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Autore: Mary P_Stark    22/12/2011    3 recensioni
PRIMA PARTE DELLA SAGA DI OCCHI DI LUPO. Il regno di Enerios è sull'orlo della guerra con il suo nemico storico, Vartas. Solo il suo principe ereditario, Aken di Rajana, e una ragazza-lupo, Eikhe di Nestar, potranno salvare il loro regno dalla distruzione. Ma non solo per difendere le loro terre, i due giovani dovranno lottare. Anche per difendere il loro amore che, tra le gelide lande dei Monti Urlanti, è divampato come fuoco scarlatto. Incuranti della differente estrazione sociale che li separa, dei loro stili di vita così diversi e del segreto misterioso che si cela dietro gli occhi di lupo di Eikhe, i loro cuori si toccheranno nel momento di maggior pericolo.
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Occhi di Lupo Saga'
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22.

 

 

 

 

 

Dopo aver sistemato attorno alla vita del figlio una pesante cintura di cuoio dalla fibbia di ottone a forma di testa di lupo, Eikhe sorrise soddisfatta e annuì.

Con calma, allacciò il fodero della piccola daga che Harm le aveva donato per An e disse: “Stai davvero benissimo, tesoro.”

Ammirandosi con aria eccitata, le braccia che si muovevano avanti e indietro veloci, mentre il capo si voltava da parte a parte per scrutare la sua nuova, primissima arma da taglio, Antalion esclamò: “Wow, ma è bellissima, ma’! Il nonno è un mito!”

Ridendo nel vederlo così eccitato, nonostante sapesse che era infine giunto il tempo di insegnargli a usare l’arma che aveva accettato di porre nella sua mano, Eikhe si rialzò con un sorriso orgoglioso.

Poggiate le mani sui fianchi, fissò quegli occhi in tutto simili ai suoi e disse con un sospiro: “Sei proprio tutto tuo padre.”

Come sempre, Antalion fu ben attento a non pronunciare la fatidica domanda che, ormai da dieci anni, gli frullava nella testa.

L’unica volta che aveva osato pronunciarla, aveva scatenato il pianto della madre, le ire di zia Sendala e lo sguardo triste di zio Enok.

Era evidente dai discorsi dei nonni e di zio Konis che loro, invece, di suo padre non sapevano assolutamente nulla.

Chiedere di nascosto a loro sarebbe stato perfettamente inutile, ma ormai gli sembrava di essere abbastanza grande per sapere qualcosa del misterioso uomo che, a quanto pareva, la mamma non aveva mai dimenticato.

E che, nelle notti più fredde d’inverno, lei piangeva in silenzio nella sua stanza.

Mordendosi un labbro con fare titubante, una mano leggermente tremante mentre si posava sul gomito della madre, Antalion la fissò serio nei suoi occhi ambrati e chiese con un filo di voce: “Mamma, posso sapere chi è mio padre?”

La sentì immediatamente irrigidirsi, mentre gli occhi venivano momentaneamente oscurati dalle palpebre, e un pallore evidente si manifestava sul suo viso perfetto e bellissimo.

Subito, Antalion si pentì di aver proferito parola ma Eikhe, prendendo un gran respiro nel tentativo di prendere coraggio, sospirò e prese sottobraccio il figlio, che ormai le giungeva quasi alla spalla.

“Andiamo a sederci in casa, An.”

Storcendo il naso nel sentire quel nomignolo che trovava assai infantile, Antalion preferì non rimbeccare la madre per paura che perdesse la voglia di parlargli.

In silenzio, entrarono nella baita, dove una pentola di minestrone stava ribollendo tranquilla sulla stufa accesa.

Sul tavolo in legno, un bel centrotavola di vimini era ricolmo di frutta fresca mentre, sul camino, il palco dell’ultimo cervo catturato dalla madre faceva bella mostra di sé con la sua imponente e ramificata struttura.

Negli anni, quel rifugio era divenuto un’autentica casa per tutti loro.

Dopo tanti sacrifici, ora potevano tranquillamente vivere senza il pensiero fisso sul denaro utile per la loro sopravvivenza.

I lavori della madre erano più che degnamente venduti nell’emporio locale di Marhna, mentre la selvaggina che Sendala catturava, andava a rimpinguare la locanda della cittadina, e alcune ville di nobili signori delle montagne.

Nel complesso, vivevano più che dignitosamente.

Inoltre, nonna Ildera, nonno Harm, zio Konis e zia Tyura non mancavano di mandare loro dei regali, anche senza badare ai loro onomastici.

Quando Antalion vide la madre accomodarsi sulla sedia a dondolo, che il nonno le aveva regalato l’anno precedente, lui si sedette ai suoi piedi e la guardò pensieroso.

Non sapeva bene se parlare o rimanere zitto, in attesa che fosse lei a riprendere le redini del discorso.

