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Autore: Kokato    29/12/2011    1 recensioni
“Io ho ucciso un uomo”.
La donna sorrise, improvvisando con il capo un inchino ironico. “Buon per te”.
“Io sono ancora viva”.
“Sì, credo di averlo intuito…”. Una ragazzina in vestito di seta rosa, nell’inverno londinese, con le piccole gambe bianche che spuntavano dal buio come il richiamo lasciato alla bestia che trotterellava, gironzolava nei paraggi del quartiere nero e umido di pietra bagnata. “… e cosa vuoi da me?”.

Roy x Riza x Olivia
Spin-off de 'La villa delle arance', ambientata in parte prima ed in parte dopo gli eventi di quest'ultima, ma non è necessario averla letta per capire questa fic.
Genere: Drammatico, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Olivier Milla Armstrong, Riza Hawkeye, Roy Mustang
Note: AU | Avvertimenti: Triangolo
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- Questa storia fa parte della serie 'Orange Saga'
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CAPITOLO II

Look at the Thames

“Una donna…”, sentì borbottare un uomo nell’angolo, che la indicava perplesso. “Sì, Havoc, una donna. Ne hai mai sentito parlare o sono creature mitologiche per te?”.

Jean Havoc, l’addetto alla cronaca di costume, deglutì al commento del suo vice caporedattore Mustang, senza raccogliere la provocazione. Era un bell’uomo biondo, ad un occhiata approfondita, in panciotto di lana marrone di pessima qualità, vestiti fintamente eleganti, con la faccia di chi viene preso di sorpresa dalla vita ogni minuto. “Cosa ci fa una donna, qui?”, chiese, sorridendo sotto i baffi.

“Non abbiamo mai avuto donne, qui”, considerò Buccaneer, correttore di bozza, col tono di uno che si trovava su una nave di pirati -il suo aspetto massiccio, il suo viso minaccioso, la strana pettinatura che copriva solo la sommità della sua testa ricadendo in una treccia lunga fino alle spalle, tutto confermava quell’impressione-. Il capitano giunse a punire la sua insubordinazione, in forma di calamaio scagliato a grande velocità verso la sua testa pelata. “Sarei anche io una donna, fino a prova contraria”.

“Di tale conclusione non abbiamo che dati indiziari!”, rise Roy Mustang, appoggiato alla sua scrivania con le braccia conserte e l’espressione di chi si sta divertendo parecchio.

Kain Fury il fotografo, e Vato Fallman lo storico, le si avvicinarono con un inchino, presentandosi; Jason Miles, reporter, le fece un cenno appena visibile dalla sua scrivania in fondo all’ufficio malconcio, rimettendosi al lavoro subito dopo su una pila di fogli piuttosto consistente; Heymans Breda, altro correttore di bozza, la osservò al di sopra del suo toast al prosciutto. Riza non parve offesa dallo stupore generale riguardo alla sua presenza, limitandosi a ricambiare i cenni che gli venivano rivolti imitandoli meglio che potesse. L’ombra li indicava e rideva, come se li trovasse molto buffi. La redazione era minuscola ed affollata, di una superficie a malapena sufficiente a contenere loro e la mole mastodontica di materiale da lavoro, facendoli sembrare degli animali contenuti in un recinto troppo stretto per le proprie esigenze. Era un ambiente maschile, sporco, piccolo, angusto, l’odore dell’inchiostro penetrava a forza nelle narici e qualcosa premeva sul cervello, spremendo idee inimmaginabili.

“Sarà la nostra balia, da oggi in poi. Sì, avete capito bene. Ci procurerà il cibo quando avremo fame, andrà a comprare l’inchiostro quando lo finiremo, eviterà che le formiche facciano il nido sulle briciole del panino di Breda. A proposito, smettila di mangiare o te lo faccio ingoiare fino a fartelo uscire dall’altra parte in un solo momento”, il soggetto citato nascose la prova del reato nel suo cassetto, ascoltando subito attento.

