I-n-t-e-r-r-o-t-t-o
Mi
colse l’ira, sul treno del ritorno.
Viaggiavo
da ore, eppure il tempo volava a singhiozzi, come strozzato.
Mi ritrovai a calciare contro una porta vetrosa e sporca, di quelle che
dividono gli scompartimenti polverosi e maleodoranti come un pugno
sulla
coscia.
Un
uomo che mi era vicino odorava di birra. Aveva appena collassato in
una busta e la bottiglia vuota galleggiava in quello schifo.
La donna di fronte a me, invece, non smetteva di cucire. Non smise
neanche per un attimo! Incredibilmente disorganica! Sferruzzava da ore,
col suo
uncinetto, e non si accorse neanche del momento in cui io e il tipo del
posto
dietro le versammo dell’acqua sulla faccia.
Continuava,
continuava, e noi le ridevamo davanti senza tanti timori.
Eppure
dopo che l’ubriaco vomitò di nuovo come un vulcano
in eruzione e
la donna che cuciva cominciò ad utilizzare
l’uncinetto per pulirsi i denti,
iniziai a trovare tutto noioso. Anche perché il tipo del
posto dietro si era
immerso in un giornale di cronaca nera e non ne usciva più.
Che
cazzo avrà avuto da leggere poi…
A
me non l’aveva insegnato nessuno, ma ero sempre stato
convinto che non
fosse una gran cosa.
Mi
avevano detto che mi avrebbe permesso di conoscere,
ma nel conoscere
non avevo mai visto nulla di buono. Mia
madre era stata felice fino al momento in cui non aveva saputo che mio
padre la
tradiva con la posteggiatrice della sua azienda malconcia. E fui
l’unico
sostenitore del fatto che mio zio si fosse suicidato perché
capiva troppo
rispetto a noi.
Presa
la borsa, mi affacciai dal finestrino.
–Patafran
!
Mi
ero ristretto un po’, notai che avevo le gambe nel taschino.
Eppure
appena toccai terra:
–Pof
!
Ritornai
normale.
Iniziai
a rotolare, senza saperne il perché. Iniziai a rotolare, con
i
fiori tra i capelli sporchi di viaggio in treno e la polvere che mi
finiva nei
calzini. Una strana melodia russa invase i miei polmoni e a stento
riuscii a
tirar fuori dal naso qualche nota. Ne fui contento, perché
stavo rischiando
grosso.
Alzai
lo sguardo e mi resi conto di quanto fossi malridotto. Constatai
d’esser in un bel luogo, nonostante la luce iniziasse a
scarseggiare.
Quella
in cui mi ritrovai era una stradina di campagna, poco
frequentata. In lontananza vidi una casa allegra e illuminata e da essa
la
gente usciva tenendosi stretta ad un compagno, ad un amico, ad una
donna.
Incontri fortuiti o intenzionali - non so.
Mi
incamminai, fiero della certezza di essere l’unico a non
barcollare
lì in mezzo. Avevo un andamento leggermente zigzagante,
è vero, ma non era
colpa dell’alcol, quanto invece di una strana pasticca che
quel tipo del posto
dietro mi aveva infilato nell’orecchio poco prima.
Fin
qui nulla di strano, ero abituato.
Poi
giunse una ragazza, giovane abbastanza, che mi tirò con
sé e mi
introdusse in quel baccano assordante. Entrai attraverso una porticina
raffinata e fui ben presto nella grande stanza da festa, dove tutti
erano
ammassati come rari funghi porcini in una mostra.
La
ragazza bella rise del mio volto contratto dal rumore spacca timpani,
rise del mio aspetto dimesso e poco articolato, rise di una gioia che
era solo
sua e che non proveniva da me.
Ballai
per ore insieme a lei, ed ogni volta che mi si avvicinava
respiravo un po’, solo un po’, ed il cronometro
della mia vita iniziava a
contare i secondi del mio esistere.
Interrotto.
Ecco
cos’ero.
Mi
muovevo come scandagliato da una moviola, i movimenti lenti in
maniera esacerbante e le parole dilatate.
Vedevo in quella ragazza un sorriso così bello ed impudico
che smisi di
chiedermi cosa ne sarebbe stato di me. Mi cullai in quella danza
assurdamente
frenetica e spinsi la testa indietro, come per trovare il mio spazio.
Poi
s’affacciò un ricordo triste.
[I
miei provarono
ad internarmi, anni fa, sotto mia richiesta.
Ma il fatto ch’io sapessi il mio
male mi costringeva fuori da ogni clinica e tutti mi chiamarono Zeno da
quel dì
in poi.]
