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Autore: Sylence Hill    09/01/2012    1 recensioni
Londra, 1835
Rachel Williams è un topo di biblioteca, sempre china con il naso infilato tra i libri. Ragazza di buona famiglia, con un padre fatto da sé e una madre che insiste sul matrimonio, ha un cuore buono e gentile, che ama incondizionatamente.
Ma è anche caparbia e testarda, che vuole affermare a quel mondo che tiene conto solo le apparenze che una donna può essere più che una semplice decorazione per la casa del futuro marito.
Non ha fatto i conti, però, con quello che il destino - al quale non crede - ha deciso per lei. 
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Genere: Romantico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Sy Hill:Incomincio dicendo grazie a tutti quelli che hanno letto questa mia introduzione. Spero che mi darete presto una vostra opinione.
Questo è il ptimo capitolo.
Ringrazio CINO NERO, CLITEMNESTRA_NATALJA, ONCEPONEADREAMS e PRETTY VITO per star seguendo la mia storia.
LEGGETE E RECENSITE,
Baci,

Sy Hill <3<3<3<3







Rintanata nella mia biblioteca, stavo leggendo un libro appena uscito dalla casa editrice di mio padre, fresco di stampa, di un certo S.R. Fielding. Non si sapeva se fosse uomo o donna, mio padre non aveva mai voluto dirmelo, ma, leggendo quello che scriveva, avevo l’impressione che solo una mano femminile potesse esprimere così pienamente i sentimenti della protagonista.
Proprio quando ero arrivata ad una scena culminante, in cui la protagonista doveva decidere se continuare a vivere una vita tormentata o risparmiarsi sofferenze, buttandosi dal London Bridge, fece irruzione mia madre, facendomi sobbalzare talmente tanto da farmi cadere il libro di mano.
« Tesoro! Che cosa fai ancora qui? Devi prepararti per la visita da Madama Rosette. »
Sospirando raccolsi il libro da terra, costatando irritata che alcune pagine si erano piegate, e riportai lo sguardo su quella bellezza bionda che era mia madre.
Eccola la versione femminile di mio fratello.
L’incarnato pallido, i capelli talmente biondi da sembrare bianchi e occhi azzurri come il cielo ad agosto.
L’abito di una tonalità dorata, che faceva spiccare la lucentezza perlacea della pelle, fasciava un fisico ben modellato e dalle forme armoniose.
Eh, sì. Peccato non aver preso da lei le mie qualità.
In quel momento, era sul piede di guerra: con le mani sui fianchi e lo sguardo determinato poteva competere con un generale che dava ordini alle truppe.
« Allora, signorinella? Cosa stai aspettando? » mi domando, tamburellando le dita sul vestito. « Marnie ti sta aspettando in camera tua da mezz’ora, ormai, con il vestito pronto per essere indossato. »
Ormai rassegnata ad un’altra discussione, posai il libro sul tavolino davanti a me e mi alzai dall’alcova in cui mi ero rannicchiata.
« Mamma, perché devo andare alla ballo organizzato dalle Gemelle Odiose? » mi lamentai, incrociando le braccia al petto. « Ogni volta che mi presento, non perdono neanche un’occasione per criticare ogni cosa che faccio o dico, oppure quello che indosso o come lo indosso. »
Mamma scosse la testa. « Prima di tutto, non chiamare le signorine Amanda e Marianne in quel modo. » mi rimproverò, agitandomi un dito sotto il naso. « Devi andare al ballo perché la loro madre, Lady Lucrezia, mi ha espressamente invitato e sarebbe maleducato non presentarsi. Inoltre, » aggiunse prima che potessi intervenire. « Al ballo, saranno presenti anche ottimo partiti. Ho sentito dire che sono stati invitati quasi tutti gli scapoli presenti a Londra. Sarà un’occasione per fare conoscenza e per attirare l’attenzione di un qualche buon pretendente. »
Oh, no,pensai mestamente, facendo una smorfia. Ancora con questa storia.
« Ormai, hai quasi ventun anni. Se continui a rimanere chiusa qui dentro, in mezza a libri polverosi, diventerai una… zitella. »
La parola le uscì a fatica, in un tono schifato, come se fosse una medicina disgustosamente amara.
Ovviamente, mamanaveva ragione. Alla mia età, molte signorine di buona famiglia avevano già trovato almeno un pretendente o erano in procinto di sposarsi.