“Si chiama Riza, non parla molto. Siate gentili con lei, o ve la vedrete con me”, finì sommariamente Olivia, con le braccia conserte come il generale di un esercito. Si chiese com’è che nessun altro riuscisse a vedere quella presenza sovrannaturale, a parte lei, ed ancora una volta non giunse a nessuna conclusione. “Più gentili di te, intendi?”, intervenne Mustang, critico. “La fai dormire per terra, e dici a noi di essere gentili?”.

Riza si voltò verso di lui, molto attenta a tutto ciò che diceva. Non si era mai lamentata delle condizioni in cui la sua padrona di casa la faceva vivere, non gliene importava come per qualunque altra cosa nel mondo e nel creato -a parte che di lui-. Era pericoloso quel modo di approcciarsi a quell’uomo, ma Olivia si disse che non erano fatti che la riguardassero. “Beh, non vedo perché dovrebbe meritarsi di meglio. Se si darà da fare avrà un letto, ma fino a quel momento non vedo il motivo di darle qualcosa che non si sia guadagnata”. Quel commento fu sottolineato dal lamento prolungato e acuto dello stomaco della ragazza.

“Siete una persona orribile, Lady Armstrong… sapete?”.

“Sì, mi hanno già fatta partecipe di questa notizia. Ora rimettetevi a lavoro, andremo in stampa tra poche ore”. Tutti tornarono alle loro occupazioni, a parte Roy che si avvicinò a Riza, posandole una mano sulla testa, rassicurandola con parole sussurrate dal quale la ragazza sembrava ipnotizzata.

L’ombra tirò e batté i pugni sulla schiena dell’uomo, senza ottenere che si allontanasse dalla sua protetta, che aveva incrociato le pupille per osservare il naso di Roy, sospesa in una condizione di estasi -si poteva quasi arguire-. Olivia si disse che non gliene importava, proprio mentre ricominciava a piovigginare fuori dalla finestra.

Un calamaio giunse sulla testa di Havoc, ancora impegnato a ripetere ‘donna’ in continuazione, come un idiota.

 

***

I piani di risanamento edilizio erano cominciati da nove anni, ormai, e le strade erano meno affollate di quanto non lo fossero in passato. Gliel’aveva spiegato un barbone della strada all’angolo con la redazione, sputacchiando da tutte le parti, convinto di non avere una speranza di andarsene da lì neanche se la morte stessa lo avesse portato via. La ristrutturazione sembrava aver divorato le persone, diceva, le aveva fagocitate come un mostro di cemento.

Il sole splendeva estraneo sulla Londra ghiacciata di Gennaio, senza che i raggi la riscaldassero minimamente. Sembrava che il sole fosse artificiale, fabbricato in qualche materiale splendente ed evanescente che illuminava a malapena il cielo grigio, osando di farsi vedere. C’erano luoghi, nell’East End, che né il risanamento né quel sole imprevisto potevano raggiungere.

Quell’uomo abitava dietro la porta più piccola ed insignificante di quella parte di quartiere, invisibile e grigio, affondato nell’atmosfera e mimetizzato. Il palazzo era vecchio e malandato, il cane di una vecchia signora più giù nel viale abbaiava sempre ad ore prestabilite, emettendo un verso soffocato, che comunicava dolore. La donna lo spiegava, piuttosto stizzita, col fatto che aveva cominciato a mangiare topi, e che non digeriva molto bene quei fottuti bastardi.

La sua porta era sempre aperta, alcuni pensavano che la serratura fosse rotta da almeno vent’anni, e quell’uomo era lì da un tempo che nessuno aveva mai quantificato. Varcandola si veniva investiti dall’odore delle erbe medicinali, a metà tra profumo e tanfo, di sangue, metallico e duro, che sfiorava le narici come un tocco di dita.