[Una
suora che
all’asilo mi picchiava, mia madre che piangeva e mi
abbracciava –lei conosceva
il mio dolore.
Vidi anche l’amore della mia infanzia.
Era una bella bambina, ma
poi non le piacqui più perché piuttosto che
giocare a calcio
preferivo starla a
guardare ed ammirare quei capelli che la rendevano una dea ai miei
occhi.]
Ballavamo,
ballavamo, e non c’era niente di più bello! La sua carne nuda
sfiorò il mio braccio
e mi sentii rinascere. Era tempo che
non avevo contatto con nessuno. E non parlo solo di sesso, nossignori,
parlo di
sfiorarsi le guance per un saluto formale, o abbracciarsi se la propria
squadra
fa goal, o stringersi la mano alla fine di un patto d’acciaio.
Niente,
non avevo avuto niente di tutto questo da troppi lustri torridi
di noia.
Mentre
la musica si faceva sincopata, mi sorrise maliziosa ed i boccoli
neri le ricaddero sulle guance. Aveva un vestito bordeaux ed una stola
nera a
serrarle le spalle. Fece una giravolta per mostrarmi come la sua gonna
fosse
prodigiosa e mi portò via da quel fracasso.
Ne
fui sorpreso. Non so cosa le potesse piacere di me. Non so tuttora
cosa vide oltre quegli abiti schifosi e la barba incolta, raccolta sul
volto in
maniera sparuta. Non so cosa notò nei miei occhi affusolati
di uggia, né cosa
provò nello stringere le mie mani magre e finte.
Eravamo
fuori da quel casolare e qualche strascico di musica ci
rincorreva ancora.
Vidi
uscire due uomini in tuta, che bevevano ancora sottobraccio e
piangevano disperati, le guance gridavano dolore per loro. Dovevamo
andare
nell’altro continente per trovare lavoro, ma uno si sarebbe
diretto ad est,
l’altro ad ovest.
Assurda separazione, nella quale non avrebbero mai creduto!
Avevano condiviso anni e storie e case e passioni e lavoro e fiori e
campi e passeggiate e confidenze.
Dovevano
dimenticare tutto per
poter continuare a vivere.
Ella
rivolle l’attenzione tutta per sé. Non capii cosa
volesse da un
obbrobrio come me sino a quando non infilò le sue mani
stupende nei miei
pantaloni troppo larghi ed iniziò a carezzarmi lascivamente,
senza mai giungere
nel punto focale. Preso dal desiderio animalesco, dimentico degli
affanni e
dell’angoscia, eclissai i miei sogni.
Continuai
però a chiedermi come una perla del genere potesse rotolare
su
una bestia così scissa quale ero io.
Riuscì
a spogliarmi, ma, preso dalle mie elucubrazioni senza soluzione,
non me ne accorsi.
Ella
si spogliò, capì che nonostante
l’offuscamento non l’avrei mai
fatto per lei. Mai mi sarei permesso! Mi sentivo al cospetto di una
dea, di
nuovo, come già mi era accaduto, ed i suoi capelli
solleticavano le mie spalle
raggrinzite.
Iniziò a baciarmi il collo, l’addome, il basso
ventre, senza mai violare
qualche zona proibita. Con le mani cingeva i miei fianchi, e li
accarezzava, su
e giù.
Io chiudevo gli occhi, ma spesso li aprivo di scatto quando ella
giungeva in zone perifericamente pericolose. Ad un
tratto si fermò. E mi
guardò, le mani ai fianchi.
La
fissai incredulo e deluso. Amare una donna. Non ne
ero in grado.
[Mia
moglie mi
aveva fatto fuggire di casa a suon di sberle e dal quel giorno passai
la ma
esistenza su una panchina in Via Borromini,
in attesa che qualcuno si sedesse
accanto a me.
Davo da mangiare ai cani dell’ingegner Balli, sempre
abbandonati
nel giardino sfarzoso
e liberi di scappare da quella casa-prigione a causa del
bel cancello dimenticato aperto.
Qualche prostituta mi si avvicinava,convinta
che fossi un artista,
ma mi ripromisi
che mai più avrei toccato una donna,
perché esse sono dee e streghe e noi
uomini, oh!
Ci si fa abbindolare così facilmente! Provo vergogna per la
nostra
puerilità.]
E
mentre il passato tornò ancora una volta a schiantarmisi
dentro, ella
non ebbe problemi nell’avvicinarsi ed aderire a quel palo
secco ch’ero ormai.
