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Autore: Kokato    09/12/2011    1 recensioni
“Io ho ucciso un uomo”.
La donna sorrise, improvvisando con il capo un inchino ironico. “Buon per te”.
“Io sono ancora viva”.
“Sì, credo di averlo intuito…”. Una ragazzina in vestito di seta rosa, nell’inverno londinese, con le piccole gambe bianche che spuntavano dal buio come il richiamo lasciato alla bestia che trotterellava, gironzolava nei paraggi del quartiere nero e umido di pietra bagnata. “… e cosa vuoi da me?”.

Roy x Riza x Olivia
Spin-off de 'La villa delle arance', ambientata in parte prima ed in parte dopo gli eventi di quest'ultima, ma non è necessario averla letta per capire questa fic.
Genere: Drammatico, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Olivier Milla Armstrong, Riza Hawkeye, Roy Mustang
Note: AU | Avvertimenti: Triangolo
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- Questa storia fa parte della serie 'Orange Saga'
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CAPITOLO I

Shadow in the rain

 

La donna sospirò, sopportando le gocce di pioggia con la sufficienza con cui si sopporta un corpetto troppo stretto, un dilemma cui non si è avuto il tempo di riparare.

Ciò che vedeva in sé stessa come forza, come intransigenza, come qualcosa di cui andare fiera, per gli altri era il capriccio di una donna viziata. E le donne vanno viziate solo entro un certo limite.

Per quanto assurdo fosse, lei condivideva in parte quella teoria. Quando la ragazza apparve non ebbe pietà di lei, e avrebbe voluto prendersi il capriccio di schiaffeggiarla, di cacciarla via mentre piangeva, disperata, chiedendole pietà. Ma la ragazza non lo fece, rimase in piedi nella pioggia, con le mani che stringevano l’orlo del vestito elegante, strappato e insanguinato. Nella sua espressione non poteva leggersi niente, e lei non poteva rispondere ad una domanda, ad un appello che non le veniva rivolto. Pensò di schiaffeggiarla ugualmente, perché anche non manifestare niente equivaleva ad una debolezza, ad una mancanza di spina dorsale tale da rendere vuota persino la conformazione del volto. La ragazza senza volto non parlò, stette sulla porta di casa sua, in piedi, immobile nel via vai dei passanti poco raccomandabili che la fissavano, ridacchiavano, se ne andavano, ronzavano come mosche che attendono l’arrivo di una carcassa.

“Cos’è, vi siete persa, Signorina? La vostra carrozza è nei paraggi?”. Quella girò la testa, alzando il vestito oltre la meta del polpaccio, la focalizzò con un movimento delle pupille. Aveva lunghi capelli biondi -come i suoi-, l’atteggiamento di una donna viziata -come il suo-. La sentì simile, nel suo aspetto disdicevole e nella sua noncuranza. Era la piccola figlia pasciuta di un Lord, di un Conte, di un Duca, buttata in mezzo alla strada, a sangue e a malattie che non si possono curare. La donna che pensava di poter fermare la pioggia osservò il suo compagno, che nessun altro sembrava riuscire a scorgere, in mezzo alla lieve nebbia che l’avvolgeva. A Londra la nebbia era ovunque, negli orifizi, sul palato, lambiva la pelle delle persone come un velo, ma lei ne era la padrona. Non ne era parte, se ne faceva scudo. Poiché la donna poteva comandare la pioggia -ma non lo faceva per puntiglio-, non temeva l’ombra che accompagnava la ragazza. Le faceva da cavaliere, diligentemente.

L’ombra di un uomo, alto, una sagoma nera di cui era visibile solo un sorriso bianco, una mezzaluna storta, a metà tra il divertito ed il derisorio.

“Dimmi chi sei e cosa vuoi da me, ragazzina…”, sbottò, senza più alcuna cortesia, e senza pazienza. “… o ti faccio sloggiare a calci”.

“Io ho ucciso un uomo”.

La donna sorrise, improvvisando con il capo un inchino ironico. “Buon per te”.

“Io sono ancora viva”.

