Autore: Tuccin
Titolo:
Love doesn’t just disappear
Fandom: Gossip Girl
Personaggi e Pairing: Chuck Bass ♥ Blair Waldorf
/ Louis Grimaldi, Nate Archibald, Serena Van Der
Woodsen, Lily Humphrey, Dan Humphrey, Dorota
Genere:
Introspettivo, Sentimentale, Romantico
Rating: Giallo
Avvertimenti: Angst, Dark… a tratti
inverosimile, come ogni opera di fantasia che si rispetti.
Note
ed eventuali dell'autore: E’divisa in 8 mini-capitoli,
intitolati ognuna con una quote di Chuck degli episodi 5x06, 5x07, 5x09 (anche
lo stesso titolo che li raccoglie tutti è una quote di Chuck, ipotizzo della
5x11) – le note spoileranti le trovate al fondo della fic. L’inizio è un flashback dell’episodio 3x10, The Last
Days of Disco Stick. Il pacchetto trama che ho scelto è
“Hospital” e anche “Baby” (ho collegato le due cose).
La fan fiction partecipa al contest “Happily ever after” del forum http://chuckblair.forumfree.it/
Introduzione:
Ripensò a quando Chuck le aveva
confessato di aver abbandonato il suo
anello su un freddo e inospitale gradino di fronte al negozio di Harry
Winston. Un’insolita tomba per un così profondo e bruciante amore.
Love doesn’t just disappear
Two
years ago… How could I ever forget?
Più
tardi troverò il modo per renderti la giornata meno noiosa.
Aveva lasciato Central Park con quella promessa,
baciando delicatamente la bocca di Chuck, mentre gli occhi di lui si
illuminavano dissoluti: andava in solluchero per certe allusioni.
Dorota l’aveva guardata,
con il suo viso tondo e lo chignon lucido, increspando le labbra in una piccola
“u” di curiosità: “Miss Blair si sta preparando per un ballo in maschera?” aveva
chiesto confusa la domestica, cercando di non marcare troppo le parole di
accento polacco. Blair si era rimirata allo specchio della sua stanza
voluttuosa, accarezzandosi un boccolo lucido: le scendeva perfetto sull’incavo
del collo e si attorcigliava come un’edera sul copricapo a frange dorate: “No”
aveva risposto laconica, ma piena di malizia, svolazzando l’ampissima gonna in
velluto verde scuro e facendo ondeggiare il drappo di tessuto cangiante che le
copriva la spalla.
“Che volete? Denaro?”
Chuck era entrato in quel momento nella suite dell’Empire, abbandonando con un
gesto deciso la sua ventiquattrore sul divano rosso.
Blair distolse lo
sguardo dal panorama serale di New York, girandosi di scatto verso di lui. Lo
osservò togliersi la giacca blu e slacciarsi i primi tre bottoni della camicia
bianca. Gli sorrise appena, prima di fare qualche passo in avanti, facendo
strusciare l’enorme vestito contro il tavolino di vetro del soggiorno e
appiccicandogli sopra le labbra un paio di baffi finti. Chuck se lo fece fare
trattenendo un sospiro divertito.
“Voglio 300 dollari per
pagare le tasse di Tara!” rispose pronta Blair con enfasi: “Vi ho mentito
quando vi ho detto che le cose andavano bene... vanno nel peggiore dei modi
possibili e voi dovete avere dei milioni!” s’imbronciò teatrale.
“Quali garanzie
offrite?” domandò allora Chuck assumendo il tono più serio e inquisitorio che
poteva.
“I miei orecchini...”
indicò lei, facendo dondolare dei pendenti verde prato che luccicavano vividi
nella penombra.
“Non mi interessano!”
rifiutò staccando lo sguardo dal viso roseo di Blair.
“Un'ipoteca su Tara!” insisté
piegandosi in avanti con slancio, facendo bella mostra di sé.
“Che me ne faccio di
una fattoria?” la derise Chuck con finto sdegno, facendo cadere inevitabilmente
l’occhio nella generosa scollatura del costume: era piacevolmente colpito da
quella modifica, non ricordava che il vestito di Scarlett O’Hara fosse così
succinto.
