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Autore: Hellionor    04/01/2012    3 recensioni
Si dice che Deimos, un giorno, quando l'attrazione di Marte diventerà troppo forte, si schianterà sul pianeta stesso; mentre Phobos scivolerà verso gli inesistenti confini dell'Universo.
Altri, invece, ipotizzano che anche il secondo, dopo l'impatto del primo, finirà a collidere con Marte.
E così, i due satelliti verranno divisi e distrutti proprio dallo stesso che li aveva avvicinati.
Genere: Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio, Shannon Leto, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Bene, benvenuti!
Ok, magari non si dovrebbe iniziare così, ma vi chiedo scusa.
Questa è la prima storia che decido di pubblicare su EFP, e, ad essere sinceri, è la prima Fan Fiction che scrivo sui Thirty Seconds to Mars. Spero vi piaccia almeno un pochino.
Potrei dirvi un sacco di cose su di me, ma evito di annoiarvi (senza contare il fatto che non sono poi così interessanti).
Vi lascio allora alla lettura.

 

Si dice che Deimos, un giorno, quando l'attrazione di Marte diventerà troppo forte, si schianterà sul pianeta stesso; mentre Phobos scivolerà verso gli inesistenti confini dell'Universo. 
Altri, invece, ipotizzano che anche il secondo, dopo l'impatto del primo, finirà a collidere con Marte. E così, i due satelliti verranno divisi e distrutti proprio dallo stesso che li aveva avvicinati.

 

Capitolo 1
Occhi di cielo

 



