessario nonostante odiasse ammettere –
e si rifiutò categoricamente, almeno di prima battuta, di farci anche solo un
pensiero – che quell’inconveniente era di
fatto indispensabile per il raggiungimento del vero obiettivo.
Perché buttare un’occhiata in
camera da letto non era una brutta idea, no? Era diventato così schifosamente
sdolcinato, sotto l’influenza di quel fringuello di bosco, da preoccuparsi
persino per gli altri, nevvero, Gokudera Hayato?
Si fermarono sull’uscio
semiaperto. La sonnolenta luce della strada filtrava attraverso le tende e si
scioglieva nel silenzio solo apparente della stanza.
Solo apparente.
Yamamoto dormiva. Sdraiato su un
fianco, la finestra alle spalle, le coperte raccolte disordinatamente poco al
di sotto dell’ombelico. Gokudera si sfilò la sigaretta di bocca e soffiò per
sfumare la fastidiosa nuvola di fumo che non gli permetteva una visuale
dettagliata. I suoi occhi si assottigliarono.
C’era qualcosa che non andava,
notò. Glielo leggeva sulle labbra, serrate e febbrili, come lo si indovinava
sul lucido velo di sudore che gli imperlava viso e busto; persino i suoi occhi
fremevano, accompagnati da un’insana espressione
di disagio. Fu allora che venne il dubbio.
“Ohi”, bisbigliò Gokudera, senza
scostare lo sguardo dal moro, “di’ un po’, oggi è uscito di casa? Stamattina,
ad esempio?”
“Mi ha detto che doveva fare una
cosa, però è rimasto con me tutto il tempo.”
“Quindi non è uscito?”
Yukiko negò in silenzio, la mano
ancora aggrappata al lembo della camicia.
“Tua madre non è ancora tornata,
pulce?”
“No.”
“La sai una cosa? Anche Yamamoto aspetta che qualcuno torni.”
“Anche lui?”
“Uhm. Mi aspettavo che uscisse
per incontrare questa persona, ma a quanto pare ha preferito aspettare che
fossi io quello ad uscire.”
“E lui chi aspetta?”
Gokudera si riportò la sigaretta
fra le labbra e in quel momento nei suoi occhi si riflesse una strana luce
abilmente mascherata dal soffio di fumo dalle narici. Con l’esperienza aveva
imparato a nascondere i sintomi di una debolezza da sempre affrontata ma mai
sconfitta... Un piccolo difetto nella fierezza in cui si nascondeva
fin da bambino. “Sua madre” si pugnalò senza pietà. “Anche lui aspetta questa
lei. La sua è malinconia, Yukiko: non farti incantare dai suoi sorrisi.”
“Il fratellone si comporta così
perché è triste?”
“Molto. E sorride sempre per lo
stesso motivo.”
“Ma anche tu sei triste. Aspetti
la mamma come noi?”
A lui scappò un sorriso. Ma sì,
forse oramai ne valeva la pena. Facciamoci del male in compagnia. Non sono da
condividere, i sentimenti?
“La mia è in ritardo di qualche
anno. I ritardi sono una brutta bestia, lo sai, pulce? ...Nah, non importa,
adesso è troppo tardi. Semplicemente non è tornata fino ad ora e non penso
tornerà più.” Si scostò dallo stipite e indirizzò alla bambina uno sguardo
incolore sfumato dallo schizzo mal riuscito della serenità: “Fila a letto,
adesso. E non dire al cretino che sono uscito.”
Yukiko scivolò in camera senza
dir altro. Si arrampicò sul grande letto e si accoccolò al petto di Yamamoto. A
Gokudera sembrò di scorgere un sorriso sulle labbra di quel meraviglioso
idiota, ma non volle restare a guardare. Fu a quel punto che il velo sfuggente
del fumo lo salvò dal desiderio di coricarsi lì con loro, come una piccola,
amorevole famiglia.
* * *
Lo dico in forma ufficiale: Yukiko non è la sorellastra di Yamamoto x) So che ad una prima analisi del caso
potrebbe parere così, ma preferisco bruciare in partenza le vostre speranze per scagionare l'apparente prevedibilità
della fic.
E ancora. Questo capitolo presenta evidentemente Gokudera in vesta di protagonista. Mi piace, avrete notato,
ricalcare il suo disagio - si trova in una situazione a lui estranea. Eh sì, Haya-kun è un irresistibile
dessert per noi amanti dell'introspezione malinconica xD
Nel prossimo capitolo, Yamamoto prenderà un'iniziativa che rientra decisamente nel suo stile.
Ne approfitto per avvisare che aggiornerò molto probabilmente il prossimo weekend, data l'ingente
quantità di studio che i prof ci hanno rifilato ;w; Il prossimo
capitolo è scritto a metà, quindi dovrò riprendere
in mano la stesura.
Pareri negativi e/o positivi sono, 'manco bisogno di dirlo, ben accetti.
Alla prossima, e grazie a coloro che hanno aggiunto in seguite/preferite.
Benvenuti a bordo! <3
Dew_