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Autore: itsmemarss    12/12/2011    4 recensioni
Allie ha solo diciassette anni, quando il mondo cade nel caos più totale. Orde di morti cominciano a risvegliarsi e pare che ci sia solo una possibilità per salvarsi: scappare. Ma quando anche l'ultima speranza sembra scomparire, non resta che combattere. E' così che incontrerà Marcus, Jack e altri strambi personaggi che le cambieranno la vita, dandole la speranza che forse al mondo c'è ancora qualcosa per cui vale la pena vivere: l'amore.
Genere: Avventura, Romantico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Spalancai gli occhi e fui presa dal panico, quando riconobbi la nostra vicina di casa nella donna con la mandibola penzolante e un grosso squarcio nel collo, rannicchiata a terra. Alcuni dei bigodini si erano staccati e ciondolavano sulle sue spalle, attaccati ancora per le punte dei capelli. La vestaglia era strappata in diversi punti e sporca di sangue. Stava cercando di afferrare la postina, muovendo le braccia davanti a sé nel tentativo di immobilizzarla. La bocca continuava a chiudersi e aprirsi in cerca di qualcosa da mordere. La povera Patty stava tentando di divincolarsi, gridando e chiedendo aiuto, ma inutilmente. Pur sovrastando l’anziana signora per altezza e forza, i suoi tentativi di togliersela di dosso non andavano a segno.
Alla fine, forse approfittando di un attimo di distrazione, Mrs Patrick affondò i denti nella spalla della sua vittima, che urlò ancora più forte, prima di ammutolire.
Lasciai andare la tenda e mi allontanai dalla finestra, notando che la nostra vicina di casa non era l’unica a comportarsi in maniera strana. Decine di altre figure simili a lei si aggiravano per la strada, ricordando più animali affamati, che comparse truccate e vestite per girare un film splatter.
Rimasi a fissare il vetro con un misto d’incredulità e confusione, finché non sentii graffiare la porta d’ingresso. Mi precipitai a chiuderla, ma non feci in tempo. Un’altra di quelle cose aveva già fatto il suo ingresso in casa.
Si trattava del signor Wilson, il giardiniere. Indossava la divisa da lavoro, consistente in una salopette di jeans e una camicia a quadri. Aveva perso una scarpa e lo sguardo era spento, mentre continuava a guardarsi intorno.
Poi attirai la sua attenzione, pur nascosta nella penombra di una delle colonne portanti. Cominciò a muoversi nella mia direzione, dapprima lento, poi sempre più veloce, per quanto glielo potesse permettere la caviglia slogata.
Indietreggiai, fino a sbattere contro il muro del soggiorno. Lo percorsi tutto, la schiena ancorata a esso. Intanto con le mani cercavo una possibile arma da usare in mia difesa, senza mai smettere di guardare quella cosa. Se anche solo mi fossi distratta, sarei stata spacciata. E avevo visto cos’era successo alla povera Patty.
Deglutii pesantemente con il cuore che batteva forte.
Alla fine le mie dita sfiorarono le varie mazze da golf che papà teneva sempre in un borsone accanto alla libreria. Ne afferrai una e la tenni stretta.
<< Ti avverto. Non ho paura di usarla >> biascicai, con la voce che tremava per la paura.
Per tutta risposta, l’essere dalle sembianze di Wilson si stufò di aspettare e si lanciò verso di me. Chiusi gli occhi nel momento stesso in cui l’asta di ferro incontrò il cranio del giardiniere, fracassandolo.
Trattenni un conato di vomito, mentre sentivo il rumore delle ossa rotte e il tonfo del corpo sul pavimento di legno.
Quello fu il primo zombi o Errante – come lo avrebbero descritto gli scienziati più avanti – che uccisi. E non certo l’ultimo.
Il secondo lo fece fuori papà, mentre cercava di aggregarsi al primo ed entrare in casa nostra. Usò l’attizzatoio del caminetto per rallentarlo e darsi il tempo di colpirlo con un calcio. L’essere perse l’equilibrio e mio padre ne approffitò. Chiuse la porta a doppia mandata, prima di sbarrarla con alcune assi provenienti dalla cantina, dove di solito si divertiva con il bricolage e un po’ di falegnameria. Mi disse di aver sentito il Presidente alla radio.