Guardò ancora una volta l'orologio al polso sinistro: non avrebbe mai creduto che si potesse essere così in ritardo rispetto alla sua tabella di marcia, non in un giorno terribilmente decisivo come quello. Le otto e mezzo.
Sentiva i secondi scorrere veloci e inarrestabili verso le nove e dieci, orario in cui avrebbe dovuto essere seduta con le gambe irrigidite dall'ansia sulle comode poltrone chiare dello studio del signor Bertoli, il suo datore di lavoro.
Si sistemò il sottilissimo cinturino nero e tornò dall'uomo rotondo e non troppo alto che già tante volte aveva risposto alle sue domande. Era stato gentile, fino a quel momento, ma sapeva bene che la sua insistenza l'avrebbe irritato e che i suoi spessi baffi avrebbero assunto una qualche strana posizione che le avrebbe fatto capire i suoi pensieri. Era sempre stata fin troppo capace di osservare ogni minimo dettaglio di chi la circondava.
“Signorina, tra poco arriverà il conducente e il mezzo partirà, non si preoccupi.” le disse non appena la vide, mentre il suo faccione bonario cercava di imporsi un sorriso rassicurante. Non era bravo a mentire, forse in questo si assomigliavano.
“Sì, mi scusi ancora, ma... tra quanto poco? Non posso permettermi di ritardare, non oggi.” rispose Nimhea, lasciando che i suoi occhi e il suo sorriso si scusassero per il tono di voce altezzoso che le era sfuggito.
“Le conviene prendere un taxi, allora.”
La ragazza lo guardò ancora per qualche istante, poi lo ringraziò in fretta, si girò e attraversò la strada, diretta a casa sua, l'ultimo condominio in fondo, sulla destra.
Arrivò velocemente alla sua bicicletta, gettò la borsa nel cestino davanti al manubrio, e legò i lunghi capelli mossi in una coda alta e innocua. Avrebbe preferito evitare di rovinare i vestiti, di sudare, di distruggere la piega che era riuscita a fare con tanta fatica, ma il tempo correva e i taxi non sarebbero serviti a niente. Guardò un'ultima volta l'orologio e partì, scivolando tra le vie meno conosciute di una Milano primaverile insolitamente calda.
Quando arrivò davanti all'edificio dove lavorava, vide che il grande orologio sul marciapiede segnava solo le nove ed emise un sospiro di sollievo, accorgendosi di aver quasi tenuto il fiato per tutto il tragitto. Controllò ancora una volta il suo orologio per assicurarsi di aver visto bene da lontano e sorrise soddisfatta.
“Ancora su quel catorcio?”
Nimhea si voltò verso Antonio, il portinaio, sorridendogli.
“Me la tratti bene.” gli disse.
“Spiegami solo perché è gialla!”
“Non è l'unica bicicletta gialla in tutto il mondo, Antonio.”
Lui non fiatò, insoddisfatto come un bambino a cui hanno negato la storia della buonanotte.
“Mi scusi, devo scappare.”
L'uomo le rispose con un cenno del capo e la ragazza si precipitò su per le scale d'ingresso. Aveva ancora qualche minuto per provare a sistemarsi.
Non era mai stata così agitata per l'assegnazione di un'intervista, ma l'intonazione che la segretaria aveva usato al telefono per convocarla sembrava lievemente agitata e tutto questo lasciava presupporre ad un incarico diverso dal solito. Adorava la musica e non le era difficile lavorare per una rivista che trattasse principalmente di ciò, ma fino a quel momento era stata relegata ad interviste di poca importanza o articoli su artisti sconosciuti.
Prese l'ascensore, insolitamente vuoto, e salì fino al terzo piano, sciogliendosi e ravvivandosi i capelli in quei pochi secondi di tempo.
Pensò a quel castano inspiegabilmente scuro e terribilmente contrastante con i suoi occhi. Nimhea. Occhi di cielo. Sua madre le aveva ripetuto un'infinità di volte questo significato che tanto si adattava a lei. Diceva che aveva aspettato tempo, prima di trovare il nome giusto e, amante com'era del mondo orientale che tante volte l'aveva ospitata e stupita, si era impegnata a cercarne uno indiano, per 'avere tutti i giorni le cose più belle della mia vita, insieme'. Non sapeva di averle affidato un peso ancora più grande.
Nimhea era cresciuta, prima di riconoscere il cielo nei suoi occhi. Sapeva che c'era di più, oltre al loro colore. Non erano solo l'insieme di azzurri, verdi e grigi poco definiti che variavano in base al sole e alla luce. C'era tutta l'insicurezza di quel cielo variabile, grande e misterioso che abbraccia il mondo e lo scruta, notando bellezze e orrori. C'erano giorno e notte, luci e tenebre. C'erano riso e pianto, gioia e sofferenza. C'erano pace e guerra.
Probabilmente era la guerra ciò che più la contraddistingueva. Non trovava un momento in cui potesse essere in pace con se stessa, un istante tale da far sì che quella barriera che aveva sempre innalzato si sciogliesse, un secondo in cui sentirsi veramente in pace.
Così sorrideva alla gente, lasciando che il dolore colpisse solo lei, quando finalmente era sola e libera di guardarsi per quello che era. Non si amava, no, ma nemmeno si odiava. Era in guerra.
Si diresse all'ufficio dalle comode poltrone beige in anticipo di cinque minuti, e si sedette appena fuori, in quella sorta di sala d'aspetto. Osservò la pianta rachitica con le foglie d'un verde troppo cupo. Sembrava velenosa, così come l'aria che respirava in quell'angolo vicino alla finestra sopra alla strada trafficata.
“Ragazza, puoi andare.” le disse dopo qualche secondo l'anziana segretaria, strappandola ai suoi pensieri. Nimhea aveva sempre odiato essere apostrofata così. Ragazza. La faceva sentire piccola e stupida e non era sicura di essere davvero meno matura di quella donna che aveva passato la vita dietro ad una scrivania, con la speranza di fare passi avanti, il terrore di cambiare e la consapevolezza di essersi arenata.
“Grazie.” rispose semplicemente, alzandosi e scivolando lungo il breve corridoio. Le pareti erano d'un bianco ottico, quasi accecante e contrastavano terribilmente con il pavimento in granito nero. Le sembrava freddissimo, quasi di ghiaccio. Una distesa di ghiaccio nero: silenzioso, profondo, mortale.
Bussò rispettosamente alla prima porta sulla destra e guardò, al centro del vetro smerigliato che la separava dalla stanza, la targhetta nera che recava il nome dell'uomo che stava per incontrare, aspettando dall'interno quel sussurro che le avrebbe permesso di entrare.
“Avanti.”
“Buongiorno.” disse la ragazza, entrando e chiudendosi la porta alle spalle con attenzione a non fare rumore, senza voltarsi.
