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Autore: innerain    28/12/2011    2 recensioni
".. Hey, Platypus, indovina un po' chi ti ha portato il Frappucc-"
Si bloccò di colpo.
Sul suo viso, incredulità.
L'incomprensione della realtà, la confusione, il terrore, lo stupore; il caos.
Dipinto su quegl'occhi color ambra, grandi e spalancati.
Seduti davanti a lei, i Green Day.
Uno davanti all'altro; Tré più verso di lei, che copriva parzialmente Mike, seduto al centro, e in fondo, quasi sul lato opposto della stanza, Billie. La mente si rifiutava di capire, il cuore di battere; erano Loro. Non una foto, non un video clandestino su YouTube, non un poster, non il booklet di un CD. Non un sogno.
Erano Loro.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Billie J. Armstrong, Mike Dirnt, Nuovo personaggio, Tré Cool, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Author's Notes: Insomma, si è capito che questa storia, per quanto io possa desiderare il contrario, sta cadendo inevitabilmente nel dimenticatoio. Da parte mia, perché non aggiorno, ma il motivo è che (da parte vostra) nessuno ha il coraggio, o meglio, nessuno ha voglia di cliccare quel cazzo di link che dice niente di più difficile di "Inserisci una recensione". Non avete un account? Benissimo, fate pure, non m'interessa. Ma è un po' umiliante vedere il numero di volte che l'ultimo capitolo è stato letto, e poi vedere che il numero totale di recensioni ammonta a uno. Una recensione. Fatevi un po' schifo, almeno un pochino. Fatemi sentire meglio.
Comunque, basta di queste pseudo scenate da pseudo scrittrice rinnegata e passiamo al commento dell'UNICA recensione.

ShopaHolic: Come posso non ringraziarti dopo che mi lasci un simile commento? Tu ti scusi per non essere riuscita a scrivere "un commento che riguardasse un po' più nello specifico ciò che hai scritto e il modo in cui lo hai scritto", ma io non posso che ringraziarti per avermi fatto capire, ancora una volta, la forza della scrittura. Non necessariamente di quello che scrivo io, non sono né abbastanza consapevole delle mie capacità né abbastanza finta per negarle del tutto e fare della finta modestia, ma semplicemente ciò che la scrittura riesce a trasmettere singolarmente ad ognuno di noi. Io non do un'unica interpretazione di ciò che scrivo, non pretendo di impartire agli altri lezioni su come leggere o leggermi, tutto il contrario. Non dico niente a nessuno perché neanche io saprei precisamente cosa leggerci; mentre lo scrivo una cosa, quando lo rileggo, un'altra. Quindi, ancora, ti ringrazio. Questo sogno che tu dici di aver letto e vissuto tramite le parole che ho scritto, non può che essere uno dei pochi motivi rimasti per me per continuare a scrivere qui sopra, e una motivazione mia, personale, per continuare a fare ciò che così tanto amo fare, ma così poco rivelare agli altri. Grazie.


Buona lettura. Venite a ritirare la bambolina dopo la recensione.
E se avete da criticare in merito alla mia amarezza e scenata sul suddetto argomento, siete liberissimi di farlo.

Buone vacanze a todos.
E chiunque vada sulle piste non lo dica, che la pazienza è poca e la tendenza a rosicare molta.






I was told to stay away
Those two words I can’t obey.
Pay the price for your betrayal,
Your Betrayal.
[Your Betrayal, Bullet for My Valentine]






Title: A Bullet and a Prayer.
Soundtrack: Letterbomb, Green Day; Colder Than My Heart If You Can Imagine, A Day To Remember.


Senza neanche distogliere lo sguardo dallo schermo bianco e luminoso del computer, Erin allungò una mano per cercare il calore della sua fedele tazza verde pistacchio, senza tuttavia rimanerne appagata; inutile dirlo, la tazza giaceva abbandonata accanto al piccolo, malmesso portatile, il caffé da lungo tempo raffreddatosi.
Che poi, a volerlo dire, il caffé era decaffeinato, il latte era a lunga conservazione e puzzava, e quelle poche righe scritte sul computer erano rimaste invariate durante l'ultima ora e un quarto.