“Sì, credo di averlo intuito…”, una ragazzina in vestito di seta rosa, nell’inverno londinese, con le piccole gambe bianche che spuntavano dal buio come il richiamo lasciato alla bestia che trotterellava, gironzolava nei paraggi del quartiere nero e umido di pietra bagnata. “… e cosa vuoi da me?”.

L’ombra dell’uomo digrignò il suo sorriso senza denti, a quella domanda, e fu l’unica risposta che ottenne. La ragazza l‘affrontò, in punta di piedi come se volesse fronteggiarla allo stesso livello, a tutti i costi. “Come ti chiami?”.

“Riza”, rispose immediatamente, muovendo le labbra in uno scatto che la vista di un essere umano non potrebbe cogliere. La donna le porse la mano, sorridendo. “Olivia Armstrong”.

L’uomo nero la fissò da dietro le sue spalle, e la cavità bianca che era il suo ghignò divenne una voragine, dove fiati sovrannaturali, vortici laceranti, le urla di uomo vivo erano stati digeriti. Olivia Armstrong aveva sempre saputo che il mondo non era esattamente come lo vedevano gli altri, lei non era proprio come la vedevano gli altri.

Olivia Milla Armstrong incontrò Riza sulla porta di casa sua, una fredda notte del Dicembre 1899.

 

***

Olivia Milla Armstrong era la caporedattrice del London Central Journal, e viveva in un piccolo appartamento nero e sudicio sopra la redazione. Il liberalismo d’informazione tanto decantato non riusciva a non nascondere il fatto che una strana donna ne tirava le fila, dura, militare, scorbutica ed inquietante come un barbone che pretende gli si dia attenzione per quanto non ne meriti. Quindi, ufficialmente, il suo nome era riportato, sulla testata, come ‘Olivier Armstrong’.

Un simile strano caso non sfuggiva ai pettegolezzi, e la capricciosa figlia degli Armstrong -centenaria stirpe di rimbecilliti in armatura sin dai tempi di King Arthur-, che si aggirava tra le maldicenze dell’East End era così caratteristica e così mitologica che non si poteva non discuterne.

La Signora delle parole e della pioggia, camminava con la mano stretta al manico di uno stiletto, con la credenza di essere il generale di truppe fatate ed invisibili.

Riza buttò un occhio ai fogli impigliati sulle scrivanie storte passando al piano di sotto, scuotendosi il vestito dal sangue raggrumato mentre saliva le scale. Era silenziosa, ma Olivia non sapeva dire se lo fosse per motivi di etichetta, perché non sapeva cosa dire, o se perché aveva già detto ormai tutto. L’interesse transitorio che manifestò per il suo luogo di lavoro non la lusingò, non distolse la sua attenzione dall’uomo nero che sgambettava dalla sua spalla destra, indicandola e ridendo senza far rumore. Il buio ne rendeva i tratti confusi, l’abisso del suo sorriso si curvava in su ed in giù mentre abbracciava Riza, la lasciava, si staccava e si riavvicinava sollazzandosi nell’oscurità, a proprio agio. Aprì la porta del suo piccolo appartamento, verdastro e spoglio. Non era ampio più di 540 piedi quadrati, contenente soltanto un tavolo, una stufa, un letto visibile da una porta più in là. Era simile all’alloggio di un soldato più che alla residenza di una giovane donna, pieno d‘aria pesante che quasi si poteva toccare, rigida ed palpabile, come se la padrona di casa non si permettesse nemmeno di respirare. Si poteva pensare che non si nutrisse, che non dormisse, che stesse solo lì a guardare la strada dalla finestra dalle tende sporche, assorta nel furore di una disciplina di vita che si materializzava così, nella pioggia e nel vento dal peso insostenibile, ed in ombre sorridenti.

C’era una sola sedia, e Riza vi si sedette subito, senza chiederlo.

“Ma sì, fa con comodo”, esalò Olivia sarcastica, mentre si toglieva il cappotto grigio e lo riponeva nella minuscola camera da letto. Quel gesto poteva far pensare che avrebbe potuto lasciarla lì, ma lei era notoriamente una bisbetica senza pietà, e tornando verso di lei la buttò giù dal suo giaciglio. “Non ti sei certo guadagnata il diritto di fare quello che vuoi in casa mia. Questa sedia è mia”.