Prese le mie mani e fece in modo ch’io
l’abbracciassi. La sentii pulsare sotto
di me e mi inebriai del suo calore così matto e giovane che
inspirai
profondamente. I suoi capelli odoravano d’ebano e sale,
mentre le sue mani
erano fredde e setose, e le unghie mi graffiavano appena la schiena
stanca.
Percepii le labbra roventi sulla mia mascella e la gamba destra
percorrere la
mia, con sottile licenziosità.
Provavo
una sensazione bislacca, stavo perdendo il controllo di me. Non
riuscivo a tenere gli occhi aperti e sognai di scivolare per una
discesa
d’acqua, alzando le mani al cielo e gridando come un
forsennato.
Nel
frattempo ella iniziò a baciare tutto il mio corpo, senza
tralasciare nulla. Mi sentivo poco romanticamente percorso da una
lumaca ed il
contatto con l’aria fresca mi fece trasalire. Mi
accarezzò i capelli e percorse
col dito i tratti del mio volto.
Mi
sorrise.
Iniziai.
Ad.
Urlare.
Non
potevo sopportare tutto questo , non potevo esser vittima della sua
bella attenzione, della sua carne stupenda, delle sue mani lisce e al
sapore di
cannella. Non potevo meritare quei giochi di eros, quando thanatos era
parte di
me. Non potevo permetterle di amarmi, neanche per quella notte, non
potevo
farla mia, entrare in lei, e poi dimenticare. Non potevo affogare i
gemiti
nella sua chioma corvina. Non potevo stringerla forte e portarla via
con me,
non potevo soffocare la mia rabbia nella passione.
Urlavo,
forte. Come se non avessi mai fatto altro in vita mia. Urlavo
come un folle ossessionato dal dolore, come il buono che passa la vita
ad
accondiscendere il prossimo e d’improvviso scoppia.
Bum!
Ero
scoppiato, come un palloncino bucato, gonfio d’aria torbida e
malsana. Urlavo ed ella mi sorrideva. Rividi la bimba che amavo da
piccino in
quegli occhi grigi e strampalati, rividi le corse per
l’altalena più
bella e le costruzioni meno usate e i
soldatini con le armi da duri.
Ella
continuava a sorridere, con intensità vigorosa e dolcezza
autentica.
Quella limpidezza, quella spontaneità mi fecero male, come
una camera sterile.
È come se si tentasse di ripulire l’aria di una
metropoli… Il contatto con
l’ossigeno puro mi stava dilaniando il petto.
Ed
io urlavo ed ella sorrideva, ed io strepitavo ed ella sorrideva, ed
io farneticavo ed ella sorrideva. Stavo immobile, e si rivestiva, stavo
immobile e prese a giocare col mio corpo, di nuovo, incurante. Era di
nuovo nel
suo abito e nel suo scialle. Io, nudo dinanzi a lei, urlavo e stavo
immobile,
il mio volto divenuto ormai una pozza rossa e sudaticcia.
Mi
strinse forte e sussurrò una frase dolce che non ricordo.
Era
ardente, era provocante.
Ed io facevo
ribrezzo.
Patafran!
Venni
di nuovo risucchiato nel vortice e la melodia russa aiutò i
miei
arti a ricoprirmi con gli stracci di prima. La musica riprese ad
invadere i
polmoni e stavolta giunse fino alle tempie. Avevo di nuovo le gambe nel
taschino e scivolavo su una tragedia avvizzita e sul viale di un
suicida. Le
mie gambe seguivano il ritmo della soavità cosacca e le mie
mani fingevano di
strimpellare una tastiera di vimini.
Pof!
Tornai
normale ed ero sul treno.
Il
tipo del posto dietro posò il giornale e mi si
avvicinò.
«Ho
finito di leggere la mia amabile cronaca nera. Riprendiamo le nostre
facezie.»
Ne
fui felice come se mi avessero detto che il paese del balocchi non
è
una finzione per bimbi cattivi, ma il premio per tutti - indistintamente.
Risi
con lui, per una buona mezz’ora. Ci davamo pacche sulle
spalle come
vecchi compagni di servizio militare, scostavamo la busta colma di
vomito
dell’ubriaco dormiente, salutavamo gli steli d’erba
dal finestrino.
Corremmo festosi al bagno e riempimmo un vecchio secchio azzurro di
acqua limpida, per innaffiare di nuovo quella donna che cuciva.
Usciti dal bagno, la trovammo impiccata fra i suoi stessi filamenti.
Ci guardava, feroce, con l’uncinetto fra i denti penzolanti.
Ghignò.
Cercai
di scendere immediatamente.
Le porte erano serrate con strani drappi di piombo, laccati d’oro.
Strinsi il tipo
del posto dietro per contrappasso. E si sbriciolò fra le mie
braccia.