Osservato il figlio per un tempo che le parve interminabile, Eikhe gli sorrise leggermente prima di dire: “Tuo padre è un guerriero. Un uomo delle pianure che conobbi tanto tempo fa, ai tempi della grande guerra che venne combattuta contro Vartas.”

Spalancando gli occhi per la sorpresa, Antalion si protese verso di lei come a cercare di farle comprendere quanto ancora volesse sapere di lui ma lei, scrollando il capo, aggiunse soltanto: “Non posso dirti chi è, poiché è di vitale importanza che la sua famiglia non sappia mai della tua esistenza. Una sola parola sfuggita dalle tue labbra, potrebbe metterci in pericolo. In un pericolo più serio di quanto tu possa soltanto immaginare.”

Sconcertato da quelle parole, Antalion esalò: “Non mi vorrebbe?”

“Non pensarlo mai!” esclamò Eikhe, sorprendendolo per la veemenza delle sue parole. “Lui ti amerebbe con tutto se stesso, lo so, ma è la sua famiglia che potrebbe mettere a rischio la tua stessa vita, oltre che la mia.”

Storcendo il naso, Antalion replicò scocciato: “Come puoi saperlo, visto che non è mai venuto a cercarti, da quando sono nato?”

“Lui non sa di te, non gliel’ho mai detto” gli sorrise tristemente lei. “Per ragioni che non posso spiegarti, non ho potuto menzionare nulla di te a tuo padre, perché non potrebbe fare nulla per raggiungerci. Occupa un ruolo troppo importante, all’interno della sua famiglia, perché gli possa essere permesso di averci al suo fianco, così ho preferito non angustiarlo ulteriormente, facendogli sapere di avere anche un figlio.”

“Come sai che ti ama ancora?” chiese allora il figlio, non del tutto convinto.

“Ha mantenuto una promessa che ci facemmo anni fa, quando dovemmo dividerci” sorrise debolmente Eikhe, allungando una mano per carezzargli i morbidi e lunghi capelli neri, che Antalion portava stretti in una coda di cavallo.

Proprio come il padre.

“Gli somigli davvero tantissimo.”

Abbozzando un sorrisino timido, Antalion mormorò: “Allora, era molto bello.”

Scoppiando a ridere, Eikhe annuì e disse: “Sì, tesoro mio, era molto bello. Ma non l’ho amato per questo. Erano soprattutto il suo cuore e il suo animo, a essere belli. Come il suo coraggio e il suo amore incondizionato verso coloro che doveva difendere.”

“E non avrebbe dovuto difendere anche noi?” chiese a quel punto Antalion, alzandosi in piedi per fronteggiarla.

Lei lo imitò e, stringendolo a sé in un abbraccio caloroso, gli sussurrò: “Gli dissi io di non anteporre il nostro amore a ciò che doveva compiere. Prima di tutto, doveva pensare a chi dipendeva da lui. Io sapevo difendermi benissimo da sola e, all’epoca, non sapevo ancora di te. Una volta nato, sarebbe stato impossibile fargli sapere di te, proprio a causa del suo ruolo, e della sua famiglia.”

“Ma… non è cattivo, vero?” mormorò lui, cercando di non far tremare la propria voce.

“No. Spero sempre che un giorno voi due vi possiate incontrare, perché so che lo ameresti come l’ho amato io” ammise Eikhe prima di scostarlo da sé, sorridergli e aggiungere: “Non odiarlo, se puoi.”

“Non lo odierò, perché so che tu lo ami ancora. E so che non potresti amare una persona, se non ne fosse meritevole. Ma è tanto difficile, mamma” sospirò Antalion, reclinando il viso.

Dandogli un buffetto sulla guancia, Eikhe gli sorrise benevola.

“Hevos lo conobbe, e accettò ciò che ci univa. Puoi credere a un dio, se non a tua madre?” gli svelò a quel punto lei, vedendolo sgranare gli occhi per la sorpresa.

Ammiccando, preferì non proseguire oltre e, nel dargli una pacca sulla spalla, disse: “Torniamo fuori. Voglio insegnarti a usare quel ferro che ti ho appeso addosso.”

Sempre serio in viso, Antalion le gettò le braccia al collo e, stringendola con foga, esclamò: “Ti voglio bene, mamma! Scusami se ti faccio soffrire, e se ti ho fatto soffrire. Per causa mia, non puoi vivere con le tue sorelle e, forse, neppure con l’uomo che ami. Ma mi farò perdonare, mamma, te lo giuro!”

“Non c’è nulla da perdonare, tesoro. Sono orgogliosa di te, e non mi importa di crescerti lontano da Nestar. Ti sto crescendo come io ritengo giusto, e tanto mi basta. E ora fuori, guerriero. Ad allenarsi!” esclamò la madre, scostandosi nuovamente da lui prima di puntare la porta con un dito.

Lui le sorrise con amore prima di correre fuori sulle sue gambette già muscolose ed Eikhe, annuendo fiera, disse tra sé: “Sta crescendo forte e generoso come te, Aken.”