Riza rimase in piedi davanti a lei, composta, e così fece l’uomo nero, che aveva osservato i dintorni con aria disgustata. Era così fredda che non riusciva nemmeno a risentirsi di un tale sgarbo, che nei salotti della nobiltà sarebbe stato sottolineato da un brusio di chiacchiere indignate e tintinnare di porcellana. “Così avete fatto fuori un uomo, eh? Immagino volesse violentarvi”.

“Non capisco cosa intendete”.

Il sangue rappreso si era infiltrato nelle fibre del vestito, scurendone il colore, permettendole di mimetizzarsi nella mancanza congenita di luce del luogo dove viveva. Olivia accavallò le gambe, in una posizione poco signorile. “Non vi denuncerò, anche perché credo che stiate mentendo. Dove risiede la vostra famiglia? La informerò di modo che vengano a prendervi”.

“Non capisco cosa intendete”.

“Mi prendi in giro, ragazzina?”, non aveva pazienza, ed era un lato di lei che Riza doveva imparare se non voleva venire a conoscenza di quanto poco femminile potesse essere. Abbandonò il tono da buone maniere. “È una fortuna che tu sia finita di fronte al portone di casa mia, ma non sfidare la sorte ulteriormente. Non è perché ho capelli biondi come i tuoi e sono simile a te che puoi pensare che io sia disposta ad essere solidale. Non lo sono affatto. Sei riuscita a sopravvivere fino ad adesso, te ne do atto, ma non sono disposta a farti da balia. Quindi vedi di tornartene a casa tua”.

“Non ho una casa, Signora”.

“E cosa pretendi che faccia? Che ti tenga qui? Ti sembra un luogo dove possa vivere una ragazzina in vestito di seta?”. Trovava più assurdo il suo abbigliamento delle sue parole, di ciò che sosteneva di aver fatto. Doveva avere non più di diciassette anni, e non aveva idea di cosa potesse aver subito nel tempo in cui era gironzolata nel quartiere, a piedi nudi, bianca, rosa ed indifesa. Non rispose neanche a quella domanda, rimanendo rigida nella sua posizione, nel fronteggiarla silenziosamente. Se avesse potuto emettere un suono l’uomo nero alle sue spalle avrebbe ridacchiato, aprendosi in un abbraccio infedele, avvolgente come un tentativo d’assassinio carnale.

“Io non voglio niente”.

“Ne dubito, ragazzina. Ma non posso nemmeno ributtarti in mezzo alla strada. Sappi che non avrai vita facile con me, quindi ti conviene parlare… te l’ho detto”. La ragazza annuì, in un gesto diretto, veloce e fievole, di cui si poteva dubitare l’attimo successivo. Olivia sorrise, alzandosi, prendendola come una sfida.

“Bene, allora dormirai per terra… perlomeno finché non ti sarai trovata un letto per conto tuo”.

Riza annuì. L’ombra fece una giravolta afferrandole la testa con i palmi delle mani, coprendole le orecchie.

Olivia non seppe mai dire perché non le avesse chiesto cosa o chi fosse quell’essere che la braccava, e che provava per lei sentimenti che sul suo volto sembravano non aver mai albergato.

***

Riza dormì sul suo pavimento, nell’abbraccio del suo cavaliere a farle da coperta. Il suo sonno fu quieto ed innaturale, si pose sul fianco destro e non si mosse per tutta la notte. La mattina la trovo seduta in un angolo, che fissava il vuoto con i grandi occhi castani come se intravedesse qualcosa che non riusciva a mettere a fuoco. Il lavoro del giornale era in pausa per i giorni di Natale, dopo le insistenze sconsiderate e pedanti dei suoi collaboratori. Per quanto riguardava Olivia potevano lavorare anche da morti. E non era capricciosa o particolarmente esigente, è che aveva deliri di esasperazione in cui, talvolta, credeva addirittura che un cadavere potesse benissimo scrivere un articolo più interessante di quanto avrebbe potuto fare uno qualunque di quei debosciati. Il loro non era un quotidiano di cui si sentisse la necessità tutti i giorni, ad ogni modo -non ancora, perlomeno-. Cosa avrebbe cercato di fare di quella ragazzina per il resto della giornata era davvero un mistero. Sperò che lo scomodo giaciglio che le aveva offerto, senza neanche un cuscino o una coperta, l’avesse convinta che era meglio non affidarsi a lei più del dovuto.

