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Autore: Camelia Jay    08/12/2011    7 recensioni
Circondata dal buio e dai libri, Keira si rifugia in camera sua per evitare i suoi problemi, come l'assenza della voglia di studiare, il difficile rapporto con i genitori, la rottura irreversibile con l'amica Lydia e il cuore spezzato e disilluso a causa di un amore non sbocciato da ambo le parti.
Quasi nella stessa situazione si trova Blake, suo coetaneo e vicino di casa, così simile alla ragazza da essere l'unico in grado di comprenderne le emozioni, ma allo stesso tempo il solo in grado di farla ragionare davvero. Infatti, riuscirà a convincere Keira a tornare a condurre una vita normale.
Ma ecco che, appena sembra essersi ristabilito l'ordine, per Keira è ora di fare le valigie, e si ritrova affrontare la rigida e severa zia che la tiene sotto regole troppo strette. Confortata solamente da Blake, sempre più assente, e dalla materna vicinanza della signora Rush, per Keira subentra poi un nuovo problema: un problema di nome Logan.
Mi bastò allungarmi di pochi centimetri prima che le mie labbra venissero a contatto con le sue, aderendo perfettamente, in un gesto repentino e inaspettato. Non volevo più aspettare.
Non era la prima volta che baciavo qualcuno, ma quel bacio in particolare aveva un sapore… buono; così tanto che mi stupii. Con un flebile sospiro poi, entrambi e contemporaneamente, ci tirammo indietro. [...] Fu un attimo. Un attimo che pensavo mi avrebbe dato delle risposte, che pensavo avremmo preso entrambi così, un po’ per scherzo, un po’ per curiosità. Quanto mi sbagliavo.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ehm, sì. Mi prendo la colpa il merito per questa schifezza piccola opera d'arte scaturita una sera dalla mia mente e completata il mattino successivo... a scuola. Perché a scuola o si scrive o si disegna okay io non ho detto niente eh?! xD Però la cosa più bella è la mia firma u.u incomprensibile, ovviamente (quella in basso a destra). Questa è una MangaKeira. Potrei farne altre, se vi piacciono naturalmente ^^ Buona lettura! :D




[Capitolo Due]
[I conflitti dell'orgoglio]


 

È difficile, dannatamente difficile, rientrare in quell’edificio dopo tutto ciò che è successo.
È difficile ritornare, e sai che avete in comune troppe lezioni per potervi ignorare deliberatamente, e sai che la incrocerai decine di volte per i corridoi, e sai che la vedrai con
lui. Sei consapevole che lei ha raccontato al suo nuovo ragazzo delle cose che ha fatto il giorno prima, che gli ha stampato un bacio sulle labbra appena dieci minuti fa, che non vede l’ora che le lezioni si concludano per potersene andare insieme con lui da qualche parte. Tutte cose che avresti voluto fare tu, al posto di lei, che così, senza alcun preavviso, ha preso la tua speranza più grande e l’ha mandata in frantumi, come un vaso che tocca il pavimento con troppa forza.
E vedrai lui, che ti manderà sguardi indecifrabili, che non sai se significano pena, perché tu avrai sofferto e lui sa che è colpa sua, o se significano che sei veramente ridicola, perché ti sei lasciata sfuggire qualcosa di simile, o perché ti illudevi di avere qualche speranza. Una tua amica, la tua amica più grande, quella che, al contrario di te, era allegra e solare. E prima ancora che tu avessi l’occasione di confessare a lui il tuo amore, lei te lo aveva già portato via.

Sapendo di farti un torto.
«Tanto non ti filava» aveva detto, al telefono.
Poi si era scusata.
Ma quelle scuse oramai erano inutili. Il danno era stato provocato più da quella frase e da quella successiva, che da tutto il resto.
«È da un mese che ci frequentiamo.» Ma cosa aspettasse lei a dirlo, alla sua migliore amica, sebbene anche questa fosse innamorata di lui, non ci è permesso saperlo.
Erano state le ultime parole che avevo sentito, perché l’unico rumore che era venuto successivamente era stato il tuuu tuuu del telefono, con il mio pollice schiacciato sul tasto con la cornetta rossa. E avevo concluso la chiamata.
«Cerca di capire…» aveva cercato di dirmi.
Una bugia che andava avanti da un mese. Non c’era assolutamente nulla da capire.