Erin sospirò; forse una gitarella fino all'isolato successivo per stanare dei viveri al supermercato era diventata necessaria.
Si passò una mano tra i capelli, lasciando che riposasse qualche attimo sulla nuca, poggiando il gomito sulla scrivania. Quell'articolo la stava facendo penare già da qualche ora, e lei non aveva altro desiderio che fare a pugni con il cuscino prima di crollare addormentata fino al giorno dell'apocalisse.
 Si sfilò gli occhiali, poggiandoli accanto al computer, massaggiandosi gli occhi stanchi.
Rilesse mentalmente la prima frase che aveva scritto. “Pugnalata alle spalle per il neo-eletto Gary Bakers”.

Si frustò mentalmente per essersi lasciata trascinare dalla propria rabbia e dai propri sentimenti. Va bene la satira, va bene la pungente ironia e il velato antagonismo, ma apertamente urlare il proprio odio ai quattro venti nei confronti di Bakers era forse un po' troppo.
 Sospirò di nuovo.

Forse non era al corrotto politico che era indirizzato l'articolo, e tantomeno la “pugnalata”.
La ferita era fresca e lei non poteva fare a meno di stuzzicarla, ripensando con rabbia all'accaduto e meditando possibili litigate e rappacificazioni improbabili.
 Forse non voleva semplicemente più sapere nulla di Alice, forse desiderava con tutta se stessa dimenticare ogni cosa, lei compresa.
Strinse i pugni, guardando via dallo schermo, sentendo la rabbia crescerle dentro, ricordandole ogni momento dell'accaduto con mille dolorosi flashback.
 Si alzò improvvisamente, afferrando cellulare e portafoglio prima di uscire velocemente da casa, noncurante del computer rimasto acceso, unica fonte di luce nell'appartamento rimasto al buio durante tutta la giornata.
Non appena fu in strada, chiuse gli occhi e inspirò profondamente, grata di quell'aria appena fredda che le pungeva i muscoli indolenziti dalla quasi totale immobilità delle ultime ore. Ripensò brevemente all'accaduto di quella stessa mattina; Billie (chiamarlo così sembrò improvvisamente una libertà troppo grande da prendersi, pur avendolo sempre fatto prima di averlo conosciuto di persona) che si presentava sotto casa sua, i caffé bollenti, la pioggia, la canzone.
Scosse la testa.
Troppi pensieri, congetture e ricordi per poterli affrontare con nervosa lucidità.
Decise di rimandare l'analisi dello strano fenomeno “Billie” alla mattina successiva, davanti al dovuto caffé mattutino.

Bastarono pochi minuti di camminata sotto il freddo venticello serale di Novembre, per entrare nel caldo, accogliente pub irlandese, appena oltre l'angolo tra la Telegraph Ave e la 25th St.

Erin si avvicinò al bancone, appoggiandosi al suo bordo smussato con un mezzo sorriso, nostalgico ed affettuoso insieme, mentre ne accarezzava con i polpastrelli il legno intaccato e scuro; osservò il barista, un omone pelato dalla pelle innaturalmente nivea e costellata di efelidi, mentre si muoveva indaffarato tra liquori e boccali, asciugandosi di tanto in tanto le mani sul grembiule nero, un tic nervoso che aveva acquistato con gli anni di professione, assieme all'innata abilità nel mestiere che lo aveva portato ad avere il locale quasi perennemente pieno di persone.
Quando finalmente si girò verso l'irlandese, gli occhi gli si illuminarono appena. Sorrise appena e si affrettò verso di lei con passi grossi e pesanti.
“Ree, my little Carrot! E' tanto che non ti vedo.. Come stai?”

Erin sorrise appena e si sedette, poggiandosi pesantemente sul bancone con i gomiti.