“Alzati, non ho niente da mangiare in dispensa. In via straordinaria ti offrirò la colazione, ma sappi che se vuoi rimanere qui dovrai guadagnartela … intesi?”, Riza annuì. Si era alzata in piedi fin da quando Olivia le era venuta vicina, cautamente. Non dimostrava fiducia, non dimostrava eccessiva cautela, semplicemente non dimostrava niente, e forse era del tutto inutile sperare che qualche tipo di reazione sarebbe sorta in lei, prima o poi. Olivia sarebbe dovuta essere a sua volta una Signora, delicata ed educata, che avrebbe dovuto piagnucolare solo a mettere piede nel suo bugigattolo, ma non lo era, e non lo era neanche Riza.

C’era qualcosa, perlomeno, che apprezzava in lei.

Una disciplina inamovibile, rigida, non voluta, che la rendevano invisibile e fin troppo ingombrante allo stesso tempo. “Devi farti un bagno, o penseranno davvero che hai ammazzato un uomo. La vasca è nella stanza vicina alla camera da letto, cerca tu il sapone, sarà in qualche ripiano. Più tardi verrò a darti dei vestiti che ti staranno un po’ grandi… ma ti dovrai accontentare”.

Riza annuì, come un soldato davanti al proprio superiore, dirigendosi verso la direzione che le aveva indicato. L’uomo nero saltellò, seguendola, premurandosi di voltarsi a salutare, con un movimento delle dita scure, la padrona di casa. Una volta chiusa la porta Olivia si chiese se non fosse il caso di cacciarlo via dalla stanza da bagno, o perlomeno di staccarlo dalle sue grazie.

Si prese le tempie tra due dita, chiedendosi fino a quando sarebbe riuscita a rimanere sana di mente, in quella situazione.

***

Avevano dovuto fermarle la gonna intorno ai fianchi con delle spille, la camicia di cotone le arrivava alle ginocchia ed il cappotto di lana grigia la copriva interamente, rasentando con l’orlo il terreno. Nessun bambino di strada si premurava di guardare alla taglia dei vestiti che gli capitavano sotto mano, ma anche camminando per strada lei irradiava una rigidità nobiliare che non passava inosservata. Da sola sarebbe finita ammazzata e con la vulva più larga di un pollice in un solo giorno. Con lei le sarebbero venute le reni quadrati entro lo scorrere di tre notti, se si fosse impuntata a dormire sul pavimento.

Decise di essere gentile, ci si sforzò davvero.

Anche in un bar piuttosto di classe, con i vetri spessi delle grandi finestrate lavorati di ghirigori assolutamente inutili, lei mantenne la sua aria di sufficienza. Fissò l’ambiente come aveva fissato il suo alloggio.

Stette davanti ai suoi toast con burro e marmellata d’arance, mentre l’uomo nero le tamburellava sulla spalla, incitandola a mangiare. Non li aveva scelti lei, e di conseguenza sembrava anche intenzionata a rifiutarli come faceva con le sue domande.

Era seriamente indisponente.

“Non vuoi proprio dirmi da quale famiglia provieni?”.

“Non ho nessuna famiglia”.

“Sono morti?”.

“Non ho nessuna famiglia”, ribadì, col suo tono piatto.

“Come si chiama tua madre?”. Riza osservò il cameriere poggiare una tazza di tè, senza mostrare interesse o desiderio, in ogni caso. Non rispose, come se pretendesse che una qualunque delle sue risposte precedenti valesse anche per quel quesito. No, non ho nessuna famiglia, non capisco cosa stiate dicendo. Non si poteva ricavare nessuna soluzione, e benché meno qualche grammo di pazienza. Ma non mangiava, non beveva, non si approfittava della sua gentilezza costata tanti conflitti verso sé stessa. “Non ti stai approfittando di me, questo è evidente. Ma allora, se non vuoi mangiare, se non vuoi bere, se non vuoi parlarmi, se non vuoi un luogo comodo dove dormire… cosa vuoi da me?”.

