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Autore: Sylphs    14/01/2012    2 recensioni
Sei mesi dopo la notte del don Juan, una giovane pianista un po' inopportuna arriva al teatro dell'Opera per seguire delle lezioni...ma un misterioso e ambiguo incidente capitato durante una rappresentazione la porterà ben presto a indagare sull'esistenza del temibile Fantasma dell'Opera e una domanda opprime l'animo di tutta la compagnia: è realmente scomparso, oppure la loro era solo una speranza vana?
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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INTRUSIONE






Era il luogo più strano e meraviglioso che avesse mai visto. Non sarebbe mai stata capace di concepirne uno uguale, né di trovare le parole adatte per descrivere appieno la sensazione che provava osservandolo.
L’illuminazione era prodotta unicamente da una serie di candele disposte senza apparente ordine un po’ dappertutto, le fiammelle esili che tremolavano nelle tenebre e spargevano riverberi fiochi sulle pareti scavate nella roccia, abbellite da drappi di velluto e di damasco e da specchi frantumati da un intervento brutale, sul pavimento sfaccettato e sulle torbide acque di quello che, ora finalmente comprendeva, altro non era che un lago sotterraneo. Un lago convogliato in una serie di condotti nei quali era finita, e che l’avevano portata nel punto in cui s’allargava nelle sue dimensioni naturali. Gran parte del salone ne era sommerso, anche se per poche braccia, ma una parte trovava collocazione su una sorta di pedana rialzata che non permetteva all’acqua scura di seguitare a espandersi. Era da lì che proveniva la luce fioca delle candele, che andava affievolendosi lentamente via via che ci si allontanava verso le profondità del lago.
La ragazza si avvicinò con una sorta di timore reverenziale, camminando con le gambe immerse nell’acqua e i capelli bagnati che le si appiccicavano pesantemente al viso. Si sarebbe aspettata di trovare qualcosa di vivo, magari il Fantasma dell’Opera in persona che era stato avvertito della sua intrusione e l’attendeva per punirla, ma intorno a lei non vi era nulla, né si udivano rumori di sorta. Il silenzio era denso, quasi assordante, e procedeva non senza un pizzico di paura. Le sembrava di violare un luogo sacro, d’essere indegna di poggiare i piedi fuori dal lago. In quell’architettura inusuale e folle vi era una bellezza selvaggia e incontenibile alla quale non si poteva restare indifferenti. L’impressione che se ne ricavava era che quel luogo non fosse affatto una dimora, bensì un nascondiglio dal mondo, un rifugio buio e segreto in cui si era rinchiusa un’anima bramosa della solitudine e oppressa da una disperazione, un’ira, una disillusione tale da spingerla a cercare casa nel fondo di una caverna sotterranea. Un’anima geniale e folle allo stesso tempo, ma non priva di senso estetico. Dal salone principale si diramavano una serie di altre stanze lasciate spalancate dagli uomini che avevano frugato quel luogo sei mesi prima.
Perché, non se lo doveva scordare, il Fantasma dell’Opera vi aveva fatto ritorno da ben poco, e i segni della devastazione inferta dai linciatori erano ancora visibili, ne rimaneva il marchio sui drappi squarciati e flosci, sugli specchi frantumati e sui mozziconi di candela gettati a terra, galleggianti in pozze di cera solidificata. Uscì dall’acqua con sollievo, le braccia strette sul petto per riscaldarsi (la temperatura, a quelle profondità, era estremamente bassa) e girò il capo a contemplare il luogo da entrambi i lati cogli occhi sgranati e le labbra dischiuse, intimorita e impressionata. Capì, in una folgorazione fulminea, che ciò con cui aveva a che fare era ben più complesso di quel che aveva creduto all’inizio, e che non le sarebbe stato affatto facile trovare una soluzione.
Allungò una mano e sfiorò il damasco rosso scuro di un drappo. Il tessuto era pregno di umidità e sollevò una nube di polvere che la fece tossire. Si sarebbe presa senz’altro un bel raffreddore, dopo la nuotata nel lago gelido e quell’ispezione condotta in corsetto e mutandoni fradici. Ma era un rischio da correre, una complicazione da nulla in confronto al trionfo riportato in quei minuti di apnea: raggiungere la Dimora nel Lago non doveva essere un’impresa facile per nessuno, e lei ce l’aveva fatta, correndo un serio pericolo di morte, questo era vero, ma trionfando sulle avversità e raggiungendo la meta della sua folle ricerca.
L’unico problema erano il silenzio e il vuoto che pervadevano la caverna scavata nella roccia. Avrebbe dovuto ritenersi fortunata per aver trovato la dimora priva del proprietario, invece la sua inquietudine e il suo timore parevano essersi addirittura decuplicati. Se non era lì, allora dov’era, quel maledetto fantasma? E quando sarebbe tornato? Aveva il tempo di ispezionare il posto e farsi un’idea di esso? E se anche l’aveva, quant’era?
Era un salto nel vuoto. Un azzardo bello e buono.
