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Autore: WrongHysteria    03/01/2012    2 recensioni
Vite che bruciano. Sentimenti che scottano. Come fuoco ardente queste storie s'insinueranno in voi, lasciando i piccoli semi del male che compaiono nella mia mente malata, seminando distruzione nel vostro cuore.
Almeno è ciò a cui miro.
I mostri sono reali, i fantasmi sono reali. Vivono dentro di noi e, a volte, vincono. Stephen King.
Genere: Drammatico, Horror, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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~solitudine


No more mr. Nice Guy

No more mr. Clean
No more mr. Nice Guy
They say he's sick, he's obscene

Alice Cooper, No more mr. Nice Guy.


Damon era sempre stato un ragazzino diverso. Tanto per cominciare, era nato con parto podalico, che aveva causato non poche preoccupazioni alla madre in travaglio. Aveva un intelletto acuto, che gli aveva consentito di imparare i numeri fino a cento e l'alfabeto ben prima della scuola primaria. Era stato inquadrato subito dagli altri bambini come strambo e lasciato solo con le sue navi in bottiglia e le sue costruzioni di lego elaborate, troppo perfette per essere di un bimbo di sette anni. Inizialmente, a causa del suo carattere chiuso, della sua straordinaria intelligenza e dei suoi silenzi riflessivi, i genitori temevano che fosse autistico e l'avevano sottoposto a una serie di visite che non avevano aiutato le sue capacità d'interazione sociale. Quando fu costretto a indossare gli occhiali per via del suo occhio pigro, gli altri bambini si accorsero di quanto fosse realmente strano e non lo lasciarono più solo: cominciarono a tormentarlo con una cattiveria che solo chi non sa la differenza tra il bene e il male può avere. Damon non poteva reagire alle prese in giro e, addirittura, alle percosse: era piuttosto esile e pareva che una folata di vento bastasse per farlo volare via. Sotto sotto, poi, era un bambino educato e gentile, e non pensava fosse giusto insultare gli altri. La mamma gli aveva insegnato di porgere sempre l'altra guancia.
Tutto cambiò quando a scuola arrivò un nuovo bambino, appena trasferitosi in paese. David sembrava di due anni più grande, era alto e corpulento e i suoi minacciosi occhi verdi, aiutati da un broncio permanente indossato da chi è stato costretto a rinunciare a tutto ciò che aveva di bello, scoraggiavano chiunque dall'avvicinarsi. Damon era l'unico a non aver paura di lui: sapeva che anche il bimbo nuovo doveva sentirsi solo e aveva bisogno di un amico. Nonostante non potessero essere più diversi, tra i due si instaurò un'amicizia sincera: David lo proteggeva e Damon aiutava il compagno con lo studio. In un certo senso, si completavano.
Furono amici per sette anni. Quando entrambi raggiunsero i quindici anni d'età, David scoprì le attrezzature da palestra: divenne un alto, muscoloso, e di conseguenza popolare ragazzo del liceo, mentre gli occhiali di Damon diventavano sempre più spessi e l'acne prendeva sempre più possesso del suo viso. Lentamente gli s'incollò addosso il marchio di sfigato della scuola e la sua amicizia con David, com'è ovvio, ne risentì. Quest'ultimo però non pareva soffrirne: usciva con una ragazza dopo l'altra, girava con la moto che ogni ragazzo del paese sognava d'avere e il suo sfavillante sorriso riusciva a convincere anche i professori che i suoi compiti fossero stati mangiati dalla sua iguana domestica. Forse un giorno si ricordò del suo ex migliore amico e lo osservò bene, smise di pensare a tutte le gentilezze, ai segreti che Damon aveva mantenuto, alle giornate che avevano passato insieme; fatto sta che, entrato nel gruppo dei più popolari, iniziò anch'egli a tormentare il povero ragazzo, che rimase definitivamente solo contro un'intera scuola.
In quanto a voti scolastici era il migliore, ma non era una consolazione sufficiente: durante le lezioni doveva schivare gomme da masticare e palline di carta tirate tatticamente verso di lui e le prese in giro sussurrate dai compagni di banco. Spesso controllava la sedia perché non ci avessero spalmato colla o vernici, e si rese conto di non poter nemmeno lasciare lo zaino incustodito in classe. 
Soltanto una cosa lo tratteneva dall'impazzire: Alice. Sentiva ch'era strana quanto lui, con quella passione per la musica indie e i vestiti vintage; ma a differenza di Damon, Alice era estroversa e aveva un aspetto piacevole, che invogliava le persone a parlarle. Per questo era molto apprezzata da gran parte della comitiva scolastica. Damon la osservava da ormai tre anni, ogni mattina, entrare a scuola, con quella sua borsa di tessuto logoro che le dondolava sulla spalla e i capelli rossi che scintillavano alla luce del sole, e sognava segretamente di correrle dietro per farla spaventare, ridere, prenderle la mano e accompagnarla in classe.
Ciò che faceva, invece, era camminare verso la sua aula con il suo solito passo strascicato e la maglietta indossata il giorno prima, a testa bassa, cercando di ignorare le risate di scherno e gli insulti che lo seguivano. Era molto stanco di quella situazione, ma si sentiva ridicolo, tanto che non ne aveva mai parlato con nessuno. Subiva in silenzio perché era troppo gentile per rispondere alle cattiverie con lo stesso tono.
Un giorno David gli si avvicinò, durante l'intervallo. Gli si piantò proprio davanti, bloccandogli l'uscita da qualsiasi guaio stesse per creare. Damon deglutì, preparandosi al peggio. Il suo vecchio amico gli sorrise. - Ehi - disse, affabile. - Come butta, amico?
Damon rimase perplesso. Ma non era stupido: David stava tramando qualcosa. Non disse niente.
 - Sai, ho ripensato a noi e, be', mi manchi. Ti offro un caffè, vuoi? Dopo la scuola. Riparliamo dei vecchi tempi. - continuò David, in mancanza di risposta. Sfoderò il suo sorriso più affascinante, a cui nessuno sapeva resistere.
Damon lo guardò stralunato. Davvero voleva solo bere un caffè insieme?
Ancora senza risposte, David gli diede una pacca sulla spalla. - Be', ci vediamo all'uscita, bello. A dopo. - e se ne andò, liberando la visuale dell'amico d'infanzia.
Il cervello di Damon iniziò a lavorare febbrilmente, alla ricerca di qualche intoppo nella faccenda. Forse voleva tirargli qualche scherzo al bar? Era l'unica possibilità che gli veniva in mente. E se invece volesse davvero riallacciare i rapporti? Non è mai troppo tardi. A Damon mancava tanto un amico con cui parlare, il suo migliore amico.
Decise di tentare. Non potevano ridicolizzarlo più di così.