Teneva le mani in grembo, era seduta sul bordo della sedia, pronta a saltare via in ogni istante. Forse non era proprio vero che non provava niente, non era vero che non desiderava niente, soltanto non sapeva esternarlo. Le giovani signorine di alta classe esternavano tutto con risolini acuti, gesti affettati, complotti sussurrati. “Niente”.

“Capisci che verrai uccisa se ti lascio in mezzo alla strada? Sono una donna orribile, a quanto si dice in giro, ma persino per me un gesto simile è troppo crudele…”, lo disse ridendo, masticando un pezzo di pancetta e uova troppo grande per essere il boccone di una signora. “Non c’è proprio nulla che ti ricordi?”.

Per la prima volta parve che s’impegnasse davvero a riempire la sua bocca di qualche frase concludente. Abbassò il viso sul suo piatto, ruotò le pupille, dette un segno di umanità. L’ombra la fissò con il viso ad un centimetro dal suo, naso contro naso, anch’egli in attesa, quando dalle labbra chiuse si udì un motivetto che non aveva mai sentito, ma che aveva l’aria di essere una filastrocca, una canzoncina per bambini. Probabilmente, però, non ricordava le parole.

“Cos’è, ora ti metti anche a cantare?”

Riza ripiombò nel suo silenzio impersonale, dopo aver cantato con la sua voce da bambina, non troppo acuta, non troppo virtuosistica. Era l’unico ricordo che aveva, qualche nota da cantare a bocca chiusa. Olivia finì di masticare, perché quell’occupazione la deconcentrava. “Non conoscevi l‘uomo che hai ucciso?”, chiese. Il segreto di quell’ombra andava indagato, ma doveva innanzitutto capire dalle sue risposte se poteva fidarsi di lei, e fino a che punto. E lei non ne diede, abbassò il capo sul piatto ancora pieno, studiandone il contenuto, concentrata. Il suo accompagnatore era fermo, calmo, vigile sullo strano comportamento della sua prigioniera. Olivia cominciava a non sopportarlo più, a pensare che fosse un presagio che andava scacciato. Sapeva che il mondo non era esattamente come si presentava, lo sapeva da molto tempo, ma non sapeva come affrontarlo.

“Mangia”, le ordinò, interrompendo il decorso di un silenzio seccante.

Alzò il viso verso di lei, per la prima volta esprimendo un dubbio soltanto con i lineamenti del suo viso bianco. Poi impugnò le posate, provando ad imitarla, con metodo freddo ed analitico.

“Puoi prenderlo con le mani, se vuoi”.

Riza seguì il consiglio, addentando il toast con dedizione. L’ombra la osservava, avvinta dalla scena in una maniera quasi ipnotica. Deglutì, non dette segno di aver gradito o meno, ma dette comunque un altro morso poco dopo.

Bene, non sapeva neanche mangiare.

Olivia osservò la pioggia fuori dalla finestra, rendendosi conto con fastidio di non averle ordinato di farsi vedere, quel giorno. Sorrise, quel modo di scherzare con sé stessa era patetico. Ma la porta del bar si aprì, lasciando entrare l’ultima persona che avrebbe voluto vedere in quel momento, togliendole ogni voglia di fare autoironia.

Riza lo inquadrò, focalizzò la sua attenzione dal toast -da cui la marmellata colava a piccole gocce-, a quello strano essere vivente, come se non capisse. Poi fece il processo inverso, e così via, confusa. Incomprensione, era un progresso, perlomeno.

“Miss Armstrong, che piacere vederla”.

“Mustang…”, esalò, velenosa, con il mento sul palmo nella mano, senza sforzarsi di sembrare lieta di averlo incontrato. Quello si adeguò al suo tono, si accomodò accanto a loro sottraendo una sedia da un altro tavolo. “… spero che tu sia qui per dirmi che hai terminato il tuo articolo sull’oro del Sudafrica”.