“Sono arrivata fin qui, ho rischiato di rimetterci le penne, non posso mollare adesso” si disse per farsi coraggio. Preferiva non soffermarsi su come sarebbe tornata indietro, dal momento che non ne aveva idea. Decise che avrebbe posticipato il problema a quando sarebbe divenuto insostenibile, e che per il momento si sarebbe accontentata di raccogliere i frutti della sua vittoria. Tanto, non aveva nulla da perdere, o no? Il tempo delle esitazioni era trascorso da un pezzo, forse addirittura da quando aveva scelto di seguire Madame Giry. Oramai ci era dentro. E non ne sarebbe uscita senza risultati concreti.
Staccò il drappo da ciò che restava dei suoi supporti e se lo avvolse sulle spalle per asciugarsi, riscaldarsi e, al contempo, esorcizzare il pericolo di ipotermia. Forse il Fantasma dell’Opera non se ne sarebbe accorto, considerata la quantità di stoffe che adornavano il suo rifugio, ma se anche fosse successo, non avrebbe mai saputo chi era stato a trafugare quell’oggetto di scarso valore per lui primo. Le membra rigide la ringraziarono immediatamente rilassandosi in maniera rassicurante. Ma, insieme a quel sollievo, sopraggiunse un dolore atroce alle mani ferite, che il freddo le aveva impedito di avvertire finora.
Fu costretta ad abbassare gli occhi su di esse. Soffocò un grido. Erano coperte di sangue scuro e fresco, che sgorgava da tagli e abrasioni, e le infliggevano staffilate ogni volta che provava a muovere le dita. Eccolo, il vero prezzo del suo trionfo. Sarebbe stato un guaio bello e buono, se si fossero infettate.
Strappò due lembi di stoffa dal drappo che usava come coperta e li utilizzò per bendarsi strettamente entrambe le mani, mummificandole in una fasciatura di fortuna che avrebbe sostituito più tardi con qualcosa di consono. Madame Lefevre non l’avrebbe mai notato, presa com’era dai suoi impegni giornalieri, e se l’avesse fatto, avrebbe risposto che le bacchettate di monsieur Brochet l’avevano tagliata in profondità (cosa in linea di massima vera).
Bene. Era pronta a dedicarsi alla sua ispezione.
Prima di dare un’occhiata alle varie camere comunicanti, occorreva farsi un’idea del salone principale. Le candele accese avevano un significato inequivocabile, ma non le fornivano ulteriori indizi a parte quello a cui già era arrivata da una settimana. Procedette ad un giro attento e minuzioso, scostando i vari drappi che erano stati sistemati per celare la nudità delle pareti ma, ne era certa, anche per nascondere oggetti personali del Fantasma dell’Opera.
E non si sbagliava affatto: ad un certo punto, scagliando da un lato una pezza di velluto rosso, le apparve un volto umano che la fissava nelle tenebre e il suo cuore diede in un soprassalto di terrore, che la portò a premersi una mano sulla bocca e a incespicare goffamente nella propria coperta di fortuna, cadendo sul freddo pavimento di pietra. Arretrò in preda ad un terrore cieco, maledicendosi con tutte le imprecazioni che conosceva e facendosi scudo al viso col braccio per difendersi dall’attacco della presenza che si nascondeva dietro al drappo, ma s’accorse, superato lo spavento iniziale, che quella non accennava una mossa e che la sua immobilità era troppo marcata per appartenere ad un essere umano. Allora si fermò, battendo le palpebre, il viso pallido e il cuore ancora in tumulto, e la mise maggiormente a fuoco.
Era una bambola. Spaventosamente ben riprodotta e a grandezza naturale, sostenuta da un piedistallo su cui poggiavano i suoi piedi nudi. Per un attimo, trovandosela davanti in quella situazione di tensione, l’aveva presa per una persona vera. Il sollievo giunse in un’ondata impetuosa, e con esso una vampata di vergogna. Si sentì presa in giro, beffata crudelmente dagli inganni di quel luogo ostile, e s’alzò con fare stizzito e piccato, ricomponendosi quei pochi abiti che le erano rimasti.
A quel punto studiò la bambola dalle sembianze umane.
Aveva l’aspetto di una giovane fanciulla nel fiore dei suoi anni, dal viso dolce e fresco, dominato da un paio di occhi marroni e malinconici. Le labbra piene e rosate spiccavano sulla carnagione candida, piegate in un lieve sorriso colmo di bontà, e una cascata di morbidi riccioli color mogano le scendeva pudicamente sul seno, stretto in un abito bianco che le cadeva sino ai piedi.  Le sue braccia di cera erano leggermente aperte come se volessero stringerla in un abbraccio e la posizione delle gambe, diritte come fusi, ne rivelava l’origine artificiale.
Vivian ebbe un brivido. Lo trovava uno spettacolo insolito e macabro, quasi come se il fantasma avesse tenuto con sé un cadavere conservato, e si domandò chi fosse quella ragazza, e se la sua identità non corrispondesse proprio a quella di Christine Daaé, la cantante tanto odiata. In tal caso, rifletté soffermandosi sulla dolcezza del suo volto immobile e sulla piega pudica delle labbra, non c’era da stupirsi se avesse rifiutato la discutibile corte di quell’essere: aveva proprio l’aria della fanciulla beneducata e gentile d’animo, capace di turbarsi alla minima avversità. Perché gli uomini impazzivano tanto per quel genere di donna? Lei, da parte sua, avvertiva sempre l’impulso di afferrarle per le spalle, dar loro una bella scrollata e gridare con forza: “Svegliati!”