<< Allie, tesoro, sei ferita? >> mi chiese mia madre, arrivando dalla cucina. Lasciai la presa sulla mazza e la abbracciai, stringendola più forte che potei. Il sangue che aveva visto sulla mia maglietta non era altro che dell’essere.
Da quel momento in poi non avevamo molto tempo. Dovevamo prendere tutto ciò che potesse rivelarsi utile e necessario, come vestiti, cibo e medicinali. La Protezione Civile diede alcune semplici regole alla radio, prima che anche quella, dopo la televisione, smettesse di ricevere. Dovevamo muoverci come se quello che stava accadendo fosse un disastro come un altro.
Ci rifugiammo in cantina, mentre l’allarme anti aereo ci gridava nelle orecchie che il pericolo era ancora lì fuori, oltre la nostra porta. Fortunatamente mamma era una persona molto apprensiva per cui aveva fatto costruire a papà un vero e proprio “rifugio anti atomico”. Naturalmente non era a prova di bomba a raggi gamma, ma c’era tutto l’occorrente per resistere sotto terra per qualche mese, forse un anno massimo.
Ci stringemmo tutti e quattro – mamma e papà sulla brandina, Paula ed io sul divanetto – in attesa che qualcuno ci venisse a prendere. Mia sorella non aveva che quattro anni e non riusciva a smettere di piangere, incapace di comprendere. Per quanto tentassi di calmarla con canzoni e ninnananne, favole o storie, le sue lacrime non avevano freno. Alla fine riuscì ad addormentarsi solo grazie alla presenza di Batuffolo, un pupazzo a forma di coniglio con un occhio solo. Glielo avevo regalato un anno prima e si era guadagnato la sua “ferita di guerra” a causa del gatto della nonna, un soriano alquanto permaloso. Chissà se entrambi stavano bene al momento… a causa del sovraccarico delle linee, era impossibile fare qualunque chiamata. Eravamo isolati dal mondo.
Anche se i muri erano stati insonorizzati con i materassi e le coperte, le grida si potevano sentire ancora, così come il rumore dei vetri rotti e il rantolo di quelle cose che avevano trovato il modo di entrare in casa. Per fortuna la botola che portava a noi era nascosta da un tappeto e chiusa con dei lucchetti. Chissà, però, se avrebbero retto…
Dopo qualche ora, fu il turno degli spari. A ogni scarica chiudevo gli occhi, stringendo sempre più forte la mano di mamma e cercando di sovrastare i colpi con la mia voce. Passarono tre giorni prima che cadesse il silenzio e i militari venissero a prenderci.
Ci dissero che ci avrebbero portato in un posto sicuro, una delle basi più vicine. Poi ci bendarono gli occhi, ma non potevano evitare che sentissimo l’odore della carne in putrefazione sotto il caldo di Luglio e quello del legno bruciato dei falò. Per evitare altri contagi, procedettero a un bonifico dell’area appiccando il fuoco ai corpi.
In più, sotto le palpebre chiuse, potevo ancora scorgere il ricordo della smorfia di orrore sul viso della postina, del vuoto infinito nello sguardo del giardiniere.
Quelle immagini sarebbero sempre rimaste impresse nella mia mente, come inchiostro.
Oltre a noi, furono pochi quelli della nostra città a sopravvivere all’attacco da parte degli Erranti. Molte delle vittime si trovavano fuori di casa, impreparate davanti alla realtà dei fatti, impossibilitate a proteggersi. Tra queste anche molti miei amici.
Rimanemmo alla base di Portsmouth, nel New Hampshire, per un mese, prima che ci spostassero a sud. La convivenza con altre persone non fu così complicata, come invece ci aspettavamo. Alla fine l’importante era essere al sicuro e insieme.
Piuttosto era difficile sapere che non avremmo più rivisto una casa. Quella nel Maine era stata rasa al suolo dall’esercito, insieme a tutti i ricordi legati a essa.
Il giorno del mio compleanno, in Agosto, ricevettimo la busta. Era semplice, bianca, con il timbro dello stemma degli Stati Uniti. Era la risposta al perché qualche giorno prima ci avessero fatto estrarre a sorte dei numeri, uno per famiglia, senza però spiegarcene il motivo.