“Buongiorno. Come va?”
Nimhea guardò quell'omino basso e magro, che sembrava sprofondare in una poltrona troppo grande per lui. Aveva occhi piccoli e leggermente incavati che sembravano ancora più insignificanti dietro ai sottili occhiali da vista che indossava. Il naso era sottile e tagliente, così come le labbra che si schiudevano in un sorriso che in qualsiasi circostanza sarebbe sembrato finto a qualsiasi attento osservatore. I capelli grigi iniziavano a diradarsi, lasciando spazio ad una fronte rugosa e corrucciata, ma allo stesso tempo capace di distendersi e di apparire calma.
“Tutto bene, grazie. Lei?”
Odiava le formalità e trovava decisamente inutile quella loro abitudinaria conversazione in cui la risposta 'bene' diventava un semplice simbolo della quotidiana falsità che aleggiava nel loro mondo. Nessuno dei due sarebbe mai e poi mai andato a raccontare i suoi problemi all'altro ed entrambi lo sapevano.
“Bene.” rispose.
“Si lavora sempre, fortunatamente. Tutti sentiamo parlare di crisi, ci sono disoccupati e quant'altro. Noi siamo qua.” riprese dopo qualche secondo.
Nimhea distolse lo sguardo. Lui era lì. Lei faceva i salti mortali per scrivere inutili articoli e per gestire quel poco di controllo che cercava di esercitare su se stessa.
Ascoltò ancora qualche divagazione sulla situazione economica e sociale della loro trasandata Italia, prima di interromperlo con un educato:
“Ha perfettamente ragione.”
Lui sorrise compiaciuto. Adorava sentirsi dire così.
“Veniamo a noi, adesso.”
Nimhea aspettò pazientemente che l'omino davanti a lei cominciasse nuovamente a parlare.
“Conosce i Sunset of Agony, signorina Adrasto?”
“No, veramente non ne ho mai sentito parlare.” rispose lei, impassibile.
Ancora una volta nessuno. Nessuno di importante, nessun articolo rilevante. Niente di niente. Cercò di non far trapelare la sua delusione e aspettò che l'altro proseguisse.
“Sono una giovane band emergente, sembra siano riusciti a farsi conoscere un po' anche all'estero. Scoprirai tutto quello che ti serve leggendo il fascicolo che...” il signor Bertoli guardò la scrivania vuota, aprì un cassetto vicino a lui, e ne estrasse alcuni insignificanti fogli tenuti insieme da una graffetta. “Oh, ecco a lei.” aggiunse poi, porgendoglieli.
“Grazie.”
“Li abbiamo già contattati, li deve chiamare quando vuole e accordarsi per un'intervista. L'articolo mi serve tra due settimane.”
“Certo, va bene.” sussurrò, cercando di trovare un modo con cui congedarsi al più presto possibile.
“Ci vediamo tra due settimane, allora.” disse.
“A tra due settimane, arrivederci.”
Nimhea si alzò e uscì dall'ufficio, voltandogli le spalle e concedendosi finalmente una smorfia di delusione.
Passò davanti alla scrivania della donna che pochi minuti prima le aveva parlato, ma al suo posto vide un'altra ragazza. Il mondo non stava cambiando solo al di fuori di quello studio.
“Io sono Ileana, la nuova segretaria, piacere.” le disse sorridendole con occhi neri come la notte.
“Oh, piacere.” rispose lei. “Devo scappare, ma credo ci vedremo.” aggiunse, prima di voltarsi ed andare. Ripensò al tono di voce agitata dell'anziana signora al telefono: probabilmente aveva associato quell'appuntamento al suo ultimo giorno di lavoro.
Altre aspettative bruciate nel nulla, altre inutili e infime illusioni.
Le sembrava di sentirla, mentre la salutava:
“Addio, ragazza.”
Scivolò fino alla sua bicicletta gialla che adesso non le sembrava avere più niente della luminosità del sole. Un vecchio ammasso di ferraglia gialla.
Non incontrò Antonio, né nessun'altra persona che la potesse far sentire parte integrante di quel mondo che continuava a girare ossessivamente. Ossessione. Lei non voleva che girasse, non voleva che il tempo scorresse e che la sua vita andasse avanti in questo insulso modo. Non voleva camminare, non voleva respirare, non voleva piangere. Non accettava la sofferenza, precludendosi così anche la gioia.
Si gettò nel traffico cittadino, optando per la via più lunga. Aveva bisogno di distrarsi, di vagare cercando consolazione in strade viste di sfuggita in altre circostanze, ma evidentemente il corso degli eventi destinati a svolgersi quel giorno era ben diverso e la ruota anteriore della bicicletta si bucò dopo poco, lasciandola a piedi.
“Favoloso!” disse, pensando velocemente al da farsi. Non poteva legarla su quel marciapiede sconosciuto che forse non avrebbe nemmeno più ritrovato e andare a casa a piedi, ma, portandola con sé, non avrebbe potuto prendere alcun mezzo pubblico. Decise di andare a piedi, sotto gli occhi curiosi della gente. Non era solo una giovane donna delusa che cercava di fuggire dal mondo. Non era neanche una giovane donna delusa che cercava di fuggire dal mondo sulla sua bicicletta gialla. Era una giovane donna che cercava di fuggire dal mondo, cercando di tornare a casa sua, trascinando disperatamente la sua bicicletta lungo i marciapiedi di una Milano affollata.
“Mi scusi, signore, permesso.” disse, mentre un uomo che leggeva un quotidiano, comodamente in mezzo alla strada, non le dava nessun segno d'ascolto, senza lasciarla passare.
“Mi scusi, dovrei passare.” ripeté convinta e, senza aspettare alcuna risposta, lo superò, costringendolo a farsi da parte e urtando il giornale da cui l'altro non azzardava a staccarsi.
“Maleducata!” gridò l'uomo, degnandola finalmente di uno sguardo.
Nimhea si voltò, sorridendogli ironica. La maleducazione era l'ultimo dei suoi problemi, in quel giorno che aveva ormai preso una bruttissima piega. Erano solo le undici del mattino e iniziava ad avere paura di come si sarebbe sentita la notte, a letto, da sola. Con la Luna pronta a sbeffeggiarla e a rinfacciarle quella sua solitudine così lontana dalla visione che ogni uomo ha del mondo. Siamo tutti uniti, e tutti così terribilmente soli. Ma anche la Luna, dall'alto della volta nera, non aveva nessun diritto di osservarla: anche lei era da sola, perché, da che mondo è mondo, nemmeno le stelle sanno essere di compagnia, nella loro silenziosa incomprensibilità che si trascina il passato nel cielo del presente.
Guardò l'uomo e lo vide voltarsi, come se non avesse mai aperto bocca e, in quell'istante, capì una cosa che non aveva mai capito prima d'allora: la gente temeva i suoi occhi, proprio come aveva paura del cielo.

   
 
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