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Autore: Dejanira    06/01/2012    1 recensioni
Avevo sedici anni e mia madre mi credeva una specie di facocero tutto intento a rovinarsi l’esistenza per farsi accettare dal branco, la massa, il gruppo, o in qualunque altro modo la si volesse definire quell’entità mastodontica e perversa che erano gli Adolescenti. Guardava un sacco di tv nel primo pomeriggio, dopo pranzo, quando quattro omuncoli mal cresciuti venivano pagati per sbandierare cazzate sulle generazioni d’oggi, e da casa io avevo l’impressione che si stesse parlando di leoni in un documentario della domenica.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Accendere una lampada e sparire

The Manifesto

 

 

 

 

Avevo sedici anni e mia madre mi credeva una specie di facocero tutto intento a rovinarsi l’esistenza per farsi accettare dal branco, la massa, il gruppo, o in qualunque altro modo la si volesse definire quell’entità mastodontica e perversa che erano gli Adolescenti. Guardava un sacco di tv nel primo pomeriggio, dopo pranzo, quando quattro omuncoli mal cresciuti venivano pagati per sbandierare cazzate sulle generazioni d’oggi, e da casa io avevo l’impressione che si stesse parlando di leoni in un documentario della domenica.

Lei mi stringeva gli occhi blu addosso quando uscivo di casa come se stessi andando per sempre via, mi farciva con raccomandazioni e avvertimenti, e stai attenta e non bere e non fumare e fa’ attenzione ai ragazzi e sta’ alla larga dai parchi di notte e dalle scuole che circola marijuana hashish LSD, torna presto, non correre, non ubriacarti e BUM!

Finiva sempre con me che andavo via di fretta sbattendo la porta.

Il fatto è che non mi piaceva come ci guardavano. Come se loro sapessero tutto e noi non sapessimo un cazzo, ci compativano con quell’aria da sono stato giovane anch’io e quelli non erano tempi come ora, le sapevamo portare avanti, noi, le rivoluzioni, che voi siete una mandria di micetti spauriti e vi riempiti la bocca di parolacce e Marlboro per sembrare un po’ più vissuti.

Dal mio canto, io mi riempivo la bocca di aforismi e versi di Rimbaud, professavo i Led Zeppelin e mi tingevo i capelli. Avevo sedici anni, poche aspettative in tasca e già allora ero uno stereotipo e nemmeno lo sapevo.

Mi sentivo sinceramente onnipotente. Ero un concentrato tossico di melodrammaticità ed egocentrismo, ma adesso c’è chi pensa che lo fossimo stati tutti a quell’età. Non era una bella sensazione, quando ti dicevano che giovani lo siamo stati tutti e che ero anch’io come te quando avevo sedici anni. Mi ritenevo speciale, come i cattivi di Woody Allen credevo di aver sicuramente capito qualcosa che gli altri ignoravano, e sentirmi sbattere sotto il naso con accondiscendenza la mia misera età e i miei fronzoli da ribelle me li faceva odiare uno per uno, quegli adulti.

Dicevano che sarei cresciuta, che avrei riso della ragazzina che ero. Dicevano che andando avanti avrei capito che la vita era ben altra cosa, e che poco aveva a che vedere con le brutte pagelle e con le scuffie colossali che uno si prendeva a quell’età, che l’amore era una cosa diversa, non lo si capiva neanche loro cosa accidenti fosse, figurarsi a sedici anni uno cosa ne poteva sapere.

A me sarebbe andato tanto di rispondergli che io nell’amore non ci credevo, che della scuola me ne fotteva appena e che queste preteste di aver colto il senso della vita io mica ce le avevo, ma loro mi avrebbero riso in faccia e mi avrebbero detto che sì, a sedici anni la si pensa in questo modo, e insomma qualunque cosa avessi detto o fatto loro avrebbero convenuto che ah, quant’era bello quando eravamo anche noi così…

 

