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Autore: Hellionor    07/01/2012    1 recensioni
Si dice che Deimos, un giorno, quando l'attrazione di Marte diventerà troppo forte, si schianterà sul pianeta stesso; mentre Phobos scivolerà verso gli inesistenti confini dell'Universo.
Altri, invece, ipotizzano che anche il secondo, dopo l'impatto del primo, finirà a collidere con Marte.
E così, i due satelliti verranno divisi e distrutti proprio dallo stesso che li aveva avvicinati.
Genere: Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio, Shannon Leto, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Eccomi ancora qui.
Adesso iniziamo a fare sul serio: entrano in gioco altri personaggi decisamente importanti direi. Ma non vi anticipo niente!
Spero che la storia possa cominciare ad incuriosirvi, buona lettura! (Ultimissima cosa: 'hagar' significa 'fuga')




Capitolo 2
Hagar


 

Tre giorni dopo Nimhea stava camminando lungo una via a lei del tutto sconosciuta per arrivare al centro che le aveva indicato il chitarrista dei Sunset, anche se le era stato sicuramente indicato più volte, nel vero senso della parola, dai passanti nervosamente gentili che l'avevano aiutata a trovare la strada.
“In fondo, a destra. È quel palazzo basso che vedi.”
Le aveva detto l'ultima donna che aveva fermato, che era poi scappata via sulle note di un “Grazie” biascicato.
Quando finalmente arrivò, si fermò qualche secondo a riprendere fiato all'ombra gettata da un balcone sul marciapiede, squadrando la scritta 'Music Lab', le cui grandi lettere sembravano pesare troppo per la facciata esposta al sole tutto il giorno; poi entrò.
“Mi scusi, lei è...?”
“Adrasto. Dovrei intervistare i Sunset of Agony.”
La donna digitò qualcosa sul computer, scrutò a lungo i file, mentre l'espressione sul suo viso lasciava trapelare un certo astio per quell'aggeggio e la convinzione che tutto sarebbe stato più semplice con una tabella vecchio stile.
“Sì, certo.” disse infine con un sorriso. Sembrava simpatica, ma forse era semplicemente contenta di essersela cavata contro la tecnologia.
“Oh, ma sei in anticipo di mezz'ora, cara!” aggiunse la donna, abolendo il 'lei'.
“Non me ne ero resa conto.” mentì la ragazza. “È un problema?”
“No, non ti preoccupare. Stanza 13. Devi andare a destra e girare poi a sinistra. Trovi le indicazioni con i numeri sui muri. Se hai bisogno di qualcosa, torna qui.”
“Va bene, grazie mille. Arrivederci.”
“Arrivederci.”
Nimhea scivolò lungo i corridoi. Alle pareti erano appese fotografie di artisti che si erano recati lì per conferenze o varie interviste. Guardò le sale e scoprì che in quell'ala del centro vi erano solo i numeri dispari. Arrivò fino alla stanza numero tredici, poi decise di tornare indietro a curiosare tra le foto appese, riprendendo dall'inizio del corridoio, quando la sua attenzione venne catturata dalla prima stanza.
Sostò un po' sulla soglia. Riusciva ad intravedere come era stata allestita all'interno. Una serie di sedie pieghevoli erano disposte in varie file, probabilmente per i giornalisti che sarebbero arrivati, e in fondo vi era una sorta di palco, sul quale si stagliava solo un pianoforte nero a mezza coda. La sua lucentezza continuò ad abbagliarla, mentre iniziava a sentire un desiderio sempre più forte prendere possesso di lei: doveva andare a suonarlo.
Sfiorò con le dita il numero in rilievo sul muro, accanto alla porta aperta. Uno.
Le sembrava ardere d'un fuoco che riusciva a scaldarla senza bruciarla. Maledettamente invitante.
Guardò il corridoio vuoto e si intrufolò nel salone, sentendosi come una ladra giustificata da nobili fini.
-Nim, male che vada, entrano e ti dicono che non puoi stare qui.- si disse.