Che io fossi stata innamorata persa di Douglas, un tempo, ormai non mi interessava più, poiché lei mi aveva tenuto nascosta una relazione con lui che andava avanti da più di un mese. C’erano mille motivi per cui lei avrebbe dovuto dirmelo subito. La nostra amicizia, la fiducia reciproca, e il fatto che in quel periodo io stavo continuando a sperare in lui, sebbene fosse già appartenenza di Lydia, e quest’ultima aveva lasciato che io mi illudessi; ancora un po’.
Forse era l’essere di Doug così diverso dal mio ad avermi attratta fin dal primo istante. Forse era stato proprio il fatto che fosse così impossibile da raggiungere, il fatto che fosse così lontano, ad alimentare la fiamma del mio “amore”. Si può chiamare amore quel sentimento – non corrisposto – che provi verso una persona nonostante tu non vi abbia mai parlato? Alcuni lo chiamano colpi di fulmine, io la consideravo…
… la mia malattia.
Mi svegliai, socchiudendo gli occhi e con la fronte madida di sudore.
Ancora una volta, avevo sognato tutto. Era come un promemoria che mi rammentava di odiare per sempre Lydia. Eppure sapevo che era un comportamento da immatura. Ma io reputavo me stessa poco più che una bambina, benché avessi già compiuto diciassette anni, e sapevo di non essere il miglior modello adolescenziale che si potesse desiderare.
Viziata e capricciosa. Tutti dovevano eseguire il mio volere. No, questo io non lo pensavo, ma mi aveva detto Gwendolyn, attraverso la porta della mia stanza, che papà mi aveva definita in questa maniera. “Bene, papà”, avevo pensato, “hai visto come hai cresciuto bene tua figlia?”
Con una fitta alla testa pressante e gli occhi ancora appesantiti dal sonno, sbattei una mano sul tasto che spegneva la sveglia, la quale segnava le sette del mattino.
Il lunedì era giunto in fretta, tenendo conto che dalla volta in cui avevo ricevuto Blake a casa mia, non avevo fatto altro che dormicchiare, passando l’intera domenica nel letto. Molti miei coetanei mi avrebbero invidiata, e lo sapevo.
Io avevo puntato la sveglia, tuttavia non sapevo come comportarmi: Blake mi aveva fortemente suggestionata a recarmi a scuola, ma la mia voglia rasentava lo zero assoluto. Lui non faceva mai storie per il mio comportamento apatico e poco socievole, anche perché egli stesso non era troppo diverso da me, eppure doveva aver raggiunto sicuramente una maturazione più elevata della mia per dirmi che era mia responsabilità andare a scuola.
Dunque, la domanda rimaneva sempre la stessa: che fare? Affrontare la dura, spietata realtà e incontrare la coppia del momento, o rimanermene buona buona infilata sotto le coperte?
Mi uscì uno sbuffo dalla bocca.
Sollevai la trapunta fino a coprirmi la fronte.
Riabbassai le palpebre.
Era molto più confortevole starsene al caldo in un letto comodo, alle prime luci del mattino che passavano solo come tenui filamenti da alcune fessure, grazie alla tapparella che stava alla finestra che ne impediva il passaggio.
Sopportai per tutta la mattina, a intervalli di circa mezz’ora, le botte sulla porta di mia madre e il suo strepitare, lamentandosi del fatto che non mi alzavo. Lei esigeva che io andassi a scuola a tutti i costi, eppure, alla fin fine, non faceva nulla per impedirmi di restarmene a letto. Mi bastava avere una buona pazienza e rimanere imperterrita ad occhi chiusi, in attesa che, dopo tutti quegli strilli che mi avevano svegliata, il sonno sopraggiungesse di nuovo.
Finalmente, a mezzogiorno circa smise di darmi delle noie, troppo impegnata a preparare il pranzo. Sebbene fossi chiusa a chiave all’interno della stanza, saliva comunque un lieve profumo che non riuscii bene a distinguere, avendo ancora i sensi assopiti.
Continuai così per giorni.