“Non perderete niente,
vi rimborserò con il raccolto!” continuò lei.
“Non mi va!” ribatté
senza sentire ragioni. Poi, calato completamente nel ruolo, chiese “C'è niente
di meglio?” un ghigno lascivo gli si dipinse sul volto.
Blair si fece scappare
un sorrisino vizioso, mentre cercava di rimanere seria: “Una volta diceste di
amarmi... se mi amate ancora io sono...” lasciò cadere le parole, facendosi
seria e sbattendo le ciglia lunghe e nere.
“Avete dimenticato che
non sono tipo da sposarmi?” domandò retorico, alzando il mento superbo e
presuntuoso.
“No... Non l'ho
dimenticato” rispose mesta Blair, accarezzandosi le pieghe di velluto del
vestito, intrepida di sfiorarlo: quella sera il gioco si stava facendo più
lungo del solito.
“Non valete 300 dollari
e mi ripaghereste solo con delle cattiverie...” continuò lui con naturalezza e
un tono amaro e deluso, ma compiaciuto di poter recitare quella battuta.
“Avanti! Insultatemi,
non mi importa niente, purché mi diate il denaro. Non rinuncio a Tara, dovessi
lottare per lei fino al mio ultimo respiro...” recitò lei tutta a un fiato “Oh
Rhett vi prego, datemi quel denaro...!” lo supplicò avvicinandosi ancora,
sperando che lui cedesse e la attirasse a sé.
“Anche se volessi, non
potrei davvero: i miei fondi sono a Liverpool non ad Atlanta. Se io tentassi di
emettere una tratta, i nordisti ci si butterebbero sopra come… come lupi?” tentò
di spiegare Chuck, slacciandosi i polsini della camicia. Era un po’ insicuro
sulla sua parte, Blair gliela aveva inviata solo quel pomeriggio in una mail.
“E così, mia cara, vi
siete umiliata per niente...!” la canzonò poi, provocandola eccitato.
“Non vi azzardate
canaglia!” Blair si avventò sopra di lui a pugni stretti, battendogli il petto
capricciosa, mentre Chuck cercava di immobilizzarla. Rideva di gusto, invece di
continuare il gioco: averla tra le mani gli aveva fatto perdere la
concentrazione.
Nell’agitazione di quel
contatto, si lasciarono cadere sul divano: “Sapevate quello che volevo prima
che lo chiedessi!” lo accusò lei scalpitando per liberarsi, continuando a
recitare le sue battute, ma al contrario del film, il suo tono era suadente e
vellutato.
Chuck, gettatosi sulla
bocca rossa di Blair, aveva dimenticato cosa dire. Era distratto dalla
pesantezza della gonna che gli ostacolava i movimenti ed era oltremodo bramoso
di sfiorarle le gambe nude. Gli era impossibile a volte riuscire a baciarla
senza foga, non quando erano soli. In pubblico ormai sapevano trattenersi, ma
mantenere quel comportamento stoico gli era sempre difficile. “E che cosa
vuoi…?” chiese deciso tra i sospiri, vedendo gli occhi di lei socchiudersi e
roteare all’indietro.
Blair sembrava essere
entrata in un’altra dimensione: era estasiata e priva di qualsiasi rigidità. Sul
seno scoperto aveva un lieve rossore e sul collo la pelle d’oca. I suoi
adorabili sospiri e la mossa veloce delle sue mani, che slacciavano prontamente
i pantaloni di Chuck, erano l’unica prova che non aveva del tutto perso i
sensi.
“Blair…?” la chiamò lui
ancora, pretendendo una risposta.
Lei aprì gli occhi
guardandolo languidamente: “Voglio te, ogni parte di te”.
I’m
sorry for losing my temper the night you told me Louis proposed to you.
Aveva gridato, stretto
i pugni, scalpitato impaziente e rotto qualsiasi vetro intorno a lei: stando
ferma. Non riusciva a muoversi né a respirare. Intorno vedeva solo pareti corrose
dalla muffa, pavimenti polverosi e specchi smerigliati in cui migliaia di occhi
la fissavano giudicanti. Poi un profumo di fiori, quello della santità, le fece
aprire le palpebre arrossate.