Il Dottor Knox effettuava aborti per le prostitute del quartiere, curava ferite da taglio e malattie di ogni tipo, si diceva anche che potesse scacciare il malocchio. Nello specifico la vecchia in fondo alla strada lo lanciava, lui lo rimuoveva. Ma queste, sapeva Olivia, erano solo leggende. Appena superata la soglia il suo assistente, un bambino dai lunghi ed incolti capelli neri, la raggiunse e le fece un inchino. Non aveva un nome, ma lo avevano soprannominato Wrath, perché la sua indole collerica lo aveva spinto spesso a scagliarsi sulle persone -apparentemente- senza motivo. Era un animale selvaggio, senza controllo, Olivia sospettava che Knox lo tenesse buono drogandolo con l’oppio, di modo che non indisponesse i clienti con i suoi modi di fare bruschi. Aveva morso una donna che aveva osato criticare i suoi capelli, aveva stretto il polso di un uomo fino a slogarlo solo perché aveva insinuato che sua madre fosse una puttana -il che, probabilmente, era vero-. La sua provenienza era sconosciuta, quel ragazzino era lì fin da quando Knox era lì, perciò più o meno da quando Londra era sorta dalle sue fondamenta, sviluppandosi intorno a quella porta sempre aperta. Il bambino non parlò, si voltò per farle strada nonostante la conoscesse già. Gli scaffali erano pieni di fiale, ciotole, un mappamondo con la base di bronzo spiccava dal fondo dello studio, code verdi e occhi brillanti giacevano in grossi barattoli sul suo tavolo. Knox era un medico, ma anche qualcosa di più. Si tolse gli occhiali vedendola arrivare e sedersi davanti a lui, accavallando le gambe sotto il vestito nero.

“Vi ho già detto che non posso lanciare una maledizione sul vostro vice caporedattore, fattevene una ragione. Sono solo dicerie”, esordì, con tono serio. Knox non scherzava mai, teneva sempre la sua saggezza dietro una coltre di serietà che rendeva il suo viso duro, quasi odioso. Le rughe indicavano un’età di circa cinquant’anni, come se avesse tentato di bloccare il tempo e ci fosse riuscito troppo tardi.

“Non ho bisogno di maledizioni per tenerlo a bada. Non sono qui per questo”.

“E per cosa, allora?”.

Olivia tacque, cercando un modo per esprimere il suo dubbio. Se conosceva il mondo nascosto dietro il velo visibile era soprattutto grazie a Knox, ma aveva ancora molte riserve, e molti lati che non era riuscita ad illuminare. Continuava a negarlo, di fronte ai suoi collaboratori, davanti a Mustang, guardandosi intorno silenziosamente, aspettando qualcosa. “C’è una ragazza a casa mia”.

“E con questo?”.

“Avete mai avuto notizia di… ombre. Ombre che tengono prigioniere le persone”. Knox le dette un’attenzione che fino a quel momento non le aveva dimostrato. “Che tipo di ombre?”.

“L’ombra… di un uomo. Che si burla degli umani e che… solo le donne possono vedere”. Lo aveva notato camminando per strada. Qualche prostituta aveva indicato Riza, perplessa, non credendo ai propri occhi, dicendosi poi tra sé e sé di aver preso un abbaglio. Qualche vecchia signora osservava alzando appena la testa, annuendo senza dire niente. Solo una di loro aveva afferrato Riza da parte, tremando, stringendole le braccia mentre le diceva di stare attenta, di guardarsi le spalle. Era come se, pur vedendo, la visione scomparisse immediatamente, dissolvendosi in un istante troppo veloce da afferrare. “Può trattarsi di un’allucinazione collettiva… o può essere dovuto all’influenza di qualche droga…”.

“Dico sul serio”.

Knox scosse il capo, si prese il mento tra due dita. Indossava un normale abito -giacca di velluto grigio, cravatta nera-, ma alcuni ricordavano la sua figura vestita di un mantello, in tempi remoti. “Miss Armstrong, vi pregherei di non immischiarvi in un simile tipo di affari. La vostra ragione è forte, e per chi ha una simile intelligenza tali… sciocchezze, non esistono nemmeno”.