Quando suonò l'ultima campanella, Damon uscì dalla scuola con il suo solito passo strascicato ed attese titubante al cancello. Dopo poco tempo vide David arrivare con la sua comitiva, un gruppo schiamazzante felice di andarsene da quel luogo. Egli rallentò il passo fino a che i suoi amici, senza quasi accorgersene, lo lasciarono indietro. A quel punto fece un gran sorriso e si diresse verso Damon. - Ehi! Allora, questo caffè?
A pochi metri dalla scuola, proprio di fronte, c'era un piccolo bar dove di solito i professori facevano colazione prima di iniziare a lavorare. Appena entrati furono avvolti dall'odore del caffè caldo, misto alla polvere: le vetrine erano sporche e sedie di legno scuro erano impilate in equilibrio precario accanto alla toilette. I due ragazzi scelsero un tavolo all'angolo, dove Damon potesse nascondersi e sentirsi a suo agio. - Allora, come stai? - chiese David, appoggiandosi con sicurezza a braccia incrociate sul tavolino. Ignorando il ripiano appiccicoso su cui s'era sporto, chiamò una cameriera, sfoderò il suo solito sorriso affascinante e ordinò due caffè, senza chiedere all'amico cosa desiderasse prendere.
Damon lo fissò a lungo prima di rispondere. - Bene, - disse. - Cosa vuoi da me?
David assunse un'espressione interdetta. - Come, cosa voglio da te. Insomma, amico, ti ho visto un po' nei casini e ho pensato che dopotutto mi manchi. Potremmo tornare amici come prima. Potresti stare con i miei, che ne dici? Diventeresti un gran figo con qualche ritocco.
I dubbi di Damon erano quasi tangibili. Era una faccenda fin troppo inverosimile.
Per sua sfortuna, lui era un ragazzo molto ingenuo. Sul suo volto si dipinse un sorriso timido. - Mi piacerebbe.
David rise. - Oh! Allora, dimmi bello, ce l'hai la ragazza? - chiese, causando un lieve rossore sulle guance dell'altro. - No, ma c'è questa ragazza che...
 - Non dire altro! Come si chiama? - David si sporse ancora più avanti.
 - Alice.
 - La Cook?
 - Sì, lei. Se potessi parlarle...
 - Non dire altro! A volte esce con noi. Ci penso io. - David regalò al suo amico l'ennesimo sorriso sfavillante.