Certo, anche io volevo sposarmi e mettere su famiglia. Adoravo i bambini, prova ne era il tempo che passavo con mio fratello nella nursery, quando non era impegnato con le lezioni.
Ma, in quel momento, non avevo voglia di consegnare la mia vita nelle mani di un uomo, soprattutto con la mentalità di quell’epoca.
Gli uomini pensavano che le donne servissero solo a controllare l’andamento della casa, organizzare balli e partorire il loro primo genito, rigorosamente maschio.
Se sbagliavano una delle tre mansioni, non erano delle buone moglie.
In più dovevano avere una dote consistente, in modo da permettere a qualsivoglia cacciatore di dote o scansafatiche di nobile famiglia di vivere la bella vita senza muovere un dito.
Agli uomini non importava che la donna fosse intelligente. A loro interessava solo che avessero un bell’aspetto e una cospicua eredità.
Beh, io non ero di quell’opinione.
Di certo non ero una bellezza, mi piacevano i libri e sapevo far di conto. Ogni giorno leggevo il quotidiano di papà, tenevo un registro in cui erano segnati tutti i libri che avevo – lo so, era alquanto preoccupante, ma era solo per passare il tempo quando non c’era niente da fare, inoltre mi piace compilare le liste – e spesso aiutavo il signor Binbley, l’assistente di mio padre, a catalogare i carichi che arrivavano con le sue navi.
Non avevo voglia di sposarmi e, soprattutto, non volevo passare una serata tra critiche e figli di nobili che aspettavano solo l’occasione più propizia per rubare un bacio.
« Ti prego, maman. » la supplicai.
Lei si spostò e indicò la porta.
Sospirai, incassando la testa tra le spalle, ammettendo la mia sconfitta.
Feci per avviarmi verso l’uscita, per poi scappare da qualche altra parte, ma la mamma mi prese a braccetto e mi condusse fuori dalla biblioteca.
La nostra casa era molto grande, con tutti ninnoli e decorazioni che papà aveva portato dai suoi viaggi, come il sombrero messicano appeso fuori la porta del suo studio, giusto di fronte alla biblioteca.
Attraversammo il corridoio,  posto affianco dello studio, munito di finestre alte ed ampie, come piacevano a maman, e tanti quadri quanti erano gli artisti più in voga del momento, e arrivammo all’atrio, dove una scala dai lati incurvati all’interno portava al piano superiore, dove erano situate le camere da letto nostre e quelle per gli ospiti.
Caterina, una cameriera italiana, componente della nostra famiglia da ormai tempi immemori, era intenta a spolverare il già lucido specchio, posto poco distante dall’entrata principale.. Mamma aveva insistito per quella posizione perché, ogni volta che papà tornava a casa, aveva sempre un aspetto trasandato, e voleva che, qualora fossero stati presenti degli ospiti, avrebbe avuto la possibilità di potersi dare una sistemata.
« Caterina, » chiamò mia madre.
« Ditemi, milady. » disse umilmente la donna, lasciando il suo compito, aggiustandosi il grembiule immacolato.
« Mio marito è già rientrato? »
La donna scosse la testa. « No, signora, mi dispiace. Credo che avesse detto di avere un ospite quest’oggi all’editoria e che non sarebbe tornato prima di cena. »
Mamansbuffò, alando gli occhi al cielo. « Non so come gli piaccia star chiuso in quello studio pieno di carte e inchiostro. »
Il tono con cui lo disse – così pieno di amore e scherzoso fastidio – smorzò l’effetto della frase.
« Ditegli, quando arriva, che ho portato mia figlia dalla sarta. »
Canterina chinò il capo e sorrise. « Certo, signora. » Si voltò verso me. « Di sicuro sapere la più bella alla festa di questa sera. »
Caterina, che era come una nonna per me, era dello stesso pensiero della mamma. Voleva che mi sposassi e riempissi la casa di bambini con cui avrebbe potuto giocare e considerarli dei nipotini, visto che non ne aveva di suoi. L’unica figlia che aveva era morta di febbre a solo un anno dalla nascita e, non essendo mai stata sposata, non aveva neanche un marito su cui contare.
« Potresti chiamare Robert e digli di portare la carrozza, per favore? » chiese ancora maman. « Oh, digli di mettere un mattone caldo. Sono sicura che ci geleremo nel tragitto fino alla sartoria di Madame Rosette. »
« Vado subito. » rispose la donna e scomparve nella porta del sottoscala, che conduceva alla cucina e alle camere della servitù.