“Io so quello che ho visto, e voi sapete che non sono pazza. Voi conoscete molte cose che credete io non possa capire. Ma io so che le leggende della famiglia Armstrong sono vere, so che la ragione può non bastare, talvolta… quindi mettetemene a parte”. L’uomo non parlò, reclinò il corpo sulla poltrona sul quale era seduto, sfogliò le pagine di un libro dalla copertina di pelle che stava leggendo prima che lei lo interrompesse. Knox conosceva molte cose, e non credeva ad altrettante. Era una condizione dolorosa, che facevano di lui una figura lontana, incomprensibile ai più. “Un vampiro? Uno stregone? Un poltergeist? Cos’è mai? Parlate, per l’amor del cielo!”.

“I vampiri non esistono”, rispose Knox, indulgente come verso una bambina che aveva sostenuto che il cielo è viola. Continuò prima che Olivia potesse insistere, fermandosi a metà del colpo che voleva infliggere al tavolo con un pugno, stizzita. “Sono scomparsi dei giovani uomini, ultimamente, avete saputo?”.

“Intendete dire che è colpa di quell’essere?”.

Se non avesse intravisto in lui una fonte pressoché inesauribile d’informazioni, Olivia avrebbe potuto sgozzare a morte quell’uomo da almeno un anno o due. E, allo stesso tempo, poteva dire che fosse un suo amico, qualcuno di cui si fidava. “Può darsi…”, disse infine, senza sbilanciarsi né in un sì, né in un no. “Vi suggerirei di osservare il Tamigi, in una notte di luna piena”.

“Il Tamigi?”.

“Vogliate lasciarmi da solo, Miss Armstrong. Avete interrotto la mia lettura, e temo che avrò qualche difficoltà a riprendere il segno”.

“Bel modo per dirmi che sono troppo idiota per dirmi qualcosa!”.

Knox, per la prima volta in vent’anni, sorrise.

“No, tutt’altro”. Il suo volto scricchiolò, si lamentò.

“Vi auguro buona fortuna”.

***

 

I garzoni di casa Bradley arrivarono un martedì mattina. Roy le aspettava all’entrata, con un sorriso furbo sulla faccia. Aveva preso le buste della spesa dalle braccia di Riza una volta che questa si era fermata a guardarlo, inebetita.

“Ho una sorpresa per te, signorina”, aveva detto, neanche fosse Santa Claus, chinandosi a darle un buffetto sul naso. Lei lo aveva fissato confusa, non comprendendo il suo gesto, toccandosi la parte colpita con espressione dubbiosa. “Natale è passato, razza di cascamorto!”, lo informò Olivia, mentre constatava che la porta di casa era stata aperta con un qualche strano aggeggio -si disse che avrebbe dovuto trovare una serratura più resistente-.

“Lo so, ma torna sempre a salvare i bambini dalle streghe malefiche!”.

Olivia scosse la testa, limitandosi a salire le scale. C’era una nuova presenza in casa sua: un letto. Era stato adagiato vicino al suo, ed era lussuoso, con la base d’ottone decorata con fiori e angeli scolpiti. Stonava così tanto in quell’ambiente che non si poteva guardarlo a lungo senza avere una sensazione di qualcosa di sbagliato, di un errore. Olivia si dileguò per andare a riporre il cibo acquistato, prima che Mustang cominciasse a criticare la sua presunta crudeltà. Dimenticò che il suo appartamento era molto piccolo, e lo sentì comunque affermare dal fornello: “Dato che quella strega ti fa dormire per terra ho pensato di doverci pensare io”.

“Gliel’avrei comprato se avesse imparato a fare un tè degno di questo nome!”, urlò, infastidita nonostante avesse previsto quel genere di commenti. Osservò la scena con il fianco poggiato allo stipite della porta, con le braccia conserte. Roy si era chinato per avere il volto a livello di quello di Riza, sorrideva e parlava, parole riguardo streghe, baldacchini, decorazioni, risate. Riza sembrava non capire nulla, ma ascoltava diligentemente. Quell’uomo non era questo, non era quello che sembrava. Era come il mondo, nascondeva un ombra che lei, con i suoi sensi, non poteva percepire se non nella forma di una sensazione, di un sospetto. Sperò che la ragazza se ne rendesse conto, che non avesse aspettative da lui.