Per due giorni David non si fece vedere a scuola. Damon continuò a osservare la sua amata da lontano, sperando che, in qualche modo, si potesse accorgere di lui. Pregando che David avesse messo almeno una buona parola. Aveva provato a comunicare con lui, ma quest'ultimo aveva cambiato numero. Poteva solo coltivare la speranza dentro di sé.
Il terzo giorno vide tutti i suoi sogni infrangersi. Come sempre, camminava con lentezza, per osservare quanto più possibile la sua Alice. Ma qualcosa cambiò la solita routine: lei fu raggiunta da un ragazzo, abbracciata e poi accompagnata in classe, mano nella mano.
Damon avrebbe potuto riconoscere quella massa di capelli lisci e lucidi ovunque.
David.
Per un momento pensò di affrontarlo appena usciti da scuola; ma a mano a mano che metabolizzava quanto era successo iniziò a volere a una vendetta fredda, lenta e soprattutto spietata verso colui che per ben due volte aveva finto di volergli essere amico quando voleva solo usarlo, prenderlo in giro come tutti gli altri. Doveva pianificarlo bene. Doveva pensare a qualcosa di davvero orribile, per far capire al mondo che non era più il ragazzino gentile che si lasciava schiacciare con tanta facilità.
Le settimane passavano e il desiderio cresceva in quel corpo fragile, senza che però un'idea si facesse strada sotto il cespuglio di capelli neri e ricci di Damon. S'erano tramutate in due mesi buoni e l'autunno era ormai agli sgoccioli quando il giovane, sovrappensiero, guardò fuori dalla finestra e vide due foglie secche rincorrersi nel vento, per poi cadere delicatamente sul marciapiede. Allora ebbe l'illuminazione. Prese l'elenco telefonico e lo sfogliò forsennatamanete fino alla C. Un sorriso diabolico gli illuminò il volto mentre correva in ingresso, dove il telefono lo aspettava sull'antiquato tavolino bianco.