La mamma si girò verso me, facendo ondeggiare le sue gonne.
« Tu vai subito in camera tua a cambiarti. Dieci minuti, non uno di più. » ordinò.
Di mala voglia, salii le scale per andare in camera mia, trascinando i piedi, come faceva Julian quando veniva spedito in camera alle feste indette da mamma.
Ora che mi viene in mente…
« Maman. » chiamai, proprio mentre varcava la soglia del salottino azzurro.
« Cosa c’è, cara? Non vorrai lamentarti per qualcos’altro, spero. »
M’imbronciai. « No. Volevo dirti se possiamo portare anche Julian con noi. Visto che dobbiamo uscire, per l’orario in cui ci sbrigheremo dalla sarta, la bottega del signor Bradfell avrà già aperto e potremmo ritirare la barca che papà ha ordinato. »
« Buona idea. »
« Vado a chiamarlo. »
Mi girai e svoltai verso sinistra in direzione della nursery.
« No. »
Senza che me ne accorgessi, mamma aveva salito le scale e mi aveva afferrato un braccio.
Quanto è veloce!
« Vado a chiamarlo io, tufila a cambiarti il vestito. »
Alzando gli occhi al cielo, presi la direzione opposta e andai in camera mia.
La mia stanza era come un rifugio da quello che c’era fuori, un luogo in cui non c’era feste e balli, dove non c’era l’opprimente prospettiva del matrimonio, dove potevo essere tutto quello che volevo. Lì, potevo passare il tempo, dedicandomi a quella che era la mia passione più grande.
Mernie, la mia cameriera personale, aspettava composta accanto alla mia toeletta. Era una ragazza di due anni più grande di me, con folti capelli rosso tiziano e due grandi occhi castani. Era molto alta e sapeva fare pettinature invidiate da molte donne, ogni volta che acconciava i capelli della mamma.
« Che vestito di ha chiesto di preparare, la mamma? » le domandai appena entri.
Lei si mosse a disagio. « Quello giallo pallido, signorina. »
Feci una smorfia. Il giallo era il colore che odiavo più di tutti: per me era una brutta copia della luce del sole.
Stringendo i denti, chiesi a Mernie di aiutarmi a togliermi quello rosa pallido che avevo indosso.
Nel giro di un quarto d’ora ero pronta per andare, munita di guanti di velluto e capellino di lana.
Quando scesi dabbasso, la mamma e Julian stavano indossando i soprabiti.
La prima, appena mi vide, dichiarò: « Con quel colore sei decisamente incantevole. », ma bastò guardare la smorfia del mio fratellino per capire che non era vero.
Inaspettatamente, Julian aveva uno spiccato senso per l’accostamento dei colori e ogni volta che mi capitava d’indossare qualcosa che non era adatto alla mia persona – vuoi per il colore, vuoi per il modello – Julian era il primo che lo faceva notare. E, se lui la pensava così, allora anche la sarta avrebbe avuto la stessa opinione – fatto accuratamente verificato e risultato positivo.
Indossai il mantello di lana e, insieme, uscimmo di casa.
Un folata di vento gelido ci investì. Il tempo era peggiorato da quella mattina.
Facemmo una corsa – dovutamente composta per le gentildonne – alla carrozza e ci chiudemmo dentro, appoggiando i piedi sul mattone caldo in mezzo ai sedili.
Julian trovò riparo sotto il mio mantello e si appoggiò al mio fianco.
La mamma, composta come sempre, non diede alcun segno di quel disagio e mi rimproverò per il modo in cui sibilavo dal freddo.
Nel tragitto, chiacchierammo amabilmente di quello che era successo nelle nostre rispettive mattinate, finché il vetturino non si fermò in Bruton Street
La boutique di Madame Rosette era la più rinomata tra quelle del quartiere degli acquisti. Conosceva ogni moda da quella inglese a quella francese fino a quella italiana.
Quando entrammo nel negozio, era intenta a venire fuori viva da una montagna di stoffe di colori diversi, borbottando in francese.
« Buon pomeriggio, Madame Rosette. » salutò maman.
La donna alzò di scatto la testa e le sorrise.
« Oh, bon après-midi, madame. Come state? » chiese con un forte accento francese.
« Infreddolite, Madame Rosette. » asserì l’altra, togliendosi di dosso il pesante mantello di lana.