Con un secco scuotimento di testa, lasciò che il drappo ricadesse davanti alla bambola inanimata e che tornasse a celarla al suo sguardo inquisitore. I gusti amorosi del Fantasma dell’Opera non erano certo affar suo, e non si era recata nella sua dimora per giudicarlo in quel senso. Però, e questo le sollecitava una maligna soddisfazione, per quanto si mostrasse originale e imprevedibile, almeno in una cosa egli era banale e uguale a mille altri uomini: non si poteva assolutamente affermare che la Daaé fosse qualcosa di diverso da una dolce fanciulla dal viso grazioso e dal cervello pieno d’aria. Davvero un genio capace di creare simili meraviglie si sarebbe accontentato di una compagna tanto statica e mediocre nel discorrere di ogni genere di argomenti? Lei non era nessuno per giudicare, ma osservandone il volto e collegandolo a ciò che aveva udito dalle altre ragazze, era convinta che, a parte la bella voce e l’aspetto visibilmente affascinante, Christine non possedesse nessuna delle qualità che lei avrebbe reputato preziose.
Evidentemente al Fantasma dell’Opera bastava la sua bravura nel canto, ma in tal caso, le doleva ammetterlo, non ne era veramente innamorato. Ossessionato, attratto, questo sì; ma non innamorato. Non nell’accezione che lei dava alla parola. Per amare veramente qualcuno occorreva conoscerlo a fondo, condividere con lui un’affinità, una comprensione che andava al di là dell’uguaglianza o differenza di carattere: in un duetto al pianoforte non occorreva sempre che le note fossero le stesse, anche quando si differenziavano totalmente le une dalle altre creavano, unite, una sinfonia, un’utopia che colmava di estasi il cuore e i sensi. E in tal modo lei immaginava il vero amore. Come qualcosa che trascendeva dal corpo ed era legato unicamente allo spirito, come un sonetto a due mani che, sia se esse si rassomigliavano nell’esecuzione sia se non lo facevano, era capace di dar vita a qualcosa di…giusto. Perfetto. Non stonato. E se due delle mani non conoscevano a fondo le altre, se non si erano allenate a sufficienza a suonare insieme, inevitabilmente una di esse cadeva sulla nota sbagliata e la melodia ne era rovinata per sempre.  
C’erano duetti che, spinti dall’inesperienza, partivano come il rombo dei tuoni durante un temporale, come le onde dell’oceano che si infrangevano sulla riva, celebrando la passione, la voluttà, il desiderio in un glorioso rimbombo di suoni assordanti…ma troppo forti erano le note, troppo irruento il principio di una melodia, ed era facile che, arrivati ad un certo punto, gli esecutori si stancassero e perdessero ogni slancio…per tutto o niente, a volte solo perché s’accorgevano che le note suonate dal compagno non erano più in accordo con i loro gusti, sia nell’apparenza, sia nella sostanza. E allora s’allontanavano dallo strumento che li aveva uniti, ne cercavano un altro più adatto, e quello che restava seguitava a suonare da solo una melodia solitaria, finché non sarebbe giunto un nuovo compagno, o l’età e gli acciacchi avrebbero privato le sue dita della loro destrezza.
Chissà se il Fantasma dell’Opera continuava ancora ad eseguire una messa funebre in onore della sua amata perduta, o se il ricordo l’aveva infine lasciato andare…
Vivian si strappò brutalmente al corso che avevano preso i suoi bizzarri pensieri e si riconcentrò sul compito che si era imposta. Non aveva tempo per certe cose, i sentimentalismi le erano sempre stati alieni ed era raro che si concedesse di indugiare sull’amore. Certo non era quello il momento adatto per farlo! Volse le spalle al punto in cui era nascosta la sosia di Christine, quasi a voler negare coi gesti le sorprendenti riflessioni che le aveva ispirato, e procedette ad ispezionare alcune delle stanze collegate a quell’enorme salone.
Due di esse erano camere da letto. Una era occupata nel suo intero perimetro da un baldacchino che in quanto a fattura non sarebbe mai stato riprodotto in nessun’altra residenza: la testiera imitava il profilo elegante e leggiadro di un cigno d’ebano nero, le cui ali spalancate parevano proteggere un morbido giaciglio coperto da guanciali di seta e da coperte di spesso velluto. Cortine nere a balze ricadevano fino a terra tutt’intorno, ammantandolo di una barriera impalpabile, e vi era, in un angolo, un piccolo bagno con il necessario per provvedere ad un’attenta toletta personale. Impressionata favorevolmente dalla maestosità del letto, Vivian constatò che non vi era nulla di interessante o di sospetto e passò nella stanza vicina.
Era di dimensioni più esigue e d’aspetto maggiormente spartano. Un giaciglio costituito da drappi ammonticchiati e da cuscini impilati uno sopra l’altro aderiva alla parete frontale e su un comodino erano sistemati alcuni fogli scritti in una calligrafia rossa e affilata, che riproduceva note su pentagrammi minuziosamente riprodotti. Vivian gli diede una rapida occhiata, ma persistette a non trovare nulla. Lasciò vagare lo sguardo per la stanza e lo fermò su un curioso oggetto che era stato sistemato su di un tavolinetto elegante, in una posizione di evidente rilevanza.