“Ti vedo stanco, Mustang”.

Si voltò verso di lei, rialzandosi, mentre l’Ombra faceva per accecarlo mettendogli due dita negli occhi, senza riuscire nel suo intento. “Ho scritto molto, resterai soddisfatta del mio articolo”.

“Sembri un dannato cadavere, Mustang. Non cercare di prendermi in giro, non me!”. Roy sospirò, sussurrò a Riza di provare il letto e di dirgli se le andasse bene. Poi prese Olivia da parte, stringendosi le tempie con due dita, nell’angolo accanto alla porta dell‘appartamento.

Olivia sospirò, attese una spiegazione che non arrivò. “Hai fumato ancora, non è vero? E hai sparso un po’ di denaro tra le prostitute del quartiere”. Non sembrava che se ne vergognasse, semplicemente le rivolse un ghigno, riavviandosi i capelli all’indietro con l’aria da seduttore che, sapeva, su di lei non funzionava.

“Quella donna… l’ho sognata, l’ho sognata di nuovo”, sussurrò, in tono casuale. “E bruciava come il sole”.

“Sai, non riesco ancora ad abituarmi all’idea che tu l’abbia detto proprio a me”, borbottò Olivia, sviando la sua attenzione da lui con una fretta forse eccessiva. Lo sentì ridere, sommessamente, mentre si preparava ad una delle sue risposte insensate ed ironiche. “Sarà che mi fido di te”.

“Non dirlo come se me ne importasse”.

Tra lei e Mustang non c’era comprensione, non c’era intesa, c’era solo il sottile nervosismo, la sottile inquietudine, l’artificioso sarcasmo che divideva una donna atipica come lei dagli uomini. Se lui pensava di potersi confidare con lei solo a causa del suo atteggiamento duro, spocchioso, che dà l’idea di un fortino dal quale i segreti non escono e non entrano che attraverso un sottile muro iniziale, non significava che potesse fidarsi di lei. Ma lui lo faceva, parlava di quella donna, e lei ascoltava. Lei vedeva la disperazione dietro i suoi gesti, una debolezza frustrata che la irritava, qualcosa che non capiva. Pur avendo accesso a quella parte di lui sentiva di non saperne abbastanza.

E ciò la irritava più di quanto lei stessa riuscisse ad ammettere.

“Che Miss Armstrong stia soltanto ad ascoltarmi è già di per sé un grande onore, non credete?”, artificioso sarcasmo, per l’appunto.

Il seduttore che sorride alla strega, senza aspettarsi in cambio lo stesso, ma senza risentirsi. Non pretende da lei ciò che pretende dalle altre donne, prende e afferra qualcosa che gli piace, senza chiedersi cosa lei provi, cosa lei pensi. Forse crede, semplicemente, che una strega non provi niente. Ad Olivia piaceva pensare che fosse così, rimuovere ogni indizio che attestasse il contrario.

“È soltanto un sogno”, disse, ritenendo così chiuso il discorso. Incamerava il suo tormento, esalando poche e patetiche parole che, com’è evidente, non aveva interesse nel rendere davvero comprensive. Riza era in piedi sul limite della camera da letto, immobile ed insensibile come sempre, che li guardava.

“È comodo?”, chiese Roy, avvicinandosi a lei. Riza annuì, imperturbabile, mentre l’ombra annusava i suoi capelli raccolti in uno chignon, in un gesto intimo. Ghignò verso Roy, non si fece prendere dal rancore, superiore. Olivia rimase dov’era, avvertendo la sensazione di qualcosa che cadeva, un oggetto che rotolava e di cui avrebbe dovuto fermare la caduta. La luce bianca del sole di Gennaio splendeva fuori dalla finestra, illuminando la scena.

Olivia sospirò, e non disse niente.