La stanza ovattata, nella
quale era prigioniera, sembrava quotidianamente frequentata da qualcuno: c’era un
giornale appoggiato con non curanza sul tavolino, un maglioncino Polo Ralph
Lauren grigio - abbandonato su una poltrona di pelle marrone - un porta
pastiglie in argento con un blasone impresso e un pettine sottile di tartaruga.
Qualcuno vegliava su di lei in modo silenzioso, ossessivo e opprimente. Tutto
era intriso di un odore pungente, quello del legno di pino.
Bussarono alla porta:
dei riccioli scuri, deliziosamente scompigliati dal freddo, fecero capolino.
Dan, a mani vuote, vestito con una camicia a quadri dai toni melanzana,
chiedeva il permesso di entrare.
Blair lo guardò
abbozzando un sorriso stropicciato: “Portami lì”.
Il vetro della terapia
intensiva, che la separava crudelmente da Chuck, rifletteva il suo viso stanco
e struccato. I boccoli afflosciati si allungavano mestamente sul camice
d’ospedale azzurro avio, che le cadeva addosso senza forma, fino a gonfiarsi
appena all’altezza del ventre. Pensò che quel colore non le donasse per nulla e
rifletté su quanto i suoi occhi fossero grandi e espressivi. Aveva pianto talmente
tanto che credeva si sarebbero sciolti insieme alle lacrime, invece erano ancora
lì, a dare vita al suo viso, spauriti e quasi deliranti per lo shock subito. Un
suono, proveniente da un macchinario bianco sporco che teneva in vita Chuck, si
sentiva attutito, monotono e subliminale. Un cuore digitale verde lampeggiava
senza sosta. A un tratto, le sembrò di vedere un movimento impercettibile: la mano
di Chuck, forte e robusta, sembrava riprendere vita e scivolare sul lenzuolo.
Blair incredula e piena di speranza, forzò la maniglia della porta per entrare
all’interno, ma un’ombra dorata la tenne per le spalle, mentre si agitava
convulsamente. Serena le parlò all’orecchio: “Blair calmati”.
“Sta per svegliarsi,
l’ho visto” sibilò sgranando gli occhi. L’amica scosse la chioma bionda
debolmente, senza smettere di stringerla.
I’m
sorry for not waiting longer at the Empire State Building.
Blair, seduta sul suo letto d’ospedale, fissava assente il diamante
giallo che Louis le aveva messo al dito. Ripensò a quando Chuck le aveva
confessato di aver abbandonato il suo
anello su un freddo e inospitale gradino di fronte al negozio di Harry Winston.
Un’insolita tomba per un così profondo e bruciante amore. Quella notizia
l’aveva sconvolta a tal punto da indurla riconsiderare la sua scelta di
sposarsi. Aveva desiderato persino il sapore dolciastro di una torta scenderle
giù per la gola, così era tornata a casa ad assaggiare le creazioni di Sylvia
Weinstock. Al contrario però di quando
era un’adolescente, avrebbe dovuto tenere tutto in gola, senza rigettare nulla.
Ora che era una giovane donna, non poteva permettersi alcuna debolezza.
Mai si era resa conto, come in quel momento, di ciò che stava per fare:
il matrimonio con Louis era il sogno di una bambina capricciosa che ha tutto
dalla vita, non ciò che voleva realmente. Aveva pensato, pretenziosamente, che
Chuck non avrebbe mai restituito il diamante, il suo vero anello di fidanzamento, conservandolo per sempre. Sarebbe
stato al gioco, senza arrendersi mai. Per sempre Blair avrebbe avuto la
possibilità di tornare da lui e di farsi scivolare al dito quella luce bianca ed
era altrettanto sicura che avrebbe potuto finalmente ascoltare l’agognata
proposta, al sapore di aria fredda e di peonie. Il loro bacio mancato,
sull’Empire State Building, si materializzava nella sua mente, tormentandola.
Continuava a fantasticarci sopra, come se il solo immaginarlo, avrebbe fatto in
modo che si realizzasse.