***

Stentoreo come suo solito, Aken esclamò: “Meyor, per tutti gli dèi, vedi di non ammazzarti, con quel cavallo!”

Ridendo divertito dal tono severo del suo maestro di equitazione, e principe di Rajana nei tempi morti, il ragazzino si fermò a pochi passi da lui ed esclamò: “Avevo la situazione perfettamente sotto controllo!”

Storcendo il naso, e nascondendo un sorriso dietro un’occhiata burbera, Aken replicò secco: “Lo dirò io quando avrai la situazione sotto controllo, non certo tu, sbarbatello.”

Meyor si limitò a ghignare spudoratamente prima di fare un cenno di saluto a Kannor, l’attendente del principe.

“Puoi calmare tu il principe, Kannor, e dirgli che non volevo ammazzarmi, su quell’ostacolo?”

Sogghignando, l’uomo fiancheggiò il suo principe e, nello strizzare l’occhio al ragazzino, chiosò a suo beneficio: “In effetti, se la stava cavando bene.”

“Non ti ci mettere pure tu, amico!” sbottò a quel punto Aken, intrecciando le braccia sul petto con fare offeso. “Se il ragazzo si fa male, primo, me la vedrò con sua madre, secondo, con suo padre. Ti pare poco? E, probabilmente, riceverei sonori sganassoni anche da parte di mia madre, oltre che da quella fuori di testa di mia cognata.”

“Parlavi di me, cognatuccio?” esordì una voce squillante alle loro spalle.

Rabbrividendo in maniera più che evidente, Aken si volse a mezzo e impallidì leggermente alla vista della donna.

“Cara, carissima Renke. Dove te ne vai con quel pancione enorme a farti da apripista?” esalò a quel punto, aprendosi in un ghigno, seminascosto dalla barba di due settimane che ne copriva il viso.

Incinta del terzogenito, e già all’ottavo mese di gravidanza, Renke non ne voleva sapere di starsene tranquilla a palazzo, prediligendo le passeggiate nei giardini privati della reggia.

O, come in quel caso, le visite al campo di addestramento dei cavalieri del regno.

Da anni, ormai, Aken si era preso il personale impegno di addestrare Meyor perché diventasse un cavaliere degno di tale nome.

Con il consenso di entrambi i genitori, lo aveva anche fatto iscrivere all’accademia militare di Rajana.

Desiderando essere pienamente partecipe della crescita culturale del ragazzino, che ormai aveva preso sotto la propria ala, si era  impuntato fino a divenire l’insegnante di equitazione dei giovani virgulti della scuola.

Dopotutto, la parte amministrativa del suo lavoro a palazzo lo impegnava talmente poco che insegnare a così tanti giovani l’arte della cavalleria, gli era sembrato un ottimo modo per non impazzire del tutto.

Sua madre si era dichiarata pienamente d’accordo con lui.

Suo padre Arkan, al contrario, aveva storto il naso, ma a lui era importato ben poco.

Se avesse anche solo provato a proferire qualcosa di traverso, avrebbe messo subito in pratica le sue minacce.

A onor del vero, comunque, quel suo nuovo compito lo aveva riempito di insperata soddisfazione, cancellando almeno in parte il senso di vuoto perenne che provava nei momenti di solitudine.

Inoltre, Meyor si era dimostrato non solo un bravo studente, ma anche un autentico asso nello stare in sella.

Anche se non lo avrebbe mai ammesso apertamente con il ragazzino, vederlo in sella lo rendeva assai orgoglioso.

“Il nostro caro Meyor sta diventando davvero bravissimo, da quanto ho visto dalla finestra” commentò Renke non appena ebbe raggiunto i due uomini e il giovane cavaliere.

“Principessa Renke, come sempre siete gentilissima” asserì il giovane cavaliere, profondendosi in un inchino dalla sella.

Ridendo, la donna assottigliò maliziosa le iridi di giada screziata d’oro e fissò Aken, celiando: “Gli hai anche insegnato a essere un adulatore, mio caro?”

“Meyor è educato di suo” replicò il principe, prima di aggiungere: “Non dicevo sul serio, prima.”

Battendogli affettuosamente una mano sul braccio, Renke tornò seria e gli disse: “So sempre quando la gente mi vuole offendere, e tu non sei tra quelli. Ma hai ragione; se Meyor si facesse male, ti ridurrei in poltiglia.”

“Buono a sapersi” scrollò le spalle Aken, prima di rivolgersi all’allievo. “Hai sentito, ragazzo? La mia vita dipende da te.”

“Starò attento, promesso” annuì Meyor, dando un colpetto leggero ai fianchi dello stallone per riprendere gli allenamenti sul campo.

Avvolgendo le braccia attorno a quello possente del cognato, Renke mormorò con un sorriso: “Quel ragazzino è un autentico toccasana, per te, Aken, te ne sei reso conto? E non solo lui! Il lavoro che svolgi in Accademia è davvero un balsamo, per il tuo umore altrimenti nero.”