“Potrei stare meglio, Aemonn.”
 Aemonn annuì, come se avesse improvvisamente capito tutto. Sorrise tristemente per poi allungare verso la ragazza un boccale di birra doppio malto.
“Aspettami qui. Ho ciò che fa al caso tuo, Carrot.” E le fece l'occhiolino, sparendo dietro alla tenda improvvisata che era una grossa, lunga bandiera dell'Irlanda appesa verticalmente al muro a mo' di divisorio per la stanzetta che nascondeva.
Erin buttò giù la maggior parte della mezza pinta, sorridendo alla scelta del barista, che conosceva fin troppo bene i suoi gusti. Osservò distrattamente gli altri consumatori mentre s'intrattenevano in chissà quali conversazioni, che, notò, cercavano spesso di far apparire infinitamente interessanti.
Aemonn tornò qualche minuto dopo con una serie di bottiglie, stringendone con particolare cautela una, di vetro vermiglio piena per metà, contenente un liquido apparentemente nero. Sorrise complice ad Erin, per poi tirare giù dagli scaffali altre bottiglie e un bicchiere di vetro, dove cominciò a preparare una strana miscela a metà tra il rosso e il marrone scuro.
“L'“Oblivion”, tesoro. E' ciò che ci vuole per te, dato che mi pare che tu non sia in vena di sputar fuori ciò che ti pizzica. Comunque, il vecchio Aemonn è sempre qui, nel caso volessi rendermi partecipe di qualche gossip.”
Erin sorrise appena quando gli indirizzò un breve occhiolino, per poi osservarlo accarezzarsi la lunga barba color carota mentre ascoltava l'ordinazione di tre ragazzi poco più in là, un altro tic che si portava appresso probabilmente da quando aveva orgogliosamente cominciato a crescere la folta barba di cui andava tanto fiero.
Un paio d'ore e qualche “Oblivion” dopo, Erin accarezzava il bordo del bicchiere con aria assorta, piacevolmente intorpidita grazie all'alcol che le circolava in corpo, tuttavia ancora sobria, abbastanza da scuotere la testa infastidita e dolorante ogni qualvolta la sua mente errante sfiorasse il doloroso ricordo dell'accaduto. La capacità tipicamente irlandese di reggere l'alcol non era sempre comoda, soprattutto quando si avevano una migliore amica da avere in odio e una giornata (forse non tutta) da dimenticare.
Il cellulare cominciò a vibrare. Erin fece un cenno al barista che sarebbe tornata di lì a poco, e sgusciò via verso l'uscita secondaria del pub, che dava su un vicoletto interno a due schiere di bassi palazzi biancastri, che la luce smorta dei lampioni sulla strada rendeva scuri e sporchi.
Sfilò il cellulare dalla tasca dei pantaloni, rabbrividendo all'improvviso cambiamento di temperatura. Rispose senza neanche guardare lo schermo, infastidita di essere stata interrotta durante la sua sessione di riflessione masochistica.
“Pronto?” Voce stanca, seccata. La mano nella tasca dei pantaloni, il piede ciondolante a calciare via qualche sassolino d'asfalto.

“Erin? Sei tu, tesoro?” Una voce distintamente femminile dall'accento irlandese, calorosa e apprensiva, si poteva quasi percepire un sorriso nella voce stessa.

Erin sgranò gli occhi, e smise immediatamente di camminare su e giù per il vialetto.
 “Abigail? .. Sei tu?”
Incerta, quasi incredula. Strinse gli occhi, come a poter vedere mentalmente meglio la persona con cui stava parlando.
“Erin, tesoro.. Come stai?” Voce adesso più concitata, più emozionata. Erin sorrise appena, amaramente.

“Sto.. - Breve sospiro. - Sto bene. Voi come state? Come sta Patrick, si è ripreso?”

“Si, si.. Stiamo tutti bene, insomma, si tira avanti. - Una breve risata, cristallina e coinvolgente. - Abbiamo visto il tuo articolo, sei stata fenomenale, tesoro! L'abbiamo appeso accanto a quello di Alice, nella bacheca in cucina.” La ragazza si rabbuiò, abbassando lo sguardo a terra; sentì lo stomaco stringersi di astio e risentimento.
“... Grazie.”

“La nostra Allie ci ha detto di averti aiutata tanto, non è vero? Siete sempre inseparabili, eh, come eravate da piccoline...”

Erin rimase in silenzio; strinse i pugni, chiudendo gli occhi e inconsciamente trattenendo il fiato. Contò i battiti, lenti, regolari, nel tentativo di arginare l'ondata il veleno che le si insinuava nel corpo. Respirò profondamente.

“.. Io.. Io devo andare, Abigail. Scusami, ma devo proprio andare. Ci risentiamo a Natale, eh? Come sempre. Ciao.”
Chiuse il malmesso cellulare di scatto, soffocando nelle mani l'impulso di scaraventarlo contro il muro del palazzo che si ergeva di fronte a lei. Lasciò cadere il piccolo aggeggio nella tasca, pescando nell'altra il pacchetto di sigarette semivuoto.
Accesa una sigaretta con mani tremanti, inspirò a pieni polmoni, grata di quel vuoto sollievo che assaporò ad occhi chiusi, noncurante del freddo.
Rubata dalla sigaretta anche l'ultimo respiro di nicotina, rientrò nel locale, passandosi una mano tra i capelli e mentalmente ripensando all'assurdità della situazione, della chiamata. Alzò gli occhi quando fu quasi al punto in cui si era seduta prima, per bloccarsi improvvisamente, congelata. Sentì il cuore cominciare a martellarle nel petto, mentre un gelo di rabbia e infinita tristezza le saliva fino al viso. Strinse i pugni.