***

Uno squillo interruppe la mia sessione di ginnastica pomeridiana. Lo ignorai, attendendo che rispondesse qualcun altro: le chiamate che arrivano a casa non sono mai per me. Sentii mia madre alzare la cornetta e domandare - Pronto? - poi, dopo qualche secondo, mi chiamò dalla cucina. - E' per te - urlò, perplessa. Posai il bilanciere con cura e andai a prendere il telefono. - Chi è? - chiesi stizzito. Mi rispose una voce che non riconobbi, ma che aveva un non so che di familiare. - 22 Carnaby street alle cinque, o la tua ragazza soffrirà parecchio. - La conversazione s'interruppe, lasciandomi interdetto per qualche secondo. Fissai lo sguardo fuori dalla finestra, dove le ultime foglie volteggiavano spinte da una lieve brezza, sempre più vicine all'asfalto. Era naturale che fosse uno scherzo, eppure...
No. Era sicuramente uno scherzo.
Riappesi il telefono alla parete e tornai in camera mia. Che razza di balordi c'erano in giro.
Ma come sapevano il mio nome?
Sentii il petto pesante, come se fosse oppresso da qualcosa. Faticavo a respirare, ma cercai di ignorare le mie condizioni. Chiunque fosse, non poteva avere nulla contro di me. Ero così popolare, amato da tutti, cercavo sempre di essere gentile. Nessuno avrebbe mai voluto farmi del male; ma se non era uno scherzo, forse desideravano un riscatto. Per fortuna i miei genitori, quella sera, sarebbero usciti a cena. Avrei aspettato quel momento per richiamare il mittente e scoprire chi fosse.

Alle sette e cinque, finalmente, udii l'uscio chiudersi con un clic. Era il momento buono. Scesi in cucina e premetti il tasto di richiamo automatico. Dopo tre squilli, il proprietario rispose. - Damon Lloyds.
Damon?
 - Ciao, Damon. Chiamo per riprendermi la ragazza. Spero che non sia troppo tardi. - dissi, freddo. Mi ero calmato all'istante: quello sfigato non avrebbe potuto fare niente di pericoloso.
Probabilmente si era accorto della gaffe, perché ci fu un lungo silenzio prima che, a fatica, lui rispondesse - Che ne dici di venire qui, Damon? Per un po' di tè.
 - E per la mia ragazza.
 - E per la tua ragazza.
Chiusi la conversazione.
Non cercai nemmeno di abbinare le scarpe al resto degli abiti: la situazione, in pochi minuti, m'era diventata chiara. Sentivo una gran rabbia montarmi dentro. Quel cazzone brufoloso sperava davvero di spaventarmi?
Salii in auto e guidai follemente fino a casa sua. Entrai senza bussare, a passo svelto: il buio avvolgeva ogni cosa e per me era difficile distinguere il profilo dei mobili. Cercai di orientarmi con l'udito. Dei cigolii erano accompagnati da scrosci d'acqua alla mia destra. Decisi di prendere quella direzione e, difatti, dalla porta aperta riuscii a vedere dei movimenti. Sperando che non avesse sentito la porta sbattere, mi avvicinai con passo felpato.
Quando fui dietro di lui, urlai.
Sobbalzò, senza emettere suono. Risi forte. Quant'era idiota! Se non fossi arrivato in quel paese quand'ero così piccolo, avrei capito subito che era uno da non frequentare. Purtroppo me n'ero reso conto troppo tardi.
Damon si voltò verso di me. Era tanto buio che non potei decifrare la sua espressione. - Sei qui, - disse. Sembrava sorpreso.
 - Sì. Accendi le luci e la finiamo con questa farsa?
 - La luce è saltata. - Si voltò di nuovo verso qualcosa che brillava di una luce argentea (il lavandino, probabilmente) e lo scroscio d'acqua ricominciò. Stava riempiendo il bollitore per fare il tè.
 - Potremmo almeno usare il gas per accendere le candele.
Non rispose.
 - Dov'è Alice?
 - L'ho rimandata a casa, - rispose con un filo di voce, posando il bollitore sul fornello. Un bagliore rossastro si propagò e subito si spense.
Risi di nuovo. Dovevo aspettarmelo. - Sei talmente ridicolo, - dissi. - Pensi che questi giochetti servano a qualcosa? Ti farai solo insultare di più.
 - Lei era mia - sussurrò tra i denti, così ferocemente che sussultai. - Era mia e mi fidavo di te. Eravamo amici. Pensavo che...
 - Spiacente, amico. La vittoria è di chi ha la forza di prendersela. - lo interruppi, alzando le spalle.
La luce tornò con un ronzio. Quand'esso si fermò, rimase solo un sordo silenzio tra noi. Dovevano essere passati almeno dieci minuti quando finalmente, quando stavo per salutarlo ed andarmene, parlò.
 - Non è così che mi ero immaginato quest'incontro. Ero innamorato profondamente di Alice, saremmo stati perfetti insieme e tu lo sai. Sai anche che tu sei sempre stato il mio unico amico e mi hai tradito più volte. Ed io, pateticamente, continuo a perdonarti, ad aspettare che tu capisca. Ma vedi, - proseguì - sono stanco di aspettare. Questo pomeriggio alle cinque avresti dovuto essere qui ed io avrei torturato Alice, solo un po', giusto un minimo di sangue, finché avresti capito come mi sono sentito a vedere spezzarsi il mio sogno più grande, il mio vero amore, per colpa del mio povero, idiota amico d'infanzia. L'avrei lasciata andare. Avresti chieso scusa e ti avrei perdonato anche questa volta. Ma come sempre, tu hai preso la cosa con leggerezza. Non hai compreso quanto io facessi sul serio. E se ora mi chiedessi di nuovo dove si trova Alice, ti direi la verità: è morta, David. Per colpa tua. Sei arrivato troppo tardi.
 - L'hai uccisa? - mormorai, incredulo. Mi mancava il fiato, non sentivo più il pavimento sotto i piedi.
 - No, David. Tu l'hai uccisa. Il mio amore è morto per colpa tua. Io sono morto per colpa tua. - disse lentamente. Vidi la sua mano allungarsi verso il bollitore. Si voltò, veloce e deciso. Sentii un rumore sordo, vidi i ripiani della cucina inclinarsi e diventare sfocati.
Poi tutto divenne di nuovo buio.