Poi un medico, in camice bianco, entrò nella sua stanza, accompagnato
dallo sciabordio nauseante di un plico di carte: “Miss Waldorf” esordì monotono
“Il feto non è morto durante l’impatto, abbiamo ancora battito”. Blair
istintivamente si portò la mano sul ventre “Consigliamo comunque un raschiamento, le
condizioni sono veramente critiche…”.
Blair inorridita sussurrò: “E se io volessi tentare, voglio dire, se noi…”
tentò farfugliando “Sono sicura che se lei mi lasciasse parlare con il padre,
non lo permetterebbe mai”. Quando le sue labbra color sabbia pronunciarono la
parola “padre”, si sentì incredibilmente confusa: sapeva che il bambino era di
Louis, ma le sembrava più giusto prendere quella decisione insieme a Chuck, lui
le aveva detto che avrebbe amato suo figlio quanto amava lei, e mai avrebbe
voluto escluderlo da una decisione di quel peso. Avrebbe voluto aspettare che
Chuck si risvegliasse e in quell’attimo pregò che il bambino vivesse almeno
fino a quel momento.
Il medico alzò gli occhi dalla cartella clinica guardandola fissa:
“Rischia la salute se non si sottopone ad alcuna operazione, lei è già molto
debole” poi, scarabocchiando svogliatamente sull’angolino di un foglio
concesse: “Ha qualche ora per pensarci”.
I’m
sorry for treating you like property.
Louis aveva appreso la notizia delle condizioni preoccupanti del bambino
con un’espressione acida e contrita. Era oltremodo oltraggiato da ciò che era
successo: se solo Blair non fosse fuggita su quella limousine con Chuck, ora
suo figlio non sarebbe stato in pericolo di vita. Accarezzò bonariamente la
fronte di Blair, togliendole un ciuffo sfibrato che le era caduto davanti agli
occhi e che aveva coperto parte della grossa ferita, rossa e secca. Quel segno rovinava
la sua bellezza.
Blair si faceva stringere fragile tra le sue braccia senza dire più delle
parole necessarie. Gli sembrava una bambola senza vita: aveva il viso bianco e
gli occhi vuoti. Ormai era sua, non sapeva come agire, l’unica cosa che non lo
faceva abbandonare tutto era il figlio che stava crescendo dentro di lei. Non
si fidava di Blair e il dubbio che potesse non esserne il padre continuava a
tormentarlo, ma non aveva il coraggio di ordinare altre analisi e, nella sua
memoria, credeva di conservare il ricordo della notte in cui dovevano averlo
concepito.
“Il lavoro di una principessa è di dare un erede al trono” aveva detto con un sorriso tirato, facendo
della triste ironia e accettando codardamente che portasse avanti la gravidanza
senza interruzioni.
Blair alzò la testa dalla sua spalla per guardarlo negli occhi, avrebbe
voluto dirgli che non lo amava e che non avrebbe voluto sposarlo, ma un nodo in
gola le impediva qualsiasi ragionamento. In cuor suo sapeva di non aver adempiuto
il suo compito più importante: se fosse stata una favola, che parlava davvero
di Re e Regine, lei avrebbe dovuto proteggere il suo vero Re, invece di
gettarlo nel buio. Quella favola invece era complicata: il suo Re continuava a
vegetare, mentre il figlio di un Principe di un paese straniero continuava a
crescere dentro di lei, invadendola e violandola, come nessuno mai aveva fatto.
I’m
sorry I didn’t tell you I loved you when I knew I did.
Gli occhi di Chuck erano ancora serrati e la bocca ancora chiusa. Non un
suono, non un movimento, ed era colpa sua, non poteva che biasimare se stessa.
Blair era sempre stata
falsa e bugiarda, ma questi banali e accusatori appellativi non le erano mai
piaciuti, preferiva dire che si riservava di trasformare, in modo creativo, la
realtà delle cose a suo esclusivo beneficio. La virtù della menzogna le era sempre stata utile per negare la verità
dei suoi sentimenti, per rimanere l’algida regina calcolatrice che gli altri
vedevano in lei. A Chuck aveva mentito così tante volte che era impossibile
contarle. L’aveva ingannato senza pietà dicendogli insensibilmente che non lo
amava più e che lo odiava, ma il pensiero di doverlo rifare, per il suo bene,
l’aveva resa intrattabile e malinconica.