Avanzò con passo incerto ma regolare, sfiorando gli schienali della prima colonna di sedie sulla sinistra, raggiunse il palco e rimase in adorazione qualche secondo, combattuta tra il desiderio di avvicinarsi al suo strumento e la certezza di dover andare via da lì.
La stanza era scarsamente illuminata, ma dal corridoio arrivava un chiarore rilassante e sul palco era accesa una delle tante luci disponibili.
Si avvicinò ulteriormente, sedendosi sullo sgabello nero e guardando la sala sotto di lei. Era sola, eppure si sentiva così bene. Così in pace.
Iniziò a suonare, prima piano, leggermente, poi con forza, lasciandosi trasportare dalle note melanconiche di Chopin.
Le sue dita scivolavano sui tasti totalmente incuranti di tutto ciò che circondava la sala. Poco distanti, le macchine passavano veloci lungo la strada, la donna continuava la sua lotta contro il computer, gli intervistatori scrivevano sui loro taccuini o registravano le parole di artisti più o meno famosi... ma tutto scorreva rapido e silenzioso intorno a lei, finalmente sicura nella sua bolla di note e vita.
Bianco e nero assumevano incredibili sfaccettature colorate e il silenzio intorno a lei iniziava a prendere forma, quando sentì un rumore.
Interruppe immediatamente l'esecuzione e gettò uno sguardo sconvolto alla sala. Affondata nella sua convinzione di essere sola, era tornata a galla bruscamente. Ed ora gli occhi bruciavano, come al mare, senza permetterle di mettere bene a fuoco e capire chi ci fosse.
“Scusami.” disse una voce maschile.
Nimhea si voltò in quella direzione, evidentemente imbarazzata.
Le sembrava di essere stata scoperta, mentre, nel più dolce dei suoi sogni, cercava di essere felice. Ben presto l'imbarazzo mutò quindi in irritazione e l'irritazione in una sinuosa diffidenza che le fece ritrarre la mano, velocemente.
Non era solo la situazione ad infastidirla, ma qualcosa che non era riuscita a capire immediatamente e che divenne chiaro solo quando, in seguito, lui aprì nuovamente bocca.
“Suonalo.” parlava in inglese.
L'uomo si spostò lievemente, rivelando così la propria posizione. Era troppo vicino alla porta per uscire senza guardarlo o senza dare spiegazioni. O almeno lo sarebbe stato per qualsiasi persona razionale.
Nimhea si alzò di scatto, scendendo velocemente dal palco. In fuga. Fece a ritroso in un secondo il percorso che qualche minuto prima le era sembrato così lungo e faticoso e raggiunse velocemente chi l'aveva privata della sua tranquillità.
“Io non dovrei essere qui.” disse, senza badare minimamente al fatto che l'altro potesse non capire l'italiano, le iridi incandescenti e la bocca già serrata.
Alzò il mento per riuscire almeno a guardarlo, spinta da un'inspiegabile curiosità. Quando i loro sguardi si incrociarono, il suo passo sicuro vacillò e improvvisamente gli occhi che aveva ridotto a fessure si sgranarono. Respirò il suo profumo intenso, contaminato da un odore di fumo. Non le parve così difficile immaginarlo con una sigaretta fra le labbra.
In un lampo, il suo viso era già fisso nella mente della ragazza, con tutto ciò che si portava dietro. Desolazione, invito, curiosità e molto altro si concentravano nelle iridi castano scuro tagliate da bagliori più chiari tendenti al giallo.
Nimhea non si fermò e in una frazione di secondo era già sommersa dalla luminosità del corridoio e diretta verso la stanza che non avrebbe mai dovuto lasciare. Di nuovo pronta a scappare, ma terribilmente cosciente del fascino del suo cacciatore.
Con sollievo, non sentì alcun passo, dietro di lei, quando si richiuse la porta alle spalle e cercò di respirare, calmando i battiti del proprio cuore, prima che il lavoro prendesse il sopravvento e tornasse la calma, sicura e monotona giornalista di sempre.