« Oh, mon Dieu! Qui, venite qui, MadameWilliams. »
Scostò il separé cinese, conducendoci nello spazio retrostante, in cui c’era un tavolino rotondo e quattro sedie miracolosamente salve dalla lava di vestiti.
« Camille, s’il te plais, est-ce que tu port un peu de thé? » chiese la donna alla sua aiutante, che sparì dalla porta alle sue spalle.
Nel mentre mia madre si sedeva sulla sedia imbottita, io controllavo mio fratello. Quando capitava – come quella volta – che veniva con noi all’atelier, gironzolava tra le varie parti della stanza divise dai separécinesi, guardando i vari modelli di vestiti e facendo una smorfia quando ne trovava uno che no trovava bello secondo i suoi canoni – che quasi certamente erano uguali a quella della sarta.
Camille ritornò nel piccolo salotto con un mano un vassoio e un piatto di biscotti al cioccolato.
« Julian, vuoi dei biscotti? » gli chiesi.
Lui continuò a guardare un vestito un forte color arancio,modello romano a vita alta e pesantemente addobbato, come un albero di Natale, con lustrini e fiocchetti, con un’espressione talmente disgustata da farmi temere che potesse rigettare la merenda che aveva mangiato.
« Fratellino? »
Si voltò lentamente verso me, la fronte così corrugata da sembrare Caterina quando è arrabbiata.
« Vuoi dei biscotti? » chiesi, reprimendo una risata.
Allora, la frase giunta a destinazione, fece nascere un sorriso delizioso sul suo faccino di luna. Annuì freneticamente.
« Allora va’ dalla maman. »
Rimasta sola dietro al separé, cominciai a guardarmi intorno con soggezione, mi sembrava che gli abiti si sollevassero e volessero coprirmi fino a soffocarmi.
Che fosse una nuova fobia? Modafobia?
Girai la testa e guardai verso la vetrina.
Sta nevicando!
Avevo tanta voglia di uscire fuori e lasciarmi scivolare sulla lingua un fiocco gelato. Non era comportamento di una signorina a modo, ma tanto a quell’ora in mezzo alla strada non c’era quasi nessuno.
Buttai un occhio verso mia madre, intenta in una fitta conversazione con Madame Rosette e mio fratello era troppo assorbito dai biscotti per guardarmi.
A passo felpato, uscii fuori. Un turbine di neve mi vorticò intorno, facendomi sorridere.
Scrutai la strada in tutte le direzioni e, accertatomi che fosse deserta, reclinai la testa indietro e aprii la bocca.
Quando il primo fiocco di neve toccò la mia lingua, chiusi la bocca e assaporai quel piccolo granello di polvere stellare. Chiusi le mani a coppa per raccoglierne quanti più potevo, anche se si scioglievano a contatto con i guanti caldi.
Londra era così bella e magica quando nevica, tutto si tingeva di bianco e azzurro; le risate dei bambini che giocavano a tirarsi le palle di neve riempiva l’aria frizzante e fredda; in occasione delle nevicate invernali, quelle davvero glaciali, era bello rintanarsi in casa davanti ad un camino, bevendo del sidro caldo o un bicchiere di latte, con un buon libro o in compagnia della tua famiglia.
Quando la mamma organizzava una rimpatriata, non dimenticava mai nessuno e la nostra casa si riempiva di così tante persone che era impossibile contarle, soprattutto con i recenti matrimoni delle mie cugine Lucinda e Amelia.
Lungo la strada sentii una campanella suonare e delle voci parlare velocemente.
Mi girai fino ad guardare una carrozza, nera e con uno stemma argentati e blu, che avevo notato solo quel momento e un ragazzo affacciato alla porta di un negozio di scarpe.
Questi parlava concitatamente con chi era appena uscito, il quale era nascosto dal mezzo di trasporto enorme.
Non capivo le loro parole, ma vedendo l’espressione di rammarico del ragazzo dedussi che fosse successo qualcosa alle scarpe destinate alla persona con cui parlava. Dopo alcuni istanti, lo salutò e si rifugiò nel negozio.
Il vetturino alla guida della carrozza fece scioccare il frustino e il tiro a due di cavalli neri partì.
Mi sentivo vagamente delusa per non essere scucita a vedere chi fosse il passeggero – la curiosità è donna.
Feci per rientrare nella sartoria, ma fui bloccata dall’immagine dell’uomo che, in pochi secondi, era stata svelata dalla carrozza andata via.
Il fiato mi di bloccò in gola e il cuore balzò nel petto.
Lui.
  
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