Annuendo gravemente, Aken disse: “Se non ci fossero loro, sarebbe davvero dura… rimanere.”

Kannor sospirò pesantemente, scrutando spiacente il principe senza avere il coraggio di mettere a parole il proprio disappunto.

Conoscere i motivi del suo dolore e non poter far nulla per alleviarlo, per un amico di vecchia data come lui era, gli pesava come un macigno ben piantato sul cuore.

D’altra parte, cos’avrebbe potuto fare?

Spingerlo a cercare Eikhe per i monti, quando per anni la stessa figlia sacra non lo aveva mai cercato?

Sapeva perfettamente che le spie di re Arkan controllavano la posta in arrivo al principe, così come quella in partenza, perciò era più che certo che nulla, di lei, fosse giunto da Marhna.

Chissà cosa le era successo, e cosa l’avesse spinta a un tale e lapidario silenzio?

Che sospettasse un possibile pericolo? Era probabile. Eikhe, dopotutto, non era una sprovveduta.

Conosceva i doveri del principe, ma non era così ferrato su quelli di una donna-lupo, perciò poteva solo fare delle vaghe ipotesi su ciò che l’aveva condotta a questo assordante silenzio.

Ugualmente, Kannor imprecò tra sé.

Se anche solo uno dei due fosse stato meno ligio ai rispettivi doveri, a quest’ora non avrebbe dovuto essere il muto spettatore del declino di un amico.

Per distogliere l’attenzione di Renke dallo sguardo turbato di Aken, Kannor disse con causalità: “Magari, se ci aggregassimo alla prossima missione che deve recarsi ad Anok Fort, non sarebbe male. Comincio ad avere il disgusto di Rajana.”

Abbozzando una risatina cattiva, il principe fissò l’amico con aria scocciata.

“Se tu provi disgusto, io allora dovrei mettermi una corda al collo e tirare forte, credimi.”

“Aken!” esclamò Renke, impallidendo visibilmente a quelle crude parole.

“Perdonami, cognata” mormorò subito lui, battendole una mano sulle quelle intrecciate di lei. “Non dicevo sul serio.”

“Ma non prenderai in considerazione l’offerta di Kannor, vero?” brontolò la principessa, scrollando leggermente il suo braccio.

“No” asserì lapidario, chiudendo una porta in faccia a entrambi gli amici con quella secca risposta.

Sbuffando, Renke scostò lo sguardo dal suo viso corrucciato al giovane Meyor che, abilmente, stava balzando con il suo stallone oltre una staccionata.

Con voce resa roca dalla rabbia, sibilò piano: “Sai essere più testardo di un mulo, quando ti ci metti. Perché tanta ostinazione?!”

“Perché così dev’essere” replicò semplicemente lui prima di scostarsi da lei e baciarle una mano. “Con permesso, mia cara. Vado a insegnare qualche trucchetto ai nostri giovani stambecchi.”

Imponendosi di non sorridergli per pura ripicca, Renke non poté che scoppiare a ridere quando Aken posò un bacio anche sulla sua enorme pancia, mormorando all’indirizzo del bambino: “Preparati a quando uscirai. Tua madre è una vera strega.”

“Vattene, malefico fratello!” sbottò lei, ridacchiando e scacciandolo via con ampi gesti delle mani.

Lui ammiccò prima di tornare al suo solito sguardo chiuso in se stesso e, nell’osservarlo allontanarsi in direzione delle stalle, Renke sospirò e chiese: “Un’amante, o un figlio?”

Kannor la guardò con un sorriso ammirato, lodando silenzioso la sua perspicacia.

“Lo strazio che prova è per un amore che ha dovuto abbandonare. Ma la sua volontà di rinchiudersi qui per sempre, non oso dire da dove provenga.”

“Quale strega lo ha lasciato a se stesso senza alcun ritegno?” protestò veemente Renke, aggrottando le sopracciglia.

“Si sono lasciati perché le esigenze lo imponevano, non perché ne avessero reale desiderio” precisò l’attendente, osservando il principe uscire dalla stalla al trotto leggero, fiero e imponente sulla sella e lo sguardo ombroso fisso sul campo di addestramento.

“Una donna non di nobile lignaggio, allora?” chiese la principessa, ora vagamente sorpresa.

Annuendo, Kannor asserì: “Preferirei ne parlaste con lui, mia Signora. Sono affari suoi, dopotutto.”

Con un modesto sorriso, Renke annuì all’uomo e disse: “Hai ragione, Kannor, perdonami. Ficcanaso perché non posso fare a meno di chiedermi da dove venga tutta la tristezza che alberga nei suoi occhi.”

“Posso solo dirvi che la donna che ama è degna di grande rispetto” mormorò l’uomo, affondando la sua unica mano nella tasca del giustacuore che indossava.

“Non mi sarei aspettata nulla di meno, da Aken” sorrise lei, prima di esclamare eccitata quando lo vide balzare oltre una serie di doppi ostacoli, come se nulla fosse.