“Sono qui per godere della vostra amorevole compagnia!”, spiegò, in tono mellifluo, ma che lei sapeva essere sincero, nonostante tutto. Roy Mustang era un uomo bello, lussurioso, ed insopportabile. Proteso all’autodistruzione in una maniera arcana, oscura, lucido e annebbiato da qualcosa che neanche lui stesso comprendeva. Un uomo di mondo brillante e affascinante, frequentatore di fumerie d’oppio e di prostitute. Era nato a Londra, eppure sembrava che quella città l’opprimesse, gli schiacciasse i polmoni e gli avvinghiasse il fegato fino a farlo lamentare, silenziosamente.

Era simile a lei, quel capriccioso figlio adottivo dei Bradley.

L’essere socialmente simili non lo rendeva meno insopportabile.

“E voi chi siete, bella Signorina?”. Riza sobbalzò, ed Olivia seppe che aveva la capacità di compiere movimenti inconsulti, non voluti. Roy scosse i capelli neri, ignorando il modo sconveniente con cui le si era rivolto. Riza sgranò gli occhi, e nessuno che non l’avesse mai vista prima avrebbe potuto notarlo. Non ottenendo una risposta Roy le prese la mano, posando le labbra sul dorso. “Roy Bradley Mustang, al suo servizio”, sussurrò, facendo increspare la pelle bianca con il suo fiato.

“Dì un po’, da quando ti metti a fare la corte alle ragazzine?”.

“Ogni donna va salutata col garbo che merita, qualunque sia la sua età”.

“Sciocchezze. Il saluto di un uomo verso una donna è più delicato ed entusiasta quanto meno è ingente l’età di lei”, spiegò, bevendo tè da una tazzina del tutto candida. “Oltre un certo limite!”, rise lui, vago.

L’uomo nero detestava Roy. Se avesse potuto avrebbe riempito l’ambiente delle sue grida. Lo picchiava sulla testa con i pugni impalpabili, pieno di risentimento. Olivia registrò quel particolare, sorseggiando più rumorosamente di quanto avrebbe dovuto.

“Non volete proprio dirmi il vostro nome, Signorina?”.

“Riza”, intervenne Olivia. “Si occuperà di farci da balia durante il lavoro in redazione”. Riza si voltò verso di lei, lentamente, come se faticasse a distogliere lo sguardo dal naso di Roy -particolare interessante-. La parola ‘balia’ le suonò come già sentita… quindi doveva fare per gli altri ciò che quella Signora aveva fatto per lei? Lo smarrimento sul suo viso era uno spettacolo che fece ridere persino Roy -e Riza, voltandosi di nuovo verso di lui, parve apprezzare parecchio la sua risata. Grave, baritonale e vibrante-.

L’ombra dimostrò la sua divorante gelosia afferrando il collo di quel seduttore da strapazzo, stringendo con tutte le proprie forze. Roy non soffocò, ma Olivia sperò che Riza si rendesse conto che quell’uomo non meritava l’attenzione che gli riservava.

Come neanche la sua, del resto.

 

 

 

Note dell’autrice!

Aloha!

Questa fanfic, com’è scritto nella presentazione, è uno spinoff della mia fic “La villa delle arance”. Ho iniziato il seguito di quest’ultima da almeno un anno, ma dubito mai che lo finirò e lo pubblicherò, perciò credo che questa sarà l’ultima fic di questa “serie” (anche se con solo due fanfic non posso certo chiamarla in questo modo, qualunque cosa sia).

Comunque, essendo uno spinoff, non ci saranno rivelazioni sulla trama principale che avevo in mente.

Questa fic era stata scritta per un contest poi annullato, in cui si richiedeva di scegliere dei numeri a caso di cui ognuno corrispondeva ad un personaggio di Fma, e a me sono uscite Olivia e Riza.

La fic è composta di tre capitoli, e aggiornerò ogni settimana.

Spero possiate farmi sapere cosa ne pensate con un commento.

Bye!

   
 
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