Era la riproduzione di una scimmietta con addosso una giubbina rossa e un piccolo cappellino rifinito d’oro, rassomigliante a quelle vere che lei aveva veduto alcune volte in compagnia dei suonatori di organetto, alle fiere di Annecy. Il muso prognato era curvato in una specie di sorriso furbo e nelle zampe l’animale stringeva saldamente due piatti d’oro, mentre sul retro aveva assicurata una piccola leva su cui lei posò timorosamente le dita. Non sapeva per quale motivo, ma la presenza di quel buffo giocattolo, nella tetra e fredda dimora del fantasma, la invitava a dedicargli un’attenzione particolare, proprio per la sua incongruenza. A che scopo quella personalità folle e geniale si era procurata un balocco tanto banale, un divertimento tanto puerile? E perché l’aveva posta in quella posizione d’importanza?
Con delicatezza, poiché sentiva come se quell’oggetto fosse qualcosa di fragile, squisito e prezioso meritevole di un trattamento di riguardo, girò la piccola leva quattro o cinque volte e fece un passo indietro per vedere cosa sarebbe successo. La scimmietta prese vita con movimenti grevi, quasi si stesse risvegliando da un lungo sonno, e cominciò a battere i piattini con regolarità, mentre dal suo interno scaturiva una melodia giocosa e triste insieme, un motivetto che le parve d’aver già sentito e che la catturò in una istupidita contemplazione.
Un meccanismo legato al giocattolo si azionò e segnalò la sua incauta presenza, ma agì tanto silenziosamente che la ragazza, colpita dalla melodia, non s’accorse assolutamente di nulla.

Erik si era reinsediato nella Dimora nel Lago senza riscontrare alcuna difficoltà, ritrovando tutti gli oggetti tanto amati che aveva abbandonato sei mesi orsono e avvampando di un’ira cieca a fronte dello sfacelo causato dagli stolti che avevano creduto erroneamente di poterlo stanare. Come si erano permessi, come avevano potuto insozzare l’opera alla quale aveva dedicato buona parte della sua vita, il rifugio che gli apparteneva da tempo immemorabile?!
“Tutto a suo tempo, tutto a suo tempo” aveva mormorato a se stesso alla maniera di un mantra rassicurante: “Moriranno tutti, dal primo all’ultimo, così come sono morti qualche giorno fa”.
Il suo futuro si delineava con spietata chiarezza nella sua mente finalmente lucida, libera dai rimpianti del passato e dalla bruciante umiliazione che era stata capace di prostrarlo e di spegnere per un attimo tutto il suo entusiasmo, riducendolo ad un essere patetico, miserabile, abbandonato e singhiozzante. Era fuggito cospargendosi il capo di cenere, accettando il proprio triste destino di mostro e preparandosi ad una dipartita rapida e indolore, che gli avrebbe permesso di dimenticare tutte le gioie che gli erano state negate ma soprattutto lei, Christine, sempre Christine…
Ma la morte non era giunta. L’aveva attesa, oh, se l’aveva attesa, invitandola in tutti i modi che gli erano venuti in mente, a volte addirittura supplicandola con pianti e lamenti di strapparlo al suo corpo ingrato e deforme e di condurlo in un luogo di oblio, ma neanche la più accorata delle implorazioni era stata capace di accontentare il suo fatale desiderio, e la vita aveva preteso ben presto da lui un’attenzione che mai, mai avrebbe voluto concederle. Si era visto costretto, trascorsi mesi di abnegazione e vergogna, a guardare in faccia la realtà e a fare i conti con la consapevolezza che il decesso non sarebbe arrivato a salvarlo e che il Fantasma dell’Opera un fantasma non lo sarebbe ancora diventato. Era vivo, nonostante tutto, e aveva dinnanzi a sé un magma confuso e sconosciuto, che avrebbe dovuto riempire in qualche modo.
E a cosa sarebbe servito indugiare per l’eternità sul ricordo di una fanciulla che non era stata capace di andare oltre le apparenze? Di vedere dietro alla deformità del suo viso e di penetrare, con l’aiuto del suo sentimento, nei recessi più profondi della sua anima, dove riposavano quella bellezza e quella maestosità che il fato crudele non gli aveva permesso di sfoggiare? L’aveva amata in una maniera che nessuno avrebbe mai potuto comprendere, era vero, e aveva sognato, per qualche tempo, che il suo sguardo gentile avrebbe risparmiato il suo volto sfigurato e avrebbe visto oltre le piaghe, ma questo non era successo, e lei l’aveva abbandonato per rifugiarsi, spaventata e atterrita, tra le braccia della bellezza dell’Altro, dimostrandogli ancora una volta quanto il mondo fosse ributtante e perduto, e quanto la razza umana non meritasse la minima compassione, la minima salvezza, la minima redenzione.