C’era ancora un grande guerriero, sotto quella scorza apparentemente infrangibile di dolore e orgoglio.

“Voglio il tuo bacio in pegno, bel cavaliere!” esclamò a quel punto, salutandolo con ampi gesti del braccio.

Aken scoppiò a ridere sulla sella mentre, scartando con il cavallo per raggiungere una nuova serie di ostacoli, lasciava andare le briglie sotto gli occhi sgomenti della principessa.

“Dèi, ma che fai?!”

Incurante del suo grido, il principe si piegò in avanti per assecondare i movimenti dell’animale e, dopo aver stretto maggiormente le gambe attorno alla cassa toracica del cavallo, gli sussurrò all’orecchio: “Mi fido di te.”

Come una sola creatura pulsante, animale e cavallo si librarono sopra due serie di ostacoli prima di atterrare indenni sulla spianata di terriccio, acclamati dagli applausi degli allievi e scrutati con autentico stupore da Renke.

Oltrepassato lo steccato che delimitava l’area di allenamento, la principessa si avvicinò al cognato e ringhiò furente: “Che ti è saltato in mente?! Vuoi farmi partorire prima del tempo!?”

Smontando di sella con un fluido movimento di gambe, Aken la ignorò per un momento per parlare a Meyor, fermo a pochi passi da lui con la bocca ancora spalancata dalla sorpresa.

“Devi fidarti del tuo cavallo, e devi fare in modo che lui si fidi di te. Non è diverso da un tuo compagno d’armi, ricordalo. Ti servirà bene, se tu servirai bene lui. Più intenso sarà il vostro rapporto, maggiore sarà ciò che ne ritornerà a tempo debito.”

“Sì, Aken” annuì tutto sorridente Meyor prima di riprendere gli allenamenti.

Ancora ferma accanto a lui, Renke lo schiaffeggiò su un braccio, strillando: “Mi hai fatto prendere paura!”

Abbozzando una risatina, Aken diede una pacca sul fianco del cavallo, che si incamminò accanto a loro e, presa sottobraccio la cognata, lui le disse tranquillamente: “Non ricordavo non mi avessi mai visto fare una cosa simile. Perdonami. Ma non rischiavo nulla, davvero.”

“Come puoi dirlo? Hai abbandonato le redini come se  nulla fosse!” sbottò Renke, ancora piccata.

Con una scrollatina di spalle, lui replicò: “Non c’è bisogno delle redini per guidare un cavallo. Basta che lui si fidi di te, e il resto non conta.”

“E da dove viene fuori tutto questo grande sapere?” brontolò lei, ancora poco convinta.

Il suo sorriso divenne misterioso e, mentre i suoi occhi tornavano a posarsi sul cavallo al suo fianco, la voce di Aken si fece calda, persa nei ricordi.

“Una cara, vecchia amica me lo insegnò, tanto tempo fa.”

“Doveva essere un genio dell’equitazione, allora” commentò Renke, vagamente sorpresa da quella confessione.

Una breve risata lo accompagnò per alcuni attimi prima di dire: “Oh, direi proprio di sì.”

***

Rimboccate le coperte ad Antalion, che stava dormendo della grossa dopo un giorno intero di allenamenti con la daga, Eikhe chiuse alle sue spalle la porta della stanza.

Raggiunta Sendala al tavolo del soggiorno, dove la donna aveva preparato le carte per giocare a whist, le sorrise complice, pronta a giovare.

Non ve ne fu il tempo, però.

Eikhe sobbalzò sorpresa al pari di Sendala, quando udì bussare alla porta di casa, in piena notte, e senza che loro aspettassero alcuna visita.

Balzando in piedi fulminea, Sendala afferrò la sua daga, poggiata contro un muro, mentre Eikhe si avvicinava guardinga alla porta per chiedere: “Chi è?”

“Sono Kreathe di Norfol. Spero ti ricorderai di me, giovane figlia sacra” esordì una voce oltre la porta.

Sgranando gli occhi per la sorpresa, Eikhe si affrettò a togliere la sbarra di ferro che serrava il battente.

Aperta che ebbe la porta, fissò basita la donna che, dieci anni addietro, aveva conosciuto durante la seduta del Consiglio delle Anziane a Nestar.

Non l’aveva più rivista, da quel giorno, ma rammentava perfettamente i suoi lineamenti taglienti, da falco, e la sua voce possente e forte.

“Prego, entrate, Madre. Siete la benvenuta” mormorò la padrona di casa, reclinando rispettosa il capo mentre Sendala tornava a poggiare la daga contro la parete.

Osservando l’interno della baita con ampi cenni del capo, la donna si accomodò al tavolo a un cenno della sua ospite e disse: “Vi siete sistemate bene, a quanto pare.”

“Siamo state aiutate” disse sinceramente Eikhe, chiedendosi nel contempo il perché di quella visita a sorpresa.