Quando finalmente le fu
possibile entrare nella stanza della terapia intensiva, Blair non si permise di
dire nulla né di sfiorare la mano di Chuck neanche una volta. Non importava che
le dicessero che poteva farlo perché lo aiutava a sentirsi meno solo e perché avrebbe
avvertito l’affetto e il calore dei cari. Blair era decisa a non lasciarsi
andare a nessun momento di debolezza, non l’avrebbe mai più messo in pericolo
di vita, né fatto soffrire. Non l’avrebbe più ucciso, non di nuovo. Doveva
concentrarsi sul suo matrimonio, sul suo futuro marito, anche se le sembrava
impossibile.
Lily, al contrario, prendeva
alla lettera tutte le indicazioni dei medici: usava accarezzare il viso Chuck
con la sua mano snella e curatissima: le unghie, laccate di un classico rosso,
illuminavano la mascella pallida e ben rasata. Blair osservava tristemente la
scena con gli occhi velati di pianto e il broncio di pietra.
Most
of all, I’m sorry I gave up on us. And you never did.
Blair odiava litigare con Louis. Le
labbra sottili di lui si piegavano all’ingiù piene di superbia. Quella voce
francese le stonava nelle orecchie insopportabilmente e quegli occhi verdi si
animavano di una luce diabolica che sapeva solo irritarla, anziché incuterle
timore.
“Non ho alcuna ragione
per restare” stava gracchiando il principe, prendendo la giacca piegata e
appoggiandosela sul braccio.
Blair lo guardò con il
respiro bloccato. La stanza d’ospedale, bianca e opalescente, le girava attorno
lentamente con un moto fastidioso e nauseante. L’erede al trono non c’era più e
il suo principe, tutt’altro che azzurro, l’aveva accusata di esserne l’unica
responsabile. Testardamente le era stato impossibile rimanere immobile a letto,
nonostante le indicazioni dei medici e, come una Medea infanticida, aveva
scoperto quanto non volesse che il bambino la separasse da Chuck. Per nessun
motivo al mondo avrebbe rinunciato a fargli visita o a pregare un Dio, di cui
ignorava l’esistenza, perché si salvasse. Così aveva vegliato Chuck, in ogni
momento che poteva, senza pensare a nient’altro, a nessun altro. Si trovava a
fissare imbambolata il taglio orientale dei suoi occhi, le sopracciglia
importanti e la mascella squadrata, sperando che si illuminassero ancora.
“Forse maman non esagerava quando diceva che in
famiglia non avevamo bisogno di un altro bass-tardo” azzardò Louis
vittimizzandosi.
Blair, ferita da quelle
parole, si ricordò di quella notte in si era preoccupata personalmente di
raccogliere un campione per il test di paternità, come le aveva indicato il
Dott. Crane. Si era avvicinata come un’assassina alla testa di Louis, che
dormiva supino, con delle inquietanti forbici da cucito, e gli aveva tagliato
un ciuffetto di capelli castani. In preda al panico aveva sperato che la
mattina dopo il principe e il suo figarò, che gli regolava il taglio
settimanalmente, non si accorgessero di nulla. Per lei, il figlio che aveva
portato in grembo tutti quei mesi, era indubbiamente di Louis: quel test aveva
deciso tutta la sua vita.
“Era tuo Louis, hai
letto tu stesso il test di paternità” sputò sempre più risentita.
Il principe la guadò
torvo: “Come posso fidarmi di te?” domandò retorico guardando verso l’alto
“L’UES è veleno” concluse a denti stetti. Poi uscì, esitando al ricordo della
Blair che aveva conosciuto a Parigi. Gli era sembrata una creatura surreale: i
suoi capelli avevano la sfumatura perfetta per contrastare con il verde del
quadro di Manet, il suo sguardo era vispo, ma attento e trasognato, le sue gambe
erano eleganti ma allo stesso tempo tonde ed energiche. Il viso, dai lineamenti
dolci, stava montato su un collo bianco come la cosa più bella e desiderabile
al mondo. Si era poi invaghito perdutamente di lei, quando gli aveva lanciato,
seducente, uno sguardo tra i cristalli trasparenti del Baccarat. Di quella Blair
però non rimaneva più nulla.