 
Alle sei del pomeriggio, più di una settimana dopo, ancora non era accaduto nulla di rilevante: succedeva sempre così, da quando avevo incominciato la mia reclusione. Se vogliamo essere precisi, ero ancora sdraiata sul letto, ma le coperte aggrovigliate in una matassa indistinta di tessuto risiedevano sotto il mio corpo, che era steso sulla schiena. I miei occhi fissavano il soffitto mentre le mie orecchie si dilettavano con la musica proveniente dalle cuffie del mio lettore mp3. Lo scrutai. Non era nuovo, non lo era per niente. Tuttavia riproduceva musica, e a me stava benissimo così. La musica era un altro modo, solamente più rumoroso, di estraniarmi da ciò che mi dava fastidio, il che era qualcosa che potevo solamente gradire, viste le circostanze in cui mi trovavo.
Fu solamente quando il brano che stavo ascoltando in quel momento terminò che mi accorsi che qualcuno stava bussando insistentemente alla porta. Lo faceva con così tanta irragionevole frenesia e ansia che poteva trattarsi solamente di quella donna che mi aveva messa al mondo appena diciassette anni prima, commettendo un grosso errore a discapito dei suoi nervi. «Insomma, Keira! Mi vuoi ascoltare?» esclamava.
Trassi un respiro profondo, e pronunciai la prima frase della giornata: «Cosa vuoi?» le domandai con totale indifferenza.
«Volevo solo dirti che ho cucinato la torta al cioccolato. Tutto qui. Se la vuoi, è in cucina, e te la vieni a prendere» disse, con tono che cercava di essere austero ma, insomma, mi aveva appena offerto una torta. Cosa c’è di austero nell’offrire una torta?
C’era qualcosa sotto, ma cosa? Voleva avvelenarmi, addormentarmi, drogarmi per potermi portare con facilità dallo psicologo o qualcosa del genere? O forse era tutta una bugia per farmi uscire da camera mia?
Io ero sempre andata matta per la torta al cioccolato che preparava la mia mamma. Ne mangiavo fino alla nausea, quando ero piccola, e mi promettevo che non l’avrei mai più riassaggiata in tutta la vita. Eppure, ogni volta che lei la ricucinava, il mio amore improvvisamente rinasceva. Solamente concepire il pensiero che potesse esserci una torta appena fatta al piano di sotto, posta in un vassoio bianco sul tavolo ancora chiazzato di farina della cucina, mi creò un turbinio di idee insistenti: dovevo averla.
Attesi pazientemente, con il desiderio che, ogni secondo che passava, andava in crescendo, e alla fine mia madre si rassegnò e si diresse giù per le scale tra uno sbuffo e l’altro. Balzai dal letto dicendomi di non agire con impeto e andai a socchiudere la porta: il delicato ma allo stesso tempo penetrante profumo di torta, con l’odore pungente del cioccolato, mi riempì le narici, e ne rimasi estasiata. Le papille gustative iniziarono inevitabilmente a fremere ancor prima di sentire quel sapore dilettarmi lingua.
Se mamma aveva davvero cucinato la torta, allora non doveva averlo fatto perché c’era qualcosa sotto, almeno così pensai.
Quatta quatta e in punta di piedi, scesi le scale e m’intrufolai in cucina, come se fossi una ladra, sebbene mia madre mi avesse vista all’istante. Era seduta su uno sgabello che dava sul tavolo dal quale, distrattamente, stava ripulendo la farina bianca con uno straccio. Come avevo previsto, su un vassoio, giaceva indifesa una torta, la cui fragranza si faceva sempre più intensa ad ogni passo che muovevo nella sua direzione. Presi uno sgabello anch’io e mi sedetti. Mamma aveva già tagliato una fetta di torta per me – di grandi dimensioni, come era mio solito mangiarne. Quel gesto non alleviò i miei sospetti, anzi, parve acuirli. Sapeva per certo che sarei venuta al piano di sotto a controllare. Tuttavia, inebriata dal profumo del dolce che attendeva solo di essere ingurgitato da me, divorai la fetta di torta gustandomela a malapena. La donna che sedeva davanti a me sembrava avere l’aria più che soddisfatta. «Cos’è quel sorrisetto che hai?» le domandai, ripulendomi la bocca sporca di briciole con la manica della camicia da notte che ancora indossavo.
«Oh, niente, niente» fece lei, trattenendosi. «Solo che mi fa piacere che tu apprezzi ancora qualcosa di quello che faccio.»
Non era mai stata un tipo troppo sentimentale. Persino quella frase mi parve troppo strana, pronunciata dalla sua bocca. Ingoiai l’ultimo pezzo di torta che mi era rimasto e immediatamente, assalita da nuovi sospetti, fuggii su per le scale leccandomi le dita dai residui.