“Non è stato facile rintracciarti, figlia sacra” le confidò Kreathe, fissandola curiosamente. “Ma possiamo anche dare la colpa al fatto che, in questi anni, ho avuto un po’ troppe cose a cui pensare, per riuscire anche a scovarti in mezzo alla foresta.”

“Perché mi cercavate, Madre?” chiese cortesemente Eikhe, prima di aggiungere: “Posso offrirvi qualcosa?”

Scuotendo il capo con un gentile sorriso, Kreathe andò subito al punto.

“In questi anni, io e altre figlie sacre abbiamo deciso di sganciarci completamente dalle nostre tribù di appartenenza per creare un nuovo ordine, una nuova via, un nuovo inizio. Poco alla volta, roccia dopo roccia, tronco dopo tronco, abbiamo innalzato un nuovo villaggio, a due giorni di cammino da Marhna, che abbiamo chiamato Hyo-den, la casa di Hyo, in onore della nostra capostipite. Lì, la vita  scorre diversamente rispetto agli altri villaggi di donne-lupo. Abbiamo ritenuto saggio seguire ciò che tu e poche altre figlie sacre avete fatto, e cioè abbandonare l’odio per seguire solo il nostro cuore.”

“Parli di Seletta?” chiese Eikhe, aggrottando la fronte.

Rammentava di averne parlato a Kreathe poco prima della sua partenza ma, da quel lontano giorno, non aveva più saputo nulla dell’amica e dei suoi figli.

Annuendo, Kreathe la mise al corrente del suo destino.

“Siamo riuscite a raggiungerla seguendo le tue indicazioni, e ora vive nel villaggio di Hyo-den assieme a noi e i suoi figli.”

Timorosa di stare solo sognando – davvero esisteva un luogo simile, per loro? – , Eikhe esalò: “Ma… come avete potuto farlo? Le altre avranno sicuramente protestato!”

Scoppiando in una risatina leggera, Kreathe replicò con malizia: “Pensi davvero che si sarebbero messe contro quasi mille figlie sacre contemporaneamente?”

“Mille?!” esclamò Eikhe prima di veder strabuzzare gli occhi di Sendala.

“Come si può dire? Negli ultimi anni, c’è stata un’autentica fioritura, a quanto pare, e molte figlie sacre di Vartas si sono unite a noi, una volta che la voce ha raggiunto anche i loro villaggi” ridacchiò Kreathe, prima di aggiungere più seriamente: “E’ un segno. Il segno che stavamo aspettando. La nostra personale rivoluzione è iniziata e io, assieme alle altre donne che compongono il Consiglio di Hyo-den, siamo partite alla ricerca di coloro che ancora non avevano saputo di noi.”

“Incredibile” sussurrò Eikhe, passandosi una mano sul volto, ancora basita di fronte a quella notizia sconvolgente.

Aggrappata alla tavola fino a farsi sbiancare le nocche, Sendala esclamò: “E’ una roba portentosa!”

Con un risolino, Kreathe proseguì nel racconto.

“Naturalmente, l’accesso è libero anche alle normali donne-lupo. Non si vuole escludere nessuna, ma le regole sono decisamente diverse, rispetto a un comune villaggio di figlie del branco.”

“Oh” esalò sorpresa Sendala, colta alla sprovvista dalla sua affermazione.

“Cosa vi ha spinte a questa decisione, Kreathe?” chiese a quel punto Eikhe, turbata da un dubbio che le faceva formicolare le mani.

Fattasi di colpo ombrosa, la donna esalò un sospiro affranto, colmo di rabbia inespressa.

“Non ho potuto impedire la morte di un figlio sacro, e questo mi ha spinta a muovermi una volta per tutte.”

“Che intendi dire?” sussurrò Eikhe, accigliandosi.

“La tragedia si è ripetuta. Un altro figlio sacro è morto per la cecità delle donne-lupo. Non si è ripetuto il Massacro di Eskit solo perché la madre è morta durante il parto, non accudita e lasciata sola a morire nel suo stesso sangue” spiegò loro Kreathe, stringendo i denti per la rabbia.

Un sospiro, e proseguì nel suo tetro racconto.

“Niandre di Margoth mi aveva mandata a cercare, avvisandomi che il parto sarebbe stato imminente, ma giunsi con un giorno di ritardo al suo villaggio, troppo tardi per lei e per il suo bambino. Mi dissi che non avrebbe mai dovuto ripetersi un simile scempio, e così raccolsi attorno a me le donne che meglio conoscevo e iniziammo la nostra opera di costruzione. Naturalmente, ho dovuto digerire parecchi insulti ma, a conti fatti, nessuna ha mai realmente voluto mettersi contro me e le altre, perché sapevano bene come sarebbe finita.”

Sbuffando, Eikhe emise una risata altrettanto ruvida e commentò: “Certo! Non avrebbero mai permesso che la freoha si scatenasse.”

“Esatto” annuì Kreathe, gelida.