***

Per Damon non fu facile trasportare il corpo pesante di David fino alla sua auto. Non si preoccupò nemmeno di pulire il sangue cerebrale che s'era allungato a macchia di petrolio sul pavimento, né di nascondere il corpo di Alice, che godeva del suo riposo eterno sul letto del ragazzo che l'aveva tanto amata. Non aveva scritto nessuna lettera. I suoi genitori non meritavano spiegazioni.
Damon guidò per diverse miglia, in silenzio. Era ora di finire quella storia. Era stanco d'essere il rifiuto della società. La sua scuola avrebbe imparato a trattare con rispetto tutti gli studenti, invece di denigrare chi era diverso o, nel suo caso, migliore. Non sarebbe stato ricordato come il bravo ragazzo, ma ormai che importava? Aveva avuto la sua vendetta. Una ragazza non aveva nemmeno mai guardato chi altro non desiderava che amarla con tutte le proprie forze, un uomo non aveva capito quanto sincera ed importante fosse un'amicizia. Un'intera comunità scolastica non aveva capito quanto fosse importante tener conto dei sentimenti altrui, non aveva intuito che denigrare qualcuno non li avrebbe mai resi migliori. L'avrebbero pagata tutti, quegli idioti. Damon sarebbe stato ricordato per decenni; lo sfigato della scuola sarebbe stato visto, finalmente, non come innocente e indifeso, ma come un angelo della vendetta.
Il ragazzo inspirò a fondo. Ancora qualche km e sarebbe giunto alla spiaggia. Ma non era lì che voleva arrivare.
Iniziò a prendere le curve sempre più velocemente. Il suo battito cardiaco accelerava vertiginosamente, sapendo cosa si stava avvicinando. Le auto erano protette dall'abisso solo dai parapetti di ferro.
Ormai non controllava più l'auto. Non ci volle molto perché essa sfondasse uno dei parapetti e si levasse in volo per pochi secondi. Damon si voltò verso David. Gli prese la mano, osservando i suoi occhi chiusi, i suoi capelli spettinati. Si sentì finalmente in pace.
L'auto cadde nell'oceano, sollevando mille schizzi. Non riemerse più.



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Vi prego di perdonare eventuali incongruenze, e, anzi, di farmele notare. Non sono molto pratica di suicidi in mare. Spero che vi sia piaciuto!
   
 
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