La porta della mia stanza era spalancata – non come l’avevo lasciata – e subito fuori, sul pavimento freddo del corridoio semilluminato, erano impilate due o tre file di libri. Vidi mio padre, con le maniche della camicia tirate su fino ai gomiti, che trasportava una decina di libri per volta da camera mia a lì fuori. Fuori dalla mia portata.
Cacciai uno strillo con tutto il fiato che avevo, e mi gettai sui miei libri. «Papà, che cosa stai facendo?» Stavo seriamente cominciando a spaventarmi di ciò che poteva succedere.
Vidi l’omone di fianco a me emettere uno sbuffo di fatica. «Porto via i tuoi libri, non vedi?» mi disse con un’ovvietà che mi sorprese. Prima che potessi esclamare stupefatta, però, proseguì: «Ordini superiori, mi spiace davvero molto.»
Lo vidi scrollare le spalle bonariamente, e la rabbia colmò d’un tratto tutto il mio essere, espandendosi e saturando capillarmente ogni fibra del mio corpo. La mamma mi aveva attirata giù in cucina per quello, non c’era altra spiegazione. «No, i miei libri no! Aspetta!» Cosa avrei fatto per tutto il giorno senza i miei libri?
«La mamma ha detto che finché non ti deciderai ad uscire di lì e a riprendere la tua vita, questi qui» indicò, dopo aver appoggiato alcuni volumi, tutte le pile che si erano ammucchiate «vanno tutti giù in seminterrato.»
Sbarrai gli occhi. «Nel seminterrato? Ma ti rendi conto che c’è odore di muffa laggiù? Impregnerà tutte le pagine!»
«Sai quanto gliene importa, alla mamma?» mormorò, per non farsi sentire dalla donna che, intanto, era al piano di sotto speranzosa che il suo piano fosse andato a buon fine. «Chiuderà a chiave la porta del seminterrato così anche quando non ci saremo non potrai andarli a recuperare. Si è organizzata per bene.»
Si decidevano ad essere severi proprio in quel momento. Non seppi come comportarmi. A pugni stretti e sudata, ringhiando di collera, tornai nella mia stanza e presi alcuni dei libri che erano rimasti, i più importanti e i più significativi, compreso il suo quadernetto dalla copertina azzurro sbiadito, e ne infilai un po’ sotto le coperte e sotto il cuscino, dentro i cassetti dell’intimo, sotto la biancheria in modo da renderli invisibili, in tutti i punti dove sapevo che non avrebbero controllato. “Stronzi”, pensai alla fine, ribollente d’ira e con una sola, unica lacrima che le scivolava sulla guancia sinistra.
 
Anche quella sera feci entrare Blake di nascosto: se i miei genitori l’avessero visto, avrebbero insistito con lui perché mi convincesse a tornare a scuola e non ci avremmo più cavato i piedi per tutta la notte. Così addio film, o qualsiasi altra cosa avremmo fatto.
Chiaramente, non appena lo accolsi notò la mia faccia frastornata e il vuoto che aveva aggredito così repentinamente la mia stanza, e ne dedusse subito che doveva essere accaduto qualcosa.
Dopo che gli ebbi raccontato tutto, da quella mattina quando avevo ignorato ancora una volta i tentativi di mia madre di farmi alzare al sequestro dei miei libri, lui esordì in questo modo: «Pensavo che fossero i miei i genitori severi, mentre i tuoi erano, se non sbaglio, i “mollaccioni privi di polso”, o come li avevi chiamati tu.»
«Non mi sei per niente d’aiuto, così» gli risposi, forse un po’ troppo bruscamente. Sì, il nervosismo talvolta mi faceva reagire non molto bene.
«D’accordo» alzò le spalle lui. «Allora posso anche andarmene.»
Fece finta di uscire per andare via, ma io glielo impedii, bloccandolo per un braccio. «Non so più che cosa fare» sibilai, inutilmente, perché lui lo sapeva già. Chiusa in camera mia, senza nessuno a parte lui che mi venisse a trovare e che mi raccontasse cosa accadeva là fuori, i miei che mi avevano staccato la connessione a Internet, e adesso senza più neanche i miei libri. Che cosa potevo fare?