Essere adulti era una rottura di palle. Essere adolescenti era una rottura di palle. In pratica era tutto un sistema solare, come avrebbe detto il mio amico Leo, ovvero un coordinato ed efficiente giramento di palle. A quell’epoca ci facevamo accompagnare dai ragazzi più grandi al supermercato a comprare gli alcolici, li infilavamo di nascosto nella borsa e ci ubriacavamo la sera quando il buio si faceva troppo fitto per respirare. Urlavamo così alla nostra condizione, che era l’unico modo che conoscevamo allora per disperarci con classe, e conservavamo quelle notti come frammenti di cristallo nella scatola dei ricordi, chiedendoci come non riuscissero quelli, i grandi, a capire che, beh, non significava assolutamente niente. Niente doppi fini, emozioni occultate, ansie nascoste, disagio adolescenziale e tutte quelle robe lì. Ce l’avevamo addosso la decadenza fin da quando eravamo nati e ce la saremmo portata dietro fin nella tomba, alla faccia di quella marmaglia di adulti rassegnati e depressi con i loro conti in banca e la loro politica. Noi li mettevamo insieme i centesimi per raccattare un pacco di sigarette o un panino freddo alle tre di notte, ed erano cose come quelle che ci piacevano, come rifugiarsi sotto i balconi quando pioveva a riscaldarci le mani respirandoci sopra, e non ce ne fregava nulla di bagnarci le scarpe e inzaccherarci i cappotti. Avevamo solo questo, e ce lo tenevamo stretto.

Gli adulti volevano inculcarci i loro fallimenti in testa, e così succedeva che a Chiara dicevano che non serviva a un cazzo studiare filosofia, a Leo sbraitavano che di questi tempi non esistono più i poeti, e in generale ti ficcavano nel cervello la convinzione che convenisse tutti quanti mettersi il culo in salvo che poi vedi come ti fottono le circostanze.

Noi non ci credevamo. Noi continuavamo a leggere Baudelaire, a sentirci forti e a crederci astronauti e poeti, quando in realtà eravamo patetici e volgari scherzi del destino, ci illudevamo ed è questo il bello, era questo che i grandi non capivano, e che noi non avevamo neanche voglia di starglielo lì a spiegare.

Noi lo sapevamo. Noi lo sapevamo che non era questa la vita, che non eravamo artisti né eroi, al massimo terroristi di noi stessi. Noi lo sapevamo perché lo vedevamo riflesso in loro tutti i giorni, come sarebbe stato dopo, dopo tutto quello, dopo le ubriacature del sabato e le brutte pagelle e quelle scuffie così epiche che il biondino che si fumava la sigaretta in bagno te lo ricordavi pure a quarant’anni, noi le sapevamo tutte quelle storie lì. Era solo che ci andava di essere giovani ancora un po’. Era solo che ci andava di patire, disperarci, lentamente morire. Ci andava di essere il centro dell’universo, di essere speciali, di sputare un faccia a tutto e fare a botte con la vita, che restava sempre una gran puttana. Ci piaceva essere gli stereotipi, quello figo, quello stronzo e il secchione, come ci saremmo arrivati altrimenti all’età adulta, poi, pronti a rivelare con un occhio al passato ai nostri figli che sì, beh, eravamo così anche noi?

Ci piaceva credere. Lo facevamo dissennatamente, con tutto il fegato, con tutto il cuore. La maturità non ci passava neanche per la testa, avevamo noi le nostre leggi e i nostri criteri, non ci sentivamo nel giusto, sentivamo solo che così, ecco, così eravamo bellissimi.

Non avevamo niente da proporre. Solo qualche frase fatta, un paio di luoghi comuni e qualche parolone in bocca, eravamo ridicoli, ma cazzo, se eravamo meravigliosi.

Nutrivamo ancora un po’ di fiducia nei libri e nelle stelle, l’alcol ci faceva male e non ci sarebbe piaciuto tanto se non ne avesse fatto; gli adulti facevano così con l’amore, la nostra era una forma solo più sincera e felice di sbandamento.

Questo era il nostro Manifesto. Questi eravamo noi con i nostri quattro soldi della paghetta in tasca, le prime sigarette che neanche le sapevamo davvero fumare, tanti sogni in testa e niente davanti. Non era vero che avevamo futuro. Ci aggrappavamo follemente al nostro presente, tenendoci cari i ricordi dei baci e delle notti che parevano non voler finire mai, e dell’alba che si affacciava appena sui nostri cuori stanchi.

 

 

 

 

 

 

NdA

Non sarà originale, non sarà bello, sarà ridicolo come lo sono io e come lo siamo noi. In realtà è solo un promemoria. Mi andava di segnarmela bene, questa cosa, così da poterla riguardare un giorno, quando me li sarò dimenticati questi anni, e chiedermi che razza di deficiente fossi.

Chissà perché poi le scrivo sempre all’una di notte, queste robacce.

Dejanira

  
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