Your
love kept me alive.
Quando Chuck aprì gli
occhi era solo. Una luce fortissima gli punse gli occhi, creandogli illusori
buchi neri. Non era la prima volta che si risvegliava frastornato, senza sapere
dove fosse. Quel pomeriggio però l’intontimento e il senso di disorientamento
che provava, doveva essere dovuto a qualche sostanza legale. Si sentiva
imbottito di farmaci, con lo stomaco vuoto e il corpo indebolito. Piano piano
cominciò a realizzare ciò che era successo, come aveva fatto a Praga: era
sopravvissuto di nuovo.
Quando Nate, Serena e
Lily entrarono nella stanza, le infermiere l’avevano fatto sedere sul lettino.
Era ansioso di vedere Blair: la preoccupazione lo sopraffaceva facilmente,
aveva il terrore di sapere come stava. Poi, dietro le spalle larghe di Nate,
vide l’ombra scura dei suoi capelli. Blair, timidamente e a mani giunte, lo
guardava con gli occhi sbarrati e la bocca socchiusa. Si guardarono fissi per
qualche secondo: Chuck avrebbe voluto che lei facesse un passo avanti, invece
stava lì, a debita distanza, come se avesse paura. L’intensità di quello scambio
di sguardi, gli impedì di continuare a rassicurare tutti che stava bene. Forse
non sarebbe mai più stato bene in vita sua. Dopo che i ricordi gli si
addensarono nella mente più chiaramente, si rese conto che, ciò che era
successo, avrebbe allontanato Blair, invece di avvicinarla a lui. Forse si era
già sposata con il principe e a lui non era stato detto nulla, l’espressione
vaga di Nate non prometteva nulla di buono.
Dopo qualche tempo lo
dimisero dall’ospedale. Un sorriso involontario, che non sentiva suo, gli si
stampò sul volto: finalmente avrebbe potuto muoversi con le sue gambe e
indossare un abito dal tessuto pregiato che non gli pizzicasse la pelle. Con
energia, spinse la porta a vetro azzurrata dell’uscita. Alle sue spalle Lily
sopraggiunse sfiorandogli il braccio, per poi baciarlo sulla guancia, in segno
di saluto. Gli indicò la limousine, mentre il fidato Arthur si occupava dei
suoi effetti personali. Stava per salire sull’auto quando, lanciando un ultimo
sguardo alla strada, vide la sua Blair
stretta in un cappotto di panno. In bianco come una sposa. Aveva le mani
affondate nelle tasche e i boccoli illuminati da una luce color mogano. L’aria
di New York era così fredda e lei così delicata che Chuck non esitò un istante:
allungò la sua grande mano in segno d’invito e Blair, con una leggera corsetta,
gli si avvicinò afferrandogliela subito.
You were the lightest thing that ever came into my
life.
Per tutto il tragitto
in limousine rimasero in silenzio. Blair lo guardava incredula, come se fosse eternamente
grata di vederlo vivo. Pensava che, se solo lui non fosse stato di un materiale
così fragile, lei si sarebbe sentita più tranquilla. Non era pronta a perdere
nessun altro. Anche se il suo abbigliamento da uomo potente, con il nodo
Windsor ben stretto, faceva pensare a Chuck come a un essere invincibile, lei
sapeva quanto debole poteva apparire, soprattutto mentre si lasciava andare a
un morbido abbraccio. L’andamento dell’auto le faceva provare uno strano senso
di nausea, come se l’abitacolo oscillasse tra le onde, così stava infagottata
nel suo cappotto lungo, con i pugni stretti e coperti da guanti di pelle rosa.
Quando entrarono nella
suite, Chuck si slacciò piano il soprabito, senza smettere di fissarla in
silenzio. Provava una brutta sensazione, come se Blair dovesse sfoderare da un
momento all’altro la sua fede nuziale. Lei invece, varcando la soglia, ritornò
indietro con la mente al momento in cui aveva dovuto confessare di aspettare il
figlio di Louis. Quel bambino che aveva perso, senza mai più ritrovare. Si
ricreò quell’effetto di stordimento e quasi di paura al pensiero di dover fare
la confessione contraria: le luci deboli e aranciate rendevano l’atmosfera cupa
e l’aria tossica. I colori scuri dell’arredamento - spruzzati di rosso -
mettevano in guardia chiunque entrasse in quell’ambiente. Il cuore di Chuck era
chiuso in quella fortezza. Lo poteva capire dalla sua espressione seria e tesa.