Erano tutti uguali. Gli zingari che l’avevano brutalizzato da piccolo, gli artisti del teatro, Madame Giry, perfino Christine…tutti quanti degli insetti travestiti da signori dalla vista troppo fioca per poter vedere davvero. Si ergevano sopra alla pozza di letame in cui era immerso lui, gravando su di essa col loro peso, e continuavano a ridere, a vantarsi, e a fare tutte le altre cose che tanto li tenevano impegnati e che lui non aveva mai provato. Ignari della sua esistenza, della sua rabbia, del suo dolore, e prigionieri della loro stessa mente frivola e pregiudicata. Erik aveva appreso, dopo anni di oscurità, che l’unica maniera di far comprendere qualcosa agli esseri umani, l’unico momento in cui una breve luce di consapevolezza accendeva i loro occhi, era quando dava loro la morte. Solo allora tutte le finzioni e le bugie della loro vita cadevano per rivelarsi per ciò che erano ed essi, con lo stesso istupidimento del maiale che subisce il colpo d’ascia del macellaio, comprendevano appieno la miserevolezza in cui avevano sempre vissuto.
L’unica salvezza in cui il genere umano poteva sperare era la morte. E poiché non era riuscito a far parte della loro sozza comunità, poiché gli avevano sempre negato un simile “privilegio”, si sarebbe assunto il compito di salvarli da loro stessi, e di tendere la mano della giustizia sul teatro dell’Opera, il suo territorio di dominio. L’avevano eletto idolo che nei meandri dell’edificio faceva cadere lampadari e provocava incidenti misteriosi, e questo sarebbe diventato per l’eternità. Un messaggero di entità superiori, un freddo e spietato giustiziere che, privo di ogni sentimento, privo di rimpianti, avrebbe mondato Parigi dagli insetti che la assediavano, succhiandole la vita come parassiti e gonfiandosi di falso prestigio. D’ora in poi, sarebbe stata la fine, per l’Opera e per parecchi membri della razza umana. Non avrebbe dato motivazioni a nessuno, né se ne sarebbe cercate: un fantasma agisce senza alcun motivo apparente, per pura brama di distruzione. Li avrebbe cancellati, vaporizzati, estirpati, e si sarebbe trascinato fino al giorno della morte lungo una scia di cadaveri e di sangue, con la quale riempire il vuoto incolmabile che aveva dentro.
Se non poteva amare, allora avrebbe odiato con tutta la forza possibile. Se non poteva proteggere l’oggetto del suo amore, allora avrebbe distrutto completamente quello del suo odio. Se non poteva essere un uomo, allora sarebbe stato solo un mostro. Erano stati loro a volerlo. Loro lo avevano costretto a nascondersi in quel buco, loro lo avevano rinchiuso in una gabbia e picchiato a sangue perché il suo viso li faceva inorridire, loro lo avevano irriso e sbeffeggiato, loro gli avevano ributtato in faccia il suo amore, per la sola ragione che proveniva da un corpo troppo orribile da guardare. Erano più colpevoli di lui e meritavano che la sua mano giudicatrice li trascinasse nel nero oblio della morte.
Anche Christine…anche lei probabilmente era degna di fare la stessa fine. Quale fraintendimento, quale terribile malinteso era stato il suo amore! L’aveva idealizzata fino a farne una dea dalla voce capace di raggiungere le più alte vette del cielo, l’aveva indorata di pregi e perfezione sotto l’influsso malefico dei suoi dannati sentimenti, e perfino quando la sua deformità l’aveva indotta a rifuggire si era lasciato commuovere dalle sue lacrime e dalla sua tristezza, e le aveva permesso di salvarsi e di vivere a fianco di quell’insetto. Sarebbe stato meglio, mille volte meglio ucciderla senza farla soffrire, per salvarla da se stessa e dalla vita infelice e mediocre che avrebbe condotto, cancellando la menzogna della sua esistenza con un semplice gesto. Allora avrebbe reso felici lei e se stesso, si sarebbe comportato nell’unico modo possibile e avrebbe cominciato la sua opera di purificazione con la vittima maggiormente adatta, quella ragazzina sciocca e superficiale incapace di guardare oltre un viso sfigurato e di riconoscere, dietro l’orrore delle piaghe, l’immenso amore che provava per lei.
Ma ormai era tardi, troppo tardi per questo! Aveva perduto la sua occasione quando ancora credeva che non avrebbe mai potuto causarle sofferenza, rintronato dalla malevola intensità di quell’enorme beffa che era ciò che gli uomini chiamavano amore (e che in realtà non avevano mai saputo provare). Tuttavia, non si sarebbe certo fatto fermare da questo piccolo errore. In ogni essere umano c’era una parte di lei, e uccidendone ognuno, avrebbe ucciso lei. Aveva riso del ridicolo terrore di quegli insetti la sera del “Re degli elfi”, contemplando dall’alto del suo nascondiglio la loro frenetica fuga fuori dalla sala e il loro affannarsi a guadagnare l’uscita, constatando, con un misto di disprezzo e di sarcasmo, l’egoismo che ognuno di loro dimostrava, e per qualche giorno era rimasto appagato. Ma già l’insoddisfazione e l’odio tornavano a pretendere attenzione dalla sua mente, già nuovi propositi prendevano forma sotto l’azione geniale del suo splendido intelletto. Si sarebbe fatto vedere molto presto, e non se ne sarebbero dimenticati facilmente. Sapeva come vivacizzare una noiosa giornata d’inverno.
Non era forse un magnifico artista nel suo genere?