Blake si voltò, fissandomi negli occhi. Aveva un’espressione sul volto di quelle solenni che vogliono comunicarti, senza dirti nulla a parole, la cosa giusta da fare. Gli occhi luminosi color zaffiro erano mirati su di me, in uno sguardo intenso, così tanto che pur conoscendoci da anni ancora non avevo imparato a sorreggerlo. E allora, compresi subito. «Non staresti così adesso, se almeno andassi a scuola» disse, estinguendo definitivamente ogni mio dubbio. «Sono giorni che non ti vede più nessuno.»
Scossi la testa con decisione. «No, io non ci vado.» Mi rendevo perfettamente conto di assomigliare ad una bambina capricciosa, ma in quel momento che me ne facevo dell’orgoglio? «E poi non credo che là sentano la mia mancanza.»
Alla fine, stanco della mia caparbietà, mi prese per le spalle. Aveva una presa ferrea e ferma, e anche se mi fossi dimenata, lui non avrebbe mollato nemmeno per un secondo la sua morsa che mi teneva in trappola. «Keira, non è difficile: trovate un punto d’incontro, e basta. Puoi fare così per un po’ di tempo, e aspettare, poi potrai di nuovo fare quello che vuoi. Ma se non accetti il fatto che adesso devi uscire da quella porta, i tuoi libri rimarranno nel seminterrato per chissà quanto tempo.» Vedendo che non avevo alcuna reazione, alzò un sopracciglio, e proseguì senza indugi. «Prima che tu riesca a recuperarli le pagine saranno già ingiallite, e le copertine logorate.»
Quella frase conclusiva bastò per mettermi orrore: mi seccava doverla dare vinta ai miei genitori, tuttavia non avevo altra scelta. E in più, sospettavo che se avessi continuato così sarebbero arrivati a soluzioni ancor più drastiche, come togliermi la luce, o qualcosa del genere. Attesi in silenzio, finché la presa di Blake non si fece un po’ meno salda; a quel punto, mi liberai facilmente e potei allontanarmi da lui, mettendomi a sedere sul letto e affondando nel materasso. «Tu non riesci minimamente a comprendere cosa sto sopportando, sapendo i miei libri laggiù. Non lo comprendi perché non leggi.»
«Bene, una ragione in più per fare come ti dico io.»
Tirai su le gambe, e mi rannicchiai, infilando il capo tra il grembo e le ginocchia. Sbuffai un “Sì” poco convinto, prima che Blake traesse un sospiro di sollievo. Non mi era mai piaciuto scendere a patti. E ancor meno mi piaceva l’idea in quel momento di andare a scuola: non dopo tutto quello che vi avrei trovato. Sì, perché quella ragazza che odiavo tanto riusciva comunque a farmi patire delle pene che scaturivano esclusivamente dal mio affetto nei suoi confronti.
Era contraddittorio come discorso, ma scommisi che Blake l’avrebbe capito. «Non voglio vedere Lydia» mormorai, per celare il mio tono di voce affranto.
Lui, prima di rispondere, si avvicinò, sedendosi accanto a me. Aspettò che mi aprissi dalla mia posizione a riccio, prima di cingermi affettuosamente con un braccio. Il calore del suo corpo mi pervase, accogliente come una casetta di montagna in pieno inverno. «Se non affronti i tuoi problemi nella vita reale, poi questi non ti daranno pace e ti inseguiranno anche nei tuoi pensieri.»
Gli diedi una pacca scherzosa per sdrammatizzare la situazione. «Da quando sei diventato un filosofo?» gli domandai, tuttavia non appena finii di dirlo capivo che non avevo molta voglia di scherzare.
«Domani la vedrai, lei cercherà di parlare con te, e chiarirete la situazione; farete pace e non se ne parlerà più. Tutti felici e contenti, no?» disse Blake.
«No!» esclamai bruscamente, tirandomi su in piedi di scatto. «Non voglio vederla, ti ho detto, figuriamoci parlare con lei.»
Chiusi gli occhi, e mi sforzai di ragionare più a mente fredda. Qualche secondo dopo, avvertii le braccia di Blake circondarmi una seconda volta, e in seguito la sua mano che mi scompigliava i capelli. Mi lasciai andare, appoggiandomi al suo corpo caldo e affondando la faccia nella larga felpa. «Se la odiassi soltanto e volessi solamente vendicarti di lei, non ti sentiresti così» disse, con un tono che sembrava più indifferente di quel che era in realtà. Non era mai stato molto bravo a consolare, ma del resto non lo ero neanche io, e mi andava bene così.
«È molto più complicato di così.»