All’interno trovammo quattro biglietti e una lettera. Le parole erano state scritte con una calligrafia chiara ed elegante, prima di essere stampate. Dicevano che “eravamo stati scelti”. Non per una vacanza, ma per il viaggio che ci avrebbe dato la possibilità di ricominciare una nuova vita. Eravamo entrati a far parte del Progetto Pegasus, un piano governativo programmato dal governo in caso di contaminazione nucleare e poi riassestato alla situazione attuale. Si trattava della costruzione di piattaforme spaziali, appena fuori dal nostro pianeta, in grado di ospitare migliaia di persone per anni. Serviva a garantire un inizio promettente, un’altra vita altrove, lontano dalla piaga degli Erranti che lentamente stava mettendo in ginocchio il nostro mondo.
Ci misero in viaggio entro la fine del mese.
Raggiungemmo Boston, dove fummo costretti a dividerci in gruppi più piccoli per facilitare gli spostamenti a causa degli Erranti. Eravamo guidati da una piccola milizia, che serviva a garantirci protezione.
Nel giro di una settimana avevamo raggiunto New York, dove sorgeva la base militare più grande della costa est, protetta dall’esercito e dalla Guardia nazionale, circondata dall’oceano atlantico e da una fitta recinzione mettalida ed elettrica. Ogni entrata era regolata dai militari, che avevano eretto delle torrette, protette da cecchini di prima scelta.
Era la prima volta che vedevo la città con i miei occhi e non da fotografie o film. La realtà era ben diversa dall’immaginazione. Mi sarei aspettata colori, luci, felicità. Invece non era, che una città come tante altre, grigia e spenta a causa del morbo. Forse un tempo era diverso, ora non più.
Persino i giganti palazzi di vetro e acciaio si erano arresi al tempo, diventando sempre più cupi e cadenti.
La nostra famiglia fu alloggiata in uno di questi alti edifici dello Skyline, dove un tempo sorgevano decine di uffici. Ora non era altro che un posto, dove stare in attesa della partenza, insieme a altre persone come noi, munite di biglietto.
In città, però, si rifugiava anche chi non era stato estratto a sorte, attirato dalla speranza – o disperazione – che magari avrebbero preso anche loro, se si fossero fatti sentire.
Pur con la dilagante malattia che aveva decimato mezza America, i posti sulle “arche” non erano abbastanza per tutti quelli che erano sopravvissuti. Come a cercare di lavarsene le mani, i governi avevano lasciato che fosse il destino a scegliere per loro, a decidere la vita e la morte.
Molte delle persone a me più care le avevo perse a causa di questo sistema di scelta. Quelli che erano riusciti a salvarsi, che non erano stati uccisi o trasformati, avevano interrotto i rapporti tra di noi, avevano scelto di non volermi più vedere.
È in momenti come questi, che ti rendi conto di chi sono le persone che realmente tengono a te.
Tra questi non c’era Denise, un tempo, prima che il mondo cadesso nel caos, la mia migliore amica. Non avevo più sue notizie da mesi ormai, non da quando aveva scoperto che la mia famiglia era stata scelta, al contrario della sua. Aveva detto di odiarmi, che era colpa mia se loro dovevano restare… come se ci fossi io dietro alle scelte dei Biglietti. Non avevo potuto fare altro che chiederle stupidamente scusa.
Ancora oggi continuo a svegliarmi nel bel mezzo della notte, sperando di essere uscita da quest’incubo, che tutto sia tornato come prima, che Denise sia ancora mia amica.
Dal giorno in cui gli scienziati hanno fatto cominciare tutto, sono passati sei mesi e sono ancora delusa nel costatare che tutto ciò è successo davvero, che sto ancora vivendo questo incubo, che spero, finirà presto, forse domani quando prenderemo l’elicottero per raggiungere le piattaforme.

È ancora l’alba, quando mi sveglio. Il sole è nascosto dietro l’orizzonte, oltre le nuvole scure che minacciano New York di un temporale. So per certo che però non pioverà. Non oggi. Altrimenti l’esercito l’avrebbe previsto e avrebbero posticipato la partenza. Invece alle dieci in punto di stamattina partirà l’ultimo elicottero per le piattaforme, così come ha annunciato la voce metallica dell’altoparlante ieri sera.