Madame Giry, la povera, compassionevole Madame Giry, era scesa da lui per cercare di ricondurlo alla ragione. Non poteva dire d’esserne sorpreso, conosceva perfettamente come funzionava la mente di quella donna ed era sicuro che ella, stoltamente, avesse creduto di trovarlo nelle stesse condizioni in cui l’aveva sorpreso subito dopo l’addio di Christine. Che infantile ingenuità! Egli era naturalmente rinsavito da quella follia, e anzi, non era mai stato più lucido di così!
L’aveva accolta con estremo fastidio, deciso a troncare i rapporti con lei una volta per tutte sfruttando il suo antico tradimento (aveva aiutato il Visconte a penetrare nei suoi domini), e alle sue suppliche, alle sue frasi accorate, ai suoi tentativi di rabbonirlo aveva risposto con risate e commenti sarcastici, rifiutandosi di fornirle la benché minima spiegazione e consigliandole caldamente di sparire dalla sua vista, se desiderava che le cose non precipitassero, per Meg e per parecchi membri della razza umana. La sua presenza, che per un attimo l’aveva confortato, adesso lo irritava profondamente, proprio a causa del suo ultimo cedimento (una debolezza che gli aveva strappato in un momento in cui la mente non gli funzionava bene), e perché il solo posare gli occhi su un essere umano ormai sollecitava in lui il fortissimo impulso di vomitare.
Alla fine la donna aveva ubbidito, guardandolo come se desiderasse disperatamente aiutarlo a sfuggire ad un vortice in cui s’era infilato di sua volontà, e lui era tornato ai suoi progetti con intima soddisfazione, lieto d’essersi liberato di quella zavorra e di non aver più fastidi da parte sua. Un fantasma non ha amici, non ha conoscenti, non ha nemmeno dipendenti. Un fantasma è capace di attraversare i muri e penetrare nell’animo delle persone, e non ha alcun bisogno di aiuti esterni. Aver scacciato colei che per anni interi era stata il suo unico contatto col mondo era un passo decisivo verso la sua totale acquisizione di questa identità.
Erano trascorsi soltanto pochi minuti dalla sua scomparsa, ed Erik aveva appena abbassato il capo sulla piantina del teatro, disegnata di sua mano, che stava esaminando in uno studio un po’ isolato che aveva prescelto per completare i suoi progetti, quando una campanella situata in un punto chiave delle pareti diede un trillo stridente, che lo strappò alla sua concentrazione e lo spinse a drizzare la testa di scatto con gli occhi sfolgoranti e le labbra troncate a metà serrate in una smorfia di furia. Chi osava disturbarlo una seconda volta nei suoi domini?! Madame Giry non poteva essere, dal momento che era uscita tramite una porta ben lontana dall’oggetto che aveva innescato l’allarme, ma nessun altro conosceva la strada per la Dimora nel Lago, dunque si trattava sicuramente di un intruso incauto, di una presenza capitata lì per caso o per intenzione.
Bene, l’avrebbe accolta come si conveniva. Forse quella novità avrebbe rappresentato una piacevole distrazione dal lavoro a cui si stava dedicando anima e corpo, e gli avrebbe permesso di godersi qualche minuto di divertimento. La sua mano scattò verso una spessa corda che lui chiamava abitualmente “laccio del Penjab” e l’arrotolò con un movimento agile, mentre si alzava in piedi.

Vivian aveva trovato l’organo.
Dopo aver distolto l’attenzione dalla scimmietta suonatrice di piatti, era uscita dalla camera da letto ed aveva vagato per i sotterranei senza una meta precisa, notandone lo stato di degrado e lo spesso strato di polvere che ricopriva ogni cosa di una cortina grigia. Ogni particolare di quel luogo, ogni dettaglio la attraeva e la catturava, ma nessuno di essi le suggeriva un’informazione o un indizio, anzi, si sentiva sempre più confusa via via che la sua ispezione proseguiva, e in definitiva non riusciva a decretare se il Fantasma dell’Opera fosse un genio o un pazzo. Possibile che le due cose potessero convivere? E se era così, come lo si poteva sconfiggere, come si poteva vincere l’imprevedibilità di un folle, mescolata al calderone di risorse d’un genio? Aveva affrontato la morte e l’oscurità per scoprire che il suo avversario era invincibile? Che lei era troppo insignificante, troppo povera e sciocca per avere la meglio su di lui? Che avevano avuto ragione Emma e Madame Lefevre?
Era stato allora che i suoi occhi si erano posati sul magnifico strumento. La visione si era presa in ostaggio all’istante ogni suo pensiero, mutandone bruscamente il corso, e tutto quanto, dubbi e paure, era svanito per lasciar spazio unicamente a quel capolavoro meravigliosamente gotico.
In tutta la sua vita, mai le era capitato di ammirare un organo così ben fatto. In esso si mischiavano la professionalità di un buon modello e l’ottimo senso estetico del suo ben conosciuto costruttore (non dubitava, infatti, che si trattasse dello stesso Fantasma dell’Opera) ed era una tentazione quasi irresistibile poggiare le dita bendate sulla doppia tastiera e provare a suonarlo. Si fermò a pochi passi da esso, ammutolita dall’ammirazione, e fece scorrere un tocco lieve sul legno dipinto di nero, costretta ancora una volta a inchinarsi di fronte all’indiscusso genio del fantasma.