Non sapeva che l’aspettavano dei mesi molto lunghi, in compagnia di quel letto.

***

Febbraio.

Mustang aveva preso la malsana abitudine di viziare la mocciosa, con dolci, regali, un interesse cortese per il suo umore e per i terribili traumi che Olivia, a suo dire, le provocava. Riza sembrava interessarsi soltanto dell’ultimo dei tre doni, non rispondeva solo perché non sapeva cosa dire. Era di buon umore? Di cattivo umore? Come non lo capivano le persone che le stavano intorno, nemmeno lei lo capiva.

Teneva in bocca a lungo i piccoli morsi che dava al rinomato muffin di una pasticceria in centro, cercando di trovarvi il buon umore che Roy desiderava fosse sul suo volto. Forse stava nel dall’altra parte, forse doveva mordere in alto per imbattersi nel misterioso ingrediente.

L’Ombra osservava, silente.

Aprile.

Cominciavano a credere che quella situazione non sarebbe mai cambiata. La primavera arrivò senza troppo furore, Roy penso che avrebbe potuto portare il sorriso sul volto di Riza con fragole, ciliegie, tè aromatizzati. Nessuna importante famiglia aristocratica cercava la figlia scomparsa, l’abito di seta che indossava la notte in cui Olivia l’aveva incontrata stava in un armadio, insanguinato e frivolo.

Olivia cercava indizi tra le pieghe di stoffa rosata come li cercava nelle pieghe di acqua scura del Tamigi.

Riza mangiava a piccoli bocconi, con il volto bianco e disteso. Lavorava ancora su quel sorriso, quel buon umore che Roy nominava spesso, ridendo di quella risata gutturale che la faceva rabbrividire.

La imitava davanti allo specchio, piegando la pelle come stoffa e facendo vibrare gli occhi scuri come onde.

L’Ombra osservava, stizzita.

Maggio.

Le portò un vestito rosso, che era tutto tranne che alla moda.

Il corpetto era di stoffa morbida e senza stecche, la gonna era stretta e si portava facilmente, il tessuto seguiva il movimento delle gambe.

“Quel vestito non va bene… la ragazza sta inequivocabilmente respirando” considerò Olivia, sarcastica.

Riza, che non sapeva cosa fosse il sarcasmo, trattenne il respiro, mentre Roy rideva battendo una mano sulla sua testa e riconsiderava la scelta del colore. “È ancora giovane, non voglio che non riesca a parlare a causa di un abito che non la lascia tirare il fiato!”.

“Oh beh, perché di solito è così logorroica che bisognerebbe strozzarla!”.

Roy finì di ridere con un gorgoglio strozzato, lasciando strascichi di sorriso sul viso pallido, sotto le occhiaie accennate. “Però il rosso non le dona”.

Olivia scosse la testa, per una volta d’accordo con lui.

 

Agosto.

C’erano altre donne, per lui.

Olivia lo sapeva, provava a far credere a sé stessa che non lo stavano aspettando a Londra, racchiuse nel caldo asfissiante che non smuoveva la calma intoccabile della ragazza e la sua rigidità militare. Si fece rivedere in un pomeriggio chiaro.

“Non andate mai in vacanza, madamigelle?”.

Nella sala da tè raffinata Riza sedette appoggiando la schiena, con il busto dritto e le mani in grembo. Roy non c’era sempre, ma quando c’era lo percepiva in modo così sconvolgente da renderle difficile ogni compito ed ogni mansione. La marmellata d’arancia le luccicava sotto il naso, in grumi arrotolati e brillanti.

“Sto aspettando il tuo fottuto editoriale da una settimana” rispose Olivia, stanca di poter vedere ogni cosa con tanta dilatante chiarezza.

Roy rise, si allungò per raccogliere un po’ di marmellata in un cucchiaino che depositò nella bocca di Riza.

“Dovevo capire che i dolci non ti piacevano!”.

Riza tacque, senza sapere cosa rispondere.

L’ombra osservava, furente.

   
 
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