I miei genitori si svegliano poco dopo, cominciando subito a vestirsi in fretta, per non togliere tempo prezioso alla preparazione dei bagagli. Potremo portarci solo il minimo indispensabile, vista la bassa capacità di carico degli elicotteri: il che è già tanto, rispetto a tutto quello che abbiamo dovuto lasciare a casa, nel Maine, dopo l’invasione.
Una volta arrivati dentro le arche, saremo riforniti di tutto l’occorrente. Dovremo però privarci di molti dei ricordi che sono attaccati agli oggetti che non siamo riusciti a salvare. Ed è proprio per questo, per “essere troppo nostalgica”, che impiego più tempo del previsto a raccogliere le mie cose e a metterle nel bagaglio a mano.
<< Allie, muoviti! >> mi grida dietro mio padre, mentre la mamma è davanti alla porta con Paula in braccio, che stringe il suo peluche preferito: un coniglietto con un occhio solo.
<< Ci sono! Ci sono! Voi cominciate ad andare avanti, io vi raggiungo >> gli rispondo, tentando di afferrare le ultime cose – per la maggior parte fotografie – tutte sparse per la mia stanza. Sento mio padre sbuffare, darmi un veloce bacio sulla testa, prima di scomparire insieme a mia madre e a mia sorella oltre la porta, diretti verso le scale.
Intanto passano altri dieci minuti e mi lascio prendere dal panico. Dovrei aver preso tutto, mi dico. Ed è proprio in quel momento che un rumore assordante invade prima il corridoio esterno e poi l’intero appartamento, di pochi metri quadrati. È come se migliaia di tasselli si accartocciassero su se stessi, rovinando verso il suolo. Dalle finestre del bagno vedo l’edificio accanto che si piega minacciosamente verso il nostro.
<< Attenzione! Attenzione, cittadini. La partenza è stata anticipata a causa del crollo del palazzone B. Vi preghiamo di raggiungere le uscite principali o di utilizzare le scale per chi fosse munito di biglietto >> grida una voce femminile al megafono.
Ecco, questa è l’ultima goccia che fa traboccare il vaso, prima di cadere nel panico più totale. Afferro la valigietta, il biglietto dorato e la giacca a vento, prima di correre verso le scale anti incendio. La folla che scende, però, non fa che ritardarmi ancora di più. Il caos è ovunque e non posso nemmeno prendere l’ascensore per fare più in fretta visto, che la corrente è saltata in tutto il palazzo.
È allora che qualcuno mi afferra la mano e mi guida verso l’alto, correndo più in fretta di me, trascinandomi a peso morto. Ne scorgo solo la schiena, ma si tratta di un ragazzo, che come me stringe un biglietto dorato.
Non posso far altro che affidarmi alla mia latente capacità di staffetta, che da bambina mi aveva fatto vincere diverse gare, e alla stretta dello sconosciuto.
Arrivo in cima insieme con lui, che abbassa la maniglia e mi porta sul tetto. La prima cosa che vedo, oltre al cielo grigio, sono le pale dell’elicottero che cominciano a vorticare sempre più in fretta. Poi la sagoma del ragazzo che si lancia contro la fiancata del mezzo, battendo i pugni sul vetro.
Grido anch’io, agitando le braccia, sperando che mi vedano, che mi sentano, ma non ricevo cenni positivi dal pilota del mezzo, che comincia a far alzare dal suolo il veicolo.
Dal finestrino scorgo la mia famiglia: vedo mio padre che cerca, invano, di parlare al co-pilota; di come quest’ultimo gli dia un pugno per farlo stare al suo posto; di come mia madre pianga insieme alla mia sorellina; di come tutto sembri andare al rallentatore.
Poi, accadde tutto molto in fretta. Le pale presero velocità, il veicolo cominciò ad alzarsi di quota, ad allontanarsi sempre di più, fino a diventare un puntino nel cielo.
Da quel momento in poi, ci sarei stata solo io. Ero... sola.

   
 
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