Ed era vero. Non ero arrabbiata solo per il torto che mi aveva fatto: ero arrabbiata perché l’avevo persa, ed era colpa sua.
«Non ho voglia di pensarci» indietreggiai, sfuggendo al suo contatto, e mettendo in mostra un ampio sorriso: forse, se mi sforzavo almeno di sembrare felice, mi sarei dimenticata di Lydia. «Che hai portato?» domandai. Ero stata così presa dalla conversazione, che mi era passato di mente anche il fatto che il mio stomaco stava brontolando.
Blake sventolò un nuovo sacchetto di popcorn che aveva appoggiato temporaneamente sulla mia scrivania. Il mio umore a terra fu risollevato, seppur in maniera modesta. «Dimmi che verrai, domani» disse lui, cercando di essere persuasivo. «Non ti chiedo di parlare con lei, ti chiedo solo di tentare e venire. Gente molto più arrabbiata e abbattuta di te si ribella molto meno di quanto tu abbia fatto finora. Fallo per me, Keira.»
In realtà quella non l’avrei chiamata “ribellione”. Recludersi in una stanza non era una ribellione, era un lasciare passivamente che la propria esistenza scorresse. Comunque sia, non sapevo perché Blake mi avesse detto quelle cose: solo io decidevo se fare qualcosa o meno, non c’era verso di convincermi, e lui lo sapeva bene. Probabilmente, ancora non aveva rinunciato alla speranza di potervi riuscire.
Alla fine, tuttavia – non so cosa mi passasse per la testa – riuscì a strapparmi un cenno d’assenso con il capo. In quella maniera avevo detto “Sì, io domani vengo, e accetto il fatto che tutto quello che m’infastidisce e che disprezzo sia lì, senza fare una piega”.
«Brava» mi lodò Blake, assestandomi una pacca sulla schiena. «Così mi piaci. Non è poi una catastrofe, come la fai sembrare tu.»
Irritata dalle sue parole, improvvisamente, sbottai: «Per te è facile dirlo, i tuoi amici non ti hanno tradito e non ti hanno spezzato il cuore!» Generalmente, con chiunque altro, non avrei reso l’idea dei miei sentimenti così esplicitamente; non era nel mio carattere. Tuttavia, con Blake sapevo di poterlo fare senza problemi. Lui comprendeva, e molto meglio di altre persone che mi stavano vicino per più ore al giorno.
«Non che ne abbia una catasta!» esclamò Blake, sdrammatizzando anche lui, ma con più successo di quello che ebbi io in precedenza. «E comunque capita. Se si è veri amici, ci si perdona, no?» tentò di convincermi.
Fino a quel punto non mi sarei mai piegata: mi aveva già convinto sul recarmi a scuola, e perdere una battaglia quel giorno era già sufficiente. «Se si è veri amici, non ci si dice le bugie, non ci si mette insieme a determinate persone. E poi, cosa che mi infastidisce molto, non si convincono gli amici ad andare in un posto contro la loro volontà» terminai la battuta enfatizzando sull’ultima frase, in modo che lui potesse capire chiaramente a chi stavo alludendo.
Lui, in tutta risposta, sollevò le sopracciglia. «Oh, scusa se mi sto preoccupando per te» ironizzò con pacatezza. «Dico solo che per prima cosa, probabilmente Lydia non ti ha detto nulla perché non sapeva come fare. Comprendila, non è molto facile andare a dire alla propria migliore amica che ci si è innamorati del ragazzo al quale era interessata anc…»
«Lei non doveva farlo!» lo interruppi inavvertitamente, incollerita, nessuno dei due che si stava rendendo conto del mio tono di voce troppo alto. «Non doveva mettersi insieme a Douglas! Non doveva!»
«E perché?» chiese lui, con uno sguardo che era un misto tra curiosità e divertimento nel farmi capire che ero io quella che aveva torto. «Insomma, Douglas era single. Tu non ci stavi insieme. Lui, inoltre, non ti aveva mai detto in nessuna occasione di essere interessato a te…»
Quella fu una freccia dritta al cuore. Un altro che mi diceva solo adesso che con quel ragazzo non avrei avuto speranze, una volta disincantata e con il cuore in frantumi. «La smetti?! Potevi dirmelo prima, che Douglas non mi considerava, così almeno mi sarei risparmiata un sacco di sofferenze inutili!» strillai, in preda all’ira, avvampando violentemente in viso e con il sangue che pulsava nel cervello.
