The Manifesto
Avevo sedici anni
e mia madre mi credeva una specie di facocero tutto intento a rovinarsi
l’esistenza per farsi accettare dal branco, la massa, il gruppo, o in
qualunque altro modo la si volesse definire quell’entità
mastodontica e perversa che erano gli Adolescenti. Guardava un sacco di tv nel
primo pomeriggio, dopo pranzo, quando quattro omuncoli mal cresciuti venivano
pagati per sbandierare cazzate sulle generazioni d’oggi, e da casa io
avevo l’impressione che si stesse parlando di leoni in un documentario
della domenica.
Lei mi stringeva
gli occhi blu addosso quando uscivo di casa come se stessi andando per sempre
via, mi farciva con raccomandazioni e avvertimenti, e stai attenta e non bere e
non fumare e fa’ attenzione ai ragazzi e sta’ alla larga dai parchi
di notte e dalle scuole che circola marijuana hashish LSD, torna presto, non
correre, non ubriacarti e BUM!
Finiva sempre con
me che andavo via di fretta sbattendo la porta.
Il fatto è
che non mi piaceva come ci guardavano. Come se loro sapessero tutto e noi non
sapessimo un cazzo, ci compativano con quell’aria da sono
stato giovane anch’io e quelli non erano tempi come ora, le sapevamo
portare avanti, noi, le rivoluzioni, che voi siete una mandria di micetti
spauriti e vi riempiti la bocca di parolacce e Marlboro per sembrare un
po’ più vissuti.
Dal mio canto, io
mi riempivo la bocca di aforismi e versi di Rimbaud, professavo i Led Zeppelin
e mi tingevo i capelli. Avevo sedici anni, poche aspettative in tasca e
già allora ero uno stereotipo e nemmeno lo sapevo.
Mi sentivo
sinceramente onnipotente. Ero un concentrato tossico di melodrammaticità
ed egocentrismo, ma adesso c’è chi pensa che lo fossimo stati
tutti a quell’età. Non era una bella sensazione, quando ti
dicevano che giovani lo siamo stati tutti e che ero anch’io come te
quando avevo sedici anni. Mi ritenevo speciale, come i cattivi di Woody Allen
credevo di aver sicuramente capito qualcosa che gli altri ignoravano, e
sentirmi sbattere sotto il naso con accondiscendenza la mia misera età e
i miei fronzoli da ribelle me li faceva odiare uno per uno, quegli
adulti.
Dicevano che
sarei cresciuta, che avrei riso della ragazzina che ero. Dicevano che andando
avanti avrei capito che la vita era ben altra cosa, e che poco aveva a che vedere
con le brutte pagelle e con le scuffie colossali che uno si prendeva a
quell’età, che l’amore era una cosa diversa, non lo si
capiva neanche loro cosa accidenti fosse, figurarsi a sedici anni uno cosa ne poteva sapere.
A me sarebbe
andato tanto di rispondergli che io nell’amore non ci credevo, che della
scuola me ne fotteva appena e che queste preteste di
aver colto il senso della vita io mica ce le avevo, ma loro mi avrebbero
riso in faccia e mi avrebbero detto che sì, a sedici anni la si pensa in
questo modo, e insomma qualunque cosa avessi detto o fatto loro avrebbero
convenuto che ah, quant’era bello quando eravamo anche noi
così…
Essere
adulti era una rottura di palle. Essere adolescenti era una rottura di
palle. In pratica era tutto un sistema solare, come avrebbe detto il mio amico
Leo, ovvero un coordinato ed efficiente giramento di palle. A quell’epoca
ci facevamo accompagnare dai ragazzi più grandi al supermercato a
comprare gli alcolici, li infilavamo di nascosto nella borsa e ci ubriacavamo la
sera quando il buio si faceva troppo fitto per respirare. Urlavamo così
alla nostra condizione, che era l’unico modo che conoscevamo allora per disperarci
con classe, e conservavamo quelle notti come frammenti di cristallo nella
scatola dei ricordi, chiedendoci come non riuscissero quelli, i grandi, a
capire che, beh, non significava assolutamente niente. Niente doppi fini,
emozioni occultate, ansie nascoste, disagio adolescenziale e tutte quelle robe
lì. Ce l’avevamo addosso la decadenza fin da quando eravamo nati e
ce la saremmo portata dietro fin nella tomba, alla faccia di quella marmaglia
di adulti rassegnati e depressi con i loro conti in banca e la loro politica.