Procedeva, posando con leggerezza i piedi nella notte che incombeva sulla città. Avrebbe potuto essere stellata, avrebbe potuto esserci almeno la Luna. Avrebbe.
Continuò a camminare, mentre l'aria diventava irrespirabile e dai locali accanto arrivavano eco di canzoni movimentate.
Aveva semplicemente bisogno di distrarsi, senza badare troppo agli sguardi indiscreti di chi aveva deciso di godersi il sabato sera. Non riusciva a dimenticarsi di quella giornata, di quell'improbabile incontro con un perfetto sconosciuto che avrebbe dovuto dimenticare.
Si strinse nella giacca blu scura, e svoltò. Non era sicura di voler andare avanti in quel gioco contro se stessa, di notte, da sola. Ma forse era proprio la paura a spingerla ad andare avanti. E forse non era la stessa paura che un occhio esterno e poco attento poteva notare: temeva tornare a casa a rinchiudersi tra quelle quattro pareti, temeva il confronto con se stessa, più che altro. E così si dava alla fuga, sgusciando tra viottoli sconosciuti, mentre il cuore sobbalzava nel petto ad ogni rumore o ad ogni passo dietro di lei.
Voleva solo qualcuno con cui stare, voleva qualcuno in grado di proteggerla, come si tiene al riparo un cucciolo, come si cura un amore.
In fuga, in fuga da quell'amore che si rifiutava di farla sua, in fuga da quella vita senza riparo, senza protezione. In fuga dalla voglia di gridare al mondo la sua solitudine e la sua paura. Eppure gridavano, i suoi occhi straziati. Ululavano al cielo, come lupi in una foresta lontana ma terribilmente presente. Si volgevano alla Luna che forse c'era, sopra alle finte stelle proiettate dalle luci delle abitazioni, e disperati la inghiottivano.
E in mente aveva ancora quell'immagine assassina, quei due occhi che l'avevano decisamente annientata. Era come se si fosse guardata allo specchio proprio nel momento in cui scrutava un passante fino all'anima, tanto da farlo sentire allo scoperto e da fargli distogliere lo sguardo.
Quando decise che ormai era troppo tardi per stare in giro e che neanche il buio la stava aiutando, Nimhea tornò al suo piccolo appartamento e arraffò il telefono, incurante dei messaggi sulla segreteria. Probabilmente sua mamma l'aveva chiamata più volte, ma per rassicurarla ci sarebbe stato tempo: adesso aveva bisogno che qualcuno rassicurasse lei.
“Ti disturbo?” disse subito, non appena sentì dall'altro capo del telefono la voce che tanto adorava:
Andrea, la sua migliore amica.
“Sai che non mi disturbi mai, comunque sono da sola. Cos'è successo?”
“Possiamo parlare un po'? Anche se alla fine non parliamo, posso stare con te a far finta di essere vicine?” sussurrò.
“Lo stiamo già facendo.” la immaginò sorridere, lontana, nella sua Firenze, l'antica città un tempo etrusca che aveva trasmesso all'amica tutto il fascino per la storia delle popolazioni che avevano vissuto in Asia minore. Ittiti, Persiani e Alessandro Magno non erano solo nomi, ma voci potenti di un passato che rivendicava con forza il suo ruolo.
“Già.”
“Cos'è successo, allora?” ripeté Andrea.
“Ho conosciuto, no anzi, conosciuto no. Ho visto uno.”
“Uno chi?”
“Uno non lo so. Ma non è importante chi fosse. È che boh, mi ha distrutta. Ho avuto in mente tutto il giorno i suoi occhi, ho fatto un'intervista del cacchio, sono rimasta fuori tutta la sera perché non riuscivo a stare in casa e sono rientrata perché non ero in grado di stare fuori.”
“Uh, era così bello?”
“Non era meraviglioso, però non lo so.”
L'aveva visto troppo poco per poter dire che fosse bello, non era nemmeno stata in grado di capire quanto fosse alto o come fosse vestito.
“Quanti anni aveva, più o meno?”
Nimhea si sforzò di ricordare meglio il suo volto, poi disse: “Non so. 30, credo. Magari 35, massimo.”
“Dovevi andare a chiedere a qualcuno che interviste erano programmate per quel giorno o... trovare un modo per scoprire chi fosse.”
“Ma fa niente, non mi interessa sapere chi sia. Non era nemmeno italiano, Nare.”
“Come non era italiano?”
“Mi ha detto di suonare il piano, in inglese.”
“Un attimo, suonare?” chiese incuriosita Andrea, che fino a quel momento aveva capito ben poco.
Nimhea si passò nervosamente una mano tra i capelli, poi iniziò a raccontare con tutta la calma possibile di come fosse arrivata in anticipo, avesse deciso di curiosare in giro, avesse iniziato a suonare e fosse stata interrotta.
“Ho capito. Ma cos'è che ti ha sconvolta così tanto?”
“Non lo so. Te l'ho detto, mi sento tutta strana. Non avevo mai provato un'attrazione così forte che combattesse con la mia voglia di scappare.”
“Che alla fine ha vinto ugualmente.”
“Già. Il problema è che non credo riuscirei a scappare una seconda volta. Ma questo non è un vero problema: non lo rivedrò mai più.” constatò con uno strano velo di malinconia Nim.
“E se invece fosse proprio questo il problema?”
“Non vedo come potrei risolverlo.”
“Deve aver proprio fatto qualcosa.” rispose l'amica, dall'altro capo del telefono. Alla milanese parve quasi di vederla sorridere e non era difficile immaginarla e arrivare fino ai suoi pensieri.
Erano sempre state unite, da quando si erano ritrovate per caso nella hall di un albergo a Roma, entrambe vittime di una vacanza studio programmata dalle rispettive scuole, anni prima. Ben presto si erano rese conto di assomigliarsi e capirsi più di quanto due persone normali avrebbero mai potuto fare. Ma la loro normalità eludeva totalmente il concetto che ne ha il mondo che, sicuro e tranquillo, non può nemmeno immaginare cosa si provi a ritrovarsi in una persona lontana, ad avere distante l'unica al mondo che si vorrebbe sempre vicino. E l'abitudine, la vita e il lavoro non sarebbero stati in grado di distrarle da ciò che di più profondo avevano creato.
I sogni infantili di ritrovarsi a vivere insieme erano scoppiati, come bolle di sapone, ma loro c'erano ancora, con i loro colori, i loro sorrisi e le loro lacrime.
E la distanza non era poi così insormontabile.
Nimhea e Andrea parlarono ancora per quasi un'ora, lasciando che il discorso scivolasse su problemi meno importanti e su altre situazioni, poi decisero di lasciare che il sonno prendesse possesso di loro, trascinandole nel suo mondo di false e momentanee gioie sicure, mentre la Luna, coperta dal suo triste velo di nubi, cercava di vegliare su di loro. 

   
 
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