“Quindi, ora avete creato di sana pianta un villaggio dove portare avanti la vostra legge” riassunse Sendala, annuendo lieta. “Beh, i miei complimenti.”

“Lo dirà il tempo, se abbiamo fatto bene o male, ma per ora viviamo meglio così” asserì la figlia sacra. “Unisciti a noi, Eikhe, assieme a tuo figlio e alla tua fidata amica. Ne saremmo liete. Lietissime.”

“Anche se Antalion è un maschio?” chiese titubante la giovane, indecisa se credere a quel miracolo o meno.

Annuendo più volte, Kreathe disse con orgoglio: “Mia figlia ha appena partorito un maschietto, e anche lui è un figlio sacro. E il suo compagno ha deciso di rimanere assieme a noi per vivere al villaggio. Inoltre, non dimenticarti i maschietti di Seletta.”

Più che mai sorpresa, non tanto dalla possibilità di tenere i figli maschi, ma di poter vivere con gli uomini amati, Eikhe esalò: “Possono… gli uomini possono realmente farlo? Rimanere accanto alle loro compagne?”

“Chi lo desidera, può farlo, ma tutti sono perfettamente consapevoli che, al villaggio, le regole sono diverse. Nessun uomo regnerà mai su noi donne-lupo. Potranno vivere con noi, ma non elevarsi sopra di noi” dichiarò Kreathe con orgoglio.

Levandosi in piedi con un sorriso sulle labbra, Eikhe disse: “Allora, lo chiederò a mio figlio.”

“Saggia decisione, figlia sacra” annuì la donna, seguendola nella stanza del ragazzo assieme a Sendala.

Armata di una lanterna, Eikhe entrò nella stanza buia del figlio, illuminando dinanzi a sé per non inciampare nei suoi giocattoli, sparsi disordinatamente a terra.

Accostandosi a lui con un sorriso sulle labbra, sussurrò: “An, tesoro, svegliati.”

Occorsero due richiami perché il bambino si svegliasse sonnacchioso, e fissasse i suoi occhi velati sulle tre donne che, gaudenti, lo stavano osservando.

Passandosi svogliatamente una mano dinanzi al viso per cancellare come un colpo di spugna i segni del sonno, Antalion biascicò: “Che c’è, mamma? Va a fuoco la casa?”

Ridacchiando, Eikhe si accomodò su un lato del letto, poggiando poi la lanterna sul comodino.

Scrutato il figlio negli occhi con una nuova speranza nel cuore, disse: “La signora che vedi si chiama Kreathe e sarebbe tanto felice se io, tu e Sendala andassimo ad abitare nel suo villaggio.”

Accigliandosi immediatamente, le residue tracce di sonno ora del tutto svanite, Antalion fissò torvo Kreathe prima di borbottare: “Io sono un maschio. Nessun maschio può vivere tra le donne-lupo, lo so fin troppo bene! Persino la zia Tyura non è riuscita a convincere le sue compaesane a riammetterci a Nestar, sebbene ora lei sia la loro Signora!”

Kreathe sorrise comprensiva, di fronte al giusto nervosismo del ragazzino.

“Lo so, figliolo. Certe volontà non si possono cancellare semplicemente volendolo. Ma noi abbiamo costruito un villaggio dove le vecchie regole non valgono più. Saresti ben accetto tra di noi, esattamente come tua madre e la tua madrina. Sei figlio di Hevos, e a noi basta. Inoltre, avresti già compagnia maschile, visto che ho un nipotino maschio.”

“Davvero, mamma?” chiese dubbioso Antalion, fissandola ai limiti del terrore prima di tornare a scrutare dubbioso la donna sconosciuta.

La speranza galleggiava attorno a lui, ma era restio ad afferrarla, ed Eikhe ne comprendeva benissimo i motivi.

In quegli anni era cresciuto solo, lontano dai suoi coetanei, malvisto dalle donne-lupo e abituato a vedere solo e unicamente adulti, che ben poco avevano a che fare con il suo stile di vita.

Persino gli zii Konis ed Enok, per quanto gli volessero bene, vivevano diversamente da lui, e non potevano comprendere appieno cosa volesse dire essere un figlio sacro.

Lui era un’autentica rarità, anche nel mondo delle figlie di Hevos.

Vivere in un luogo in cui tutti e tutte avrebbero potuto comprenderlo, aiutarlo, amarlo, in cui altri bambini e bambine avrebbero giocato con lui senza deriderlo, crescendo assieme a lui, sarebbe stato stupendo.

Ma poteva cedere al sogno, abbracciare quel sordo desiderio?

Abbracciando il figlio, Eikhe diede voce alle sue speranze, dicendo: “Se tu sei d’accordo, allora andremo.”

“Sì” sussurrò lui, contro il suo petto. “Sì.”

***

Bloccandosi a metà di un passo quando Sendala aprì bocca, Eikhe fissò l’amica a occhi sgranati ed esalò: “Ho capito bene? Tu non verrai con noi?”