Blair, quella volta, si
era sentita quasi soffocare alla vista dei mobili spigolosi, dei materiali
bronzei e freddi, e dei quadri dalle figure nebbiose e stranianti. Aveva soffermato
lo sguardo su un costoso tappeto dai baffi color panna e le era stato impossibile
immaginare suo figlio gattonarci sopra, perché, per quanto sembrasse morbido,
non le era parso adatto ai giochi di un bambino. Ora che quel figlio, che Chuck
sembrava sentire suo, non c’era più, tutti quei pensieri si rivelarono sciocchi
e puerili. Piano piano si slacciò anche lei il cappotto, togliendosi i guanti e
abbandonando tutto sul divano rosso. Si mostrò con un abito color perla, pieno
di trine che brillavano, ma si sentiva inutile e sterile, quasi nuda, indifesa
e senza nulla da dare. Le labbra le tramavano al pensiero di dover dire anche
solo una parola.
Chuck l’aveva osservata
con estrema attenzione finché non capì. Con tre lunghi passi si avvicinò
ansioso, accarezzandole la pancia piatta con disperazione, prima di incrociare
gli occhi già lucidi di Blair. Sotto le sue dita, non c’era ombra di
quell’adorabile gonfiore che si aspettava di trovare e che aveva scelto di
amare. L’afferrò prontamente, come a sostenerla, annusando avido i suoi
capelli, mentre la sentiva singhiozzare che le dispiaceva. La parola scusa, pronunciata all’infinito
all’orecchio arrossato di lui, diventò il sottofondo di migliaia di congetture
che si crearono a rete nella mente di Chuck.
“L’ho perso” ammise poi
Blair deglutendo.
Chuck la strinse
ancora: “Non è colpa tua”.
Lei si divincolò
dall’abbraccio, guardandolo con gli zigomi arrossati e umidi: “Non so cosa fare
ora per riparare” si crucciò invano sentendosi mortificata “Louis dice…”
“Cosa dice Louis?”
ruggì lui interrompendola impaziente e infastidito dal dover sentire ancora il
nome del principe.
“Che il bambino che ho
perso poteva essere tuo, io volevo che fosse tuo, ma il test… il maledetto test, ammesso che nessuno l’abbia
manomesso, diceva che era suo…”
farfugliò tra i singhiozzi “Non ho il coraggio di indagare ancora”
“Neanche io” concluse
Chuck, lisciandole possessivamente il viso e i capelli, senza smettere di
tenerla per la vita a contatto con il suo corpo.
“Il bambino non c’è
più. Sapere se era nostro non
cambierà le cose” realizzò Blair disperata, riuscendo però a calmarsi un
pochino. Oramai era rassegnata: avrebbe sofferto ancora, e chissà per quanto
tempo, per quel vuoto che sentiva e che Chuck, per fortuna, riempiva con le sue
braccia vigorose e il suo calore quasi febbrile.
Lui la cullava in
silenzio, meditando una soluzione. Si sentiva incredibilmente vivo e forte,
quasi onnipotente, con Blair che si abbandonava a lui, completamente sua,
finalmente sua.
“Il nostro amore c’è ancora” le disse Chuck dopo
qualche istante “Possiamo farne uno nostro,
che sia solo nostro…” azzardò,
rischiando di apparire cinico, ma deciso a fare il possibile perché fosse
felice e per ridarle la speranza sembrava aver perso.
Lei aprì la bocca
sorpresa, sbattendo le ciglia velocemente. Poi gli diede un bacio lento, per
suggellare quel patto, e rispose prontamente: “Sì”.
***
Note:
Nel primo capitolo il dialogo tra Chuck e Blair è tratto dal film “Via Col
Vento”, del 1939 scritto da Sidney Howard.