Noi li mettevamo insieme i centesimi per raccattare un pacco di sigarette o un
panino freddo alle tre di notte, ed erano cose come quelle che ci piacevano,
come rifugiarsi sotto i balconi quando pioveva a riscaldarci le mani
respirandoci sopra, e non ce ne fregava nulla di bagnarci le scarpe e
inzaccherarci i cappotti. Avevamo solo questo, e ce lo tenevamo stretto.
Gli adulti
volevano inculcarci i loro fallimenti in testa, e così succedeva che a
Chiara dicevano che non serviva a un cazzo studiare filosofia, a Leo
sbraitavano che di questi tempi non esistono più i poeti, e in generale
ti ficcavano nel cervello la convinzione che convenisse tutti quanti mettersi
il culo in salvo che poi vedi come ti fottono le circostanze.
Noi non ci
credevamo. Noi continuavamo a leggere Baudelaire, a sentirci forti e a crederci
astronauti e poeti, quando in realtà eravamo patetici e volgari scherzi
del destino, ci illudevamo ed è questo il bello, era questo che i grandi
non capivano, e che noi non avevamo neanche voglia di starglielo lì a
spiegare.
Noi lo sapevamo. Noi
lo sapevamo che non era questa la vita, che non eravamo artisti né eroi,
al massimo terroristi di noi stessi. Noi lo sapevamo perché lo vedevamo
riflesso in loro tutti i giorni, come sarebbe stato dopo, dopo tutto
quello, dopo le ubriacature del sabato e le brutte pagelle e quelle scuffie
così epiche che il biondino che si fumava la sigaretta in bagno te lo
ricordavi pure a quarant’anni, noi le sapevamo tutte quelle storie
lì. Era solo che ci andava di essere giovani ancora un po’. Era
solo che ci andava di patire, disperarci, lentamente morire. Ci andava di
essere il centro dell’universo, di essere speciali, di sputare un faccia a tutto e fare a botte con la vita, che restava
sempre una gran puttana. Ci piaceva essere gli stereotipi, quello figo, quello
stronzo e il secchione, come ci saremmo arrivati altrimenti
all’età adulta, poi, pronti a rivelare con un occhio al passato ai
nostri figli che sì, beh, eravamo così anche noi?
Ci piaceva
credere. Lo facevamo dissennatamente, con tutto il fegato, con tutto il cuore.
La maturità non ci passava neanche per la testa, avevamo noi le nostre
leggi e i nostri criteri, non ci sentivamo nel giusto, sentivamo solo che
così, ecco, così eravamo bellissimi.
Non avevamo
niente da proporre. Solo qualche frase fatta, un paio di luoghi comuni e
qualche parolone in bocca, eravamo ridicoli, ma cazzo, se eravamo meravigliosi.
Nutrivamo ancora
un po’ di fiducia nei libri e nelle stelle, l’alcol ci faceva male
e non ci sarebbe piaciuto tanto se non ne avesse fatto; gli adulti facevano
così con l’amore, la nostra era una forma solo più sincera
e felice di sbandamento.
Questo era il
nostro Manifesto. Questi eravamo noi con i nostri quattro soldi della paghetta
in tasca, le prime sigarette che neanche le sapevamo davvero fumare, tanti
sogni in testa e niente davanti. Non era vero che avevamo futuro. Ci
aggrappavamo follemente al nostro presente, tenendoci cari i ricordi dei baci e
delle notti che parevano non voler finire mai, e dell’alba che si
affacciava appena sui nostri cuori stanchi.
NdA
Non sarà
originale, non sarà bello, sarà ridicolo come lo sono io e come
lo siamo noi. In realtà è solo un promemoria. Mi andava di
segnarmela bene, questa cosa, così da poterla riguardare un giorno,
quando me li sarò dimenticati questi anni, e chiedermi che razza di
deficiente fossi.
Chissà
perché poi le scrivo sempre all’una di notte, queste robacce.
Dejanira