«Io te l’ho detto» replicò Blake, con calma. «E mi sentivi anche, quando lo facevo. Sentivi, ma non ascoltavi.»
«Ma…!»
Si udì d’un tratto un bussare frenetico alla porta. «Cosa sta succedendo lì dentro?!» chiese una voce agitata, giovane e femminile.
Senza accorgercene, avevamo svegliato tutta la casa. O meglio, io avevo svegliato tutta la casa, con i miei gridi e i miei strilli iracondi. Feci un cenno a Blake, che andò ad aprire la porta, girando la chiave nella toppa. Indietreggiò non appena Gwendolyn e i miei genitori irruppero nella stanza, vestiti per andare a dormire, mio padre che sbadigliava e mia madre con i capelli arruffati.
«Keira, diamine, la smetti di ur…» la mamma s’interruppe non appena scorse la figura di Blake che le aveva aperto la porta, e rimase meravigliata dalla sua presenza. «E tu?» fece, perplessa.
Fui io a porre fine a quella situazione imbarazzante: «L’ho fatto entrare io» dissi, con voce acida per la discussione interrotta pochi istanti prima. «E se ne stava giusto andando» proseguii, non senza ancora una punta di astio nella voce.
Vidi Blake annuire, mentre si scusava con un sorriso imbarazzato sulle labbra, e io lo accompagnai al piano di sotto, verso la porta. Era tranquillo, sapeva che mi arrabbiavo con facilità, certe volte, e sapeva anche che il giorno successivo me ne sarei a malapena ricordata. Ma benché fosse così, in quel momento ero fuori di me.
Stava per uscire, quando lo sentii dire: «Ci vediamo domani, allora. A scuola» specificò, provocando la mia ulteriore irritazione.
«Fuori» risposi, ferma e decisa, cercando di mantenere un contegno, ma accompagnando la mia espressione con un sospiro, che lui decifrò come la mia rassegnazione, la mia resa. Sì, avevo perso.
Non era ancora il giorno dopo, e io già avvertivo una folle ansia che mi schiacciava il petto in una morsa soffocante.
«Ho sentito bene?» squittì Gwen, precipitandosi giù per le scale, non appena ebbi richiuso la porta principale. «Hai detto che domani andrai a scuola?» Anche lei sorrideva, forse più per il sollievo del fatto che non avrei più urtato i suoi nervi e quelli di mia madre, più che per il fatto che finalmente mi fossi decisa a uscire ad affrontare il mondo esterno.
«Fatti gli affari tuoi» la liquidai, sorpassandola e urtandole la spalla. Nel momento stesso in cui mi chiusi nuovamente a chiave nella mia stanza, crollai in ginocchio al suolo, traendo respiri profondi e pregando che la mia ansia insensata che incombeva su di me se ne andasse, anzi che intensificarsi ad ogni acquisto di ossigeno nei polmoni.
Avevo perso, a quanto pareva. Contro mamma e papà. Tuttavia, qualche giorno dopo avrei reputato questo episodio come un nonnulla rispetto alle sconfitte che avrei ricevuto successivamente. Avrei rimpianto tutto ciò che in quel momento detestavo e mi stava sui nervi.
Avrei pregato gli dei di tutte le religioni, pur di poter essere ancora accasciata sul pavimento di casa mia come  lo ero ora.



I deliri pensieri di Camelia:
mi prendo la responsabilità per non aver fatto ancora comparire il mio amore Logan, terzo vertice di questo triangolo che si verrà a formare ;P spero non vi sembri troppo banale, detta così. Cosa accadrà nel prossimo capitolo? Sopravviverà Keira? xD per scoprirlo, attendete Camelia con il terzo capitolo, che prima o poi presto arriverà. Forse.
Ci tengo a ringraziare tutti coloro che mi hanno finora letta e recensita, davvero, non mi aspettavo un successo così grande, o almeno non subito al primo capitolo! Sono davvero contenta :)
In particolare, ringrazio anche
mistress_chocolate
ThePoisonofPrimula
VeronicaL
Coloro che mi sopportano perché Camelia, come ben si dovrebbe sapere di lei, sa solamente parlare di scrittura (e va be'... qualche volta parlo anche di altro... per esempio, di gatti e di anime giapponesi!! xD) un bacione, alla prossima!!
Cam

   
 
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