Arrossendo suo malgrado, Sendala si morse imbarazzata un labbro prima di dire: “Beh, ecco, vedi… mi piacerebbe, credimi. Ma insomma, io…”

Accigliandosi leggermente, Eikhe strinse le braccia al petto e domandò severa: “Cosa non mi stai dicendo, Sendala?”

Reclinando il capo perché l’amica non la fissasse con i suoi occhi inquisitori, Sendala disse in un soffio: “Resto per Enok, ecco! L’ho detto!”

Spalancando occhi e bocca in egual misura, Eikhe reclinò lentamente le braccia, basita suo malgrado da quella notizia, prima di riuscire a dire: “Sii più chiara, per favore.”

Ormai rossa in volto oltre ogni ragionevole dubbio, Sendala parlò in fretta, gli occhi serrati per l’imbarazzo.

“Per farla breve, Enok mi piace, io piaccio a lui e alla sua famiglia e, visto che la sua attività è qui a Marhna, sarebbe sciocco spostarci così tanto. Avevo già pensato da tempo di chiederti il permesso di ampliare la baita, visto che è tua, perché vorremo tanto…”

Sendala non fece in tempo a terminare la frase che Eikhe, come un piccolo tornado, le si fiondò addosso per abbracciarla con foga.

“Oh, dèi, non ci posso credere! Oh, grazie, grazie!”

“Grazie, cosa?!” esalò Sendala, cercando in qualche modo di respirare. “Eikhe, mi stai strozzando…”

“Oh, scusa, scusa!” esclamò l’amica, ridacchiando e lasciandola andare per guardarla in viso. “Pensavo di essermi sbagliata, di aver interpretato male i vostri sguardi, invece… oh, dèi, mi rendi così felice!”

“Ribadisco; felice per cosa?! Perché non verrò con voi?” sbottò a quel punto Sendala, adombrandosi in viso.

“Felice che due delle persone che più amo al mondo si amino a loro volta” replicò Eikhe con semplicità. “E ti capisco, non temere. Ha più senso rimanere qui, per voi due. Ma tu che farai, a questo punto?”

Accigliandosi, Sendala sbottò piccata: “Non penserai davvero che mi metterò dei vestiti come quelli che porta Ildera o robe simili, spero?! Non se ne parla! Sono, e resto, una donna-lupo, e questo lui lo sa benissimo. Lo accetta senza problemi. Persino sua madre è affascinata dalla cosa, e suo padre è affascinato, quando mi vede maneggiare la daga come un guerriero. No, non ci saranno problemi, da quel punto di vista.”

“E da quale punto di vista ci saranno dei problemi, allora?” chiese Eikhe, ora incuriosita.

Sospirando afflitta, l’amica borbottò: “E’ dura ammettere che mi piaccia così tanto…”

Allo sguardo accigliato di Eikhe, si corresse in fretta dicendo: “… d’accordo, che io ami così tanto un uomo quando, per anni, li ho odiati, ma so che quel che sento per Enok non è semplice attrazione fisica. Ne sono convinta.”

Sorridendo all’amica, Eikhe annuì battendole una mano sulla spalla.

“Lo leggo nei tuoi occhi. Stai facendo la cosa giusta. Unirete due culture, e questo non potrà che essere un bene.”

“Oh, di certo i suoi amici avranno da ridire, visto che non avrà una moglie convenzionale sotto il tetto,  o dentro il letto, ma lui ha detto che non gliene importa nulla. Gli basta avere me” celiò Sendala, scrollando le spalle prima di chiederle: “Pensi sia pazzo?”

“Enok? Forse, o forse è solo uno spirito illuminato” asserì Eikhe prima di avvertire, assieme all’amica, l’ululato solitario di un lupo tra le montagne.

Subito, Liar ed Epos corsero come due forsennati fuori dalla baita, subito seguiti da Antalion che, scrutando gli alti monti visibili dalla radura, esclamò: “Accidenti, che ululato possente!”

Sia Eikhe che Sendala sorrisero liete nell’udire quel suono struggente, e che portava con sé un muto messaggio.

La giovane figlia sacra, stringendo la mano dell’amica, chiosò: “Beh, direi che questo chiude il cerchio.”

“E’ bello sapere che Lui è d’accordo” esalò Sendala con reverenziale timore.

Eikhe assentì e, nel darle una pacca sul braccio, corse fuori con lei ed esclamò al figlio e ai lupi: “A chi arriva prima al ceppo?”

“Sììì” urlò Antalion, mettendosi a correre verso la parte opposta della radura, dove si trovava lo scheletro rinsecchito di un abete morto ormai da anni.

Eikhe restò nei pressi della casa in silenzioso e assorto ascolto dell’ululato di Hevos, sorridendo fiera e sentendosi libera di sperare, per la prima volta, dopo anni.

Certo, le mancava ancora un pezzo importante del suo cuore, ma ora poteva scorgere un avvenire migliore, per sé e il figlio. Sarebbero stati bene.

Hevos lo voleva.

  
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