“Sei un assassino e un pazzo, è vero” mormorò a se stessa: “Però le tue mani sono capaci di piegare ogni materiale al tuo volere”.
Come se con una tale frase avesse invitato il diavolo a far spuntare le proprie corna, percepì con violenza soffocante che c’era una presenza alle sue spalle, e che quella presenza non aveva buone intenzioni. Simili intuizioni spesso non hanno alcun significato razionale, ma proprio per questa ragione, a volte, decretano una verità indiscutibile. Ed è parere comune che interessino maggiormente l’universo femminile rispetto a quello maschile.
Vivian sapeva, senza che il suo aggressore avesse fatto il minimo rumore o sospiro, che le era alle spalle. E sapeva che stava per farle del male.
Reagì nel modo più ovvio: la sua bocca si spalancò istintivamente per gridare e i suoi muscoli si tesero, preparandosi allo scatto della fuga. Ma la presenza, che doveva aver previsto una tale reazione, non le lasciò il tempo di emettere il minimo fiato e in mezzo battito di ciglia la ragazza si sentì premere con forza terribile contro un petto muscoloso e chiaramente maschile, e avvertì un braccio aggressivo che le circondava la vita da dietro e un altro braccio che le serrava il collo in una morsa, passandovi intorno un laccio simile ad un malevolo serpente. Il tutto accadde in maniera talmente fulminea che la sua mente non riuscì a stargli dietro in ogni sua fase, e il terrore sopraggiunse con intensità animalesca, avviluppandole il corpo in una tenaglia e mozzandole il fiato in gola. Ne era talmente invasa che non pensò più neanche a urlare, e la nuova portata dei suoi sensi, in ogni caso, avvertiva che non sarebbe servito a nulla.
La presenza dietro di lei, tenendola avvinta a sé in modo tanto tremendo da non permetterle di compiere il minimo movimento, avvicinò il viso al suo orecchio e la ragazza riuscì a sentirne il respiro caldo tra i capelli, una sensazione che le strappò un brivido.
“Che cosa ci fate qui?” sussurrò una voce maschile, melodiosa e tranquilla, con un tono che nascondeva un’evidente minaccia. Le scivolò nelle vene come un veleno urticante, scendendole lungo la curva del collo e insinuandosi nella giugulare che pulsava a un ritmo forsennato, e gliele ricoprì di uno strato di ghiaccio, impedendole di ribattere. I battiti frenetici del suo cuore iperventilato le sfondavano le orecchie e la paura le si agitava dentro come un animale selvaggio, scalpitando e reclamando una salvezza impossibile.
La presenza attese qualche minuto per darle il tempo di rispondere, quindi la strinse ancora più forte e aumentò la pressione del laccio intorno al suo collo, quel tanto che bastava a farle sentire un senso di soffocamento: “Che cosa ci fate qui?” ripeté, più incalzante. Vivian boccheggiò disperatamente, cercando una soluzione che in quel momento non aveva, una qualsiasi giustificazione, e frugò dentro di sé alla ricerca del coraggio che l’aveva mossa fino a pochi minuti prima e che era stato risucchiato dall’intervento di quell’uomo misterioso.
“Siete il Fantasma dell’Opera?” quello che le uscì dalle labbra fu appena un sussurro. Ansimò come una bestiola in trappola allorché il laccio si strinse ancora di più. La voce che giunse qualche attimo dopo era dura: “Chi vi ha indicato la strada per i miei domini? Madame Giry?”
La fronte della ragazza era coperta di sudore gelido: “Ci…ci sono arrivata… da sola” si detestò per quel discorso smozzicato e inframmezzato da gemiti, ma era il meglio che era riuscita a trovare, e comprendeva che se fosse rimasta in silenzio la creatura alle sue spalle avrebbe aumentato ulteriormente la pressione del terribile laccio. Già così respirava affannosamente per non soffocare e avvertiva una sgradevole oppressione al petto.
“Da sola?” disse il fantasma con quel suo tono calmo e atono, denso di elettrica pericolosità. La stretta sul suo corpo si fece ancora più tenace e dolorosa: “Credo che voi stiate mentendo”.
“Non è così!” pian piano le forze le ritornavano, nel terrore e nella paura ritrovava la voglia di vivere e di combattere, e la sua voce assunse una sfumatura più risoluta. Cercò di divincolarsi da quell’abbraccio mortale per vedere il volto del Fantasma dell’Opera, ma egli si avvide all’istante del suo tentativo e subito il cappio le vincolò la gola, costringendola a desistere e a tossire convulsamente. Era alla sua completa mercé, colta in flagrante come una bambina con le mani nella marmellata, e poteva imputarne la colpa soltanto a se stessa. Quanto era stata stupida e ingenua, quanto incautamente si era avventurata in quel territorio a lei precluso sperando di passare inosservata agli occhi del suo proprietario!
Tutto ciò che poteva fare era affrontare le conseguenze della sua stupidità con ritegno.
“Non sto mentendo” disse distintamente, non provando più a girarsi per guardare il suo aggressore: “Sono arrivata qui per conto mio”.
“Una ragazza coraggiosa…” risultava evidente il sarcasmo. La mano che la stringeva alla vita la fece aderire ancora di più a quel torace muscoloso, e con una lieve scrollata lasciò cadere al suolo il drappo con cui si era coperta, rivelando il suo abbigliamento indecente. Una vampata le arroventò il volto e venne percorsa da un tremito mentre quella bocca invisibile tornava ad accostarsi al suo orecchio: “…o stupida. Quale vi si addice meglio?”