“Che cosa vuoi?”

Non credette di aver mai parlato con tanta freddezza, con tanto veleno nelle parole. Occhi duri e carichi d'odio in occhi disperati ed eloquenti, quasi domandassero mille cose, mille scuse.
Alice cercò di avvicinarsi a lei, tentando un passo appena accennato. Erin indietreggiò, facendo scattare il suo sguardo sul viso dell'altra ragazza, tentando di capirne le intenzioni.

“Erin, ti prego.. - Implorante, arresa - Fammi spiegare, ti prego."

Strinse i pugni, spostando lo sguardo altrove. Non riusciva a guardarla senza sentire la gola improvvisamente soffocata, bollente, stringersi di lacrime che avrebbe voluto versare. Poi, fece scattare gli occhi di nuovo in quelli dell'altra.

“Non mi devi mandare i tuoi genitori per rappacificarti con me. Sei una persona adulta e matura o no?”

Alice strinse gli occhi, perplessa, per poi cercare di nuovo di avvicinarsi all'amica, tendendo appena un braccio verso di lei.
 “Io non so di cosa stai parlando, davvero. Non sapevo nulla, devi credermi-”
“Non ti è bastato nascondermi le cose, tradirmi?! Ne ho abbastanza. Ora devi coinvolgere anche i tuoi, devi avere qualcuno che sappia dire le cose che tu non hai avuto il coraggio di dirmi in faccia.” Dito puntato contro di lei, la voce ormai veleno puro.

“Smettila! Non centrano nulla loro, non gli ho chiesto nulla. Non osare incolparli così, alla leggera, non dopo tutto ciò che hanno fatto per te!”

Erin sentì un fremito gelido percorrerle la schiena, e la testa che le girava. L'effetto dell'alcol era stato spazzato via dall'adrenalina e dalla rabbia, che ora sentiva pulsare nelle tempie.

“ .. Non mi rinfacciare nulla! Tu non hai idea di cosa sia affezionarsi a qualcuno così tanto da doversi continuamente ricordare che non sono i tuoi di genitori!”

Alice si bloccò; boccheggiava, con gli occhi sbarrati, incredula, negli occhi il dispiacere, la disperazione. Abbassò il viso, socchiudendo gli occhi. Mormorò un “mi dispiace”, mordendosi il labbro per trattenere le lacrime, prima di scappare via, fuori dal pub.

Erin rimase ferma qualche attimo, il petto che si alzava e si abbassava ritmicamente nel tentativo di recuperare fiato. Sentiva la testa pesante, le tempie che le pulsavano, le mani tremare. Respirò profondamente, prima di varcare quasi correndo la soglia del pub, verso la 25th St.
Alice era dall'altra parte della strada, seduta su una panchina, di spalle. Il suo esile corpo era scosso da singulti, tremante e rannicchiato su se stesso.
Era forse il momento giusto di porre fine a tutto quell'infinito dolore, che, ormai era evidente, non era la sola a dover sopportare? Non voleva lasciar andare tutto così, come se fosse stata una litigata stupida, di quelle che alla fine non si sanno neanche per quale motivo siano cominciate. Non riusciva a dimenticare quell'immagine dell'amica che la guardava, senza riuscire ad articolare parole, mentre lei si rendeva conto di ciò che le stava di fronte. Non riusciva a lasciar andare la nuova, dolorosa consapevolezza che ormai non avrebbe avuto più nessuno di cui fidarsi ciecamente, neanche più Alice. Non riusciva ad accettare che la propria migliore amica le avesse intenzionalmente mentito, nascosto la verità, tradita..
Non riusciva a ritrovare la fiducia e la speranza di far ritornare tutto come prima.
La guardò qualche altro momento, lo sguardo buio e infinitamente triste, prima di avviarsi lungo Telegraph Ave., verso casa.
Anche stanotte non avrebbe dormito.
   
 
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