Si irrigidì da capo a piedi: “Lasciatemi” sussurrò.
Lui scoppiò in una risata che le gelò il sangue: “Mademoiselle, non vi ho certo invitata io. Perché siete venuta a disturbarmi? Io domando forse a chi passa che ore sono? Non avevate nulla di meglio da fare? Volevate vedere se le leggende erano vere? Se qui sotto c’era un fantasma?”
Un secondo brivido le attraversò la schiena. Deglutì, sforzandosi di ricacciare giù un bolo di terrore e saliva: “Voi non siete un fantasma”.
Il laccio diede un guizzo che quasi la soffocò.
“Certo che sono un fantasma” l’uomo era contrariato: “Sono il Fantasma dell’Opera”.
“No” disse lei coraggiosamente: “I fantasmi non hanno corpo, voi invece sì. Io…lo sento”.
La presenza emise una risatina bassa e suadente: “Avete mai visto un fantasma, mademoiselle?”
“N…o”.
“Dunque, come fate a sapere come sono fatti?”
Era una tortura. Una beffa. Si prendeva gioco di lei, approfittandosi del suo terrore e della sua posizione di svantaggio, ma Vivian conosceva la verità. Il petto contro cui era adagiata aveva muscoli sodi e un cuore che batteva poderoso, ed era il petto di un uomo. Il fiato caldo che le accarezzava la nuca testimoniava che la vita scorreva ancora nelle membra dell’essere che la minacciava in quel modo. Poteva terrorizzarla quanto voleva, ma non le avrebbe tolto la sua verità.
“Lo so e basta” disse infine.
Il Fantasma dell’Opera rimase in silenzio per un poco, godendosi l’odore della sua paura e il suono dei suoi ansiti che risuonava nella solitudine della Dimora nel Lago. Vivian si torceva invano nella morsa del laccio che le serrava la gola, sperando di allentarlo o di liberarsene, ma la maniera in cui era stata immobilizzata la impediva totalmente nei movimenti, e ogni volta che provava ad accennarne uno, la stretta su di lei aumentava.
“Dovrei uccidervi per la vostra intrusione, lo sapete?” ricominciò infine la voce melodiosa, con un fare quasi rammaricato, come se dovesse prestarsi a qualcosa di spiacevole ma necessario.
Vivian impallidì. Per un attimo, l’odio che provava per lui divenne tanto forte che credette che sarebbe stato in grado di corrodere la sua carne come acido.
“Fatelo, allora” nessuno fu più stupito di lei dall’audacia di quelle parole: “Ho già avuto modo di vedere che non siete capace d’altro”.
Perfino l’uomo che giocava a travestirsi da fantasma parve interdetto da quell’ultima uscita, ma si riprese ben presto: “Forse avete ragione. In effetti, proprio per la mia abilità nell’arrecare la morte di chi mi contraria, ho fornito la mia dimora di una serie di stanze che forse vi farebbe molto piacere visitare. Mi permetterete di farvi gli onori di casa? Potrei organizzare una gita nella Camera dei Supplizi…o andare a dire alla Sirena di cantare per voi…che ne pensate, mademoiselle? L’idea vi aggrada?”
Vivian digrignò i denti: “Siete un mostro”.
La risata di lui le scompigliò i riccioli: “Non più di tanti altri, mademoiselle” le parve di cogliere una nota amara in quella risposta, ma svanì all’istante: “Io, almeno, non maschero la mia putredine di falsa bontà. Sapete come mi chiamano? Il Signore delle Botole, perché nessuna porta è mai chiusa per me! E un’altra mia grande abilità, è senza dubbio quella di parlare solo con il ventre. Potrei farvi gracidare come una rana, se lo volessi. Ma forse sarebbe uno spreco…” il laccio cominciò a stringere: “…forse dovrei farla finita subito. Perché sapete, mademoiselle…se voi mi cercate…allora gli altri là sopra si chiederanno cosa stiate cercando…verranno a sapere che cercate me…e vorranno cercarmi anche loro. La qual cosa, soprattutto adesso, mi disturba molto”.
La giovane boccheggiava, semisoffocata dalla pressione del cappio, ma si costrinse a tirare fuori la voce: “Se dovete…uccidermi…allora…smettetela di posticipare il momento…con i vostri deliri…e agite!”
Dietro di lei ci fu una piccola pausa. Era logico che quel mostro rimanesse colpito, sicuramente s’era aspettato una reazione isterica e terrorizzata, condita da grida, suppliche e singhiozzi, ma tanto era ormai condannata e non gli avrebbe concesso quest’ultima soddisfazione.
Poi ci fu un sospiro, e la morsa del laccio si allentò, permettendole di tirare il fiato.
Il Fantasma dell’Opera si chinò su di lei: “Non tornate più qui. Non intendo sprecare il mio laccio per voi, ho ben altro di meglio da fare che assassinare una ragazza impicciona. Ma non sarò altrettanto clemente una seconda volta”.
Lei sgranò gli occhi: “Che cos…”
Un colpo alla nuca, preciso, esperto.
Poi il buio.
  
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