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Autore: Northern Isa    16/01/2012    6 recensioni
Dopo la sua rinascita, Voldemort incarica i Mangiamorte di raccogliere seguaci. Thorfinn Rowle e Fenrir Greyback saranno incaricati di tornare in Svezia, la loro terra natale, per convincere i Giganti ad unirsi al Signore Oscuro. Ma Thorfinn sarà costretto a confrontarsi con un passato che aveva cercato di dimenticare.
Prima classificata e vincitrice del premio originalità al contest Morsmordre di Princess of Slytherin, giudicata da saramichy
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro personaggio, Fenrir Greyback, Mangiamorte, Voldemort
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Età di venti, età di lupi.'
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Dedico questa storia a Violet Acquarius, perché il mantello di Thorfinn è diventato il suo pulisci-naso preferito e a EmilyBlack28 perché Thorfinn NON è Regulus XD



NdA importante:  in norreno i Giganti erano chiamati Jotnar (Jötunn al singolare). Secondo la mitologia, esistevano due tipi di Jotnar: gli Hrímþursar o "giganti di brina" e i Múspellsmegir o "giganti di fuoco".  



A volte l'uomo inciampa nella verità, ma nella maggior parte dei casi, si rialza e continua per la sua strada.
(Winston Churchill)



Capitolo 1

Quella mattina mi svegliai con un tremendo cerchio alla testa. Osservai con scarso interesse le lancette ticchettanti dell’orologio sul comodino accanto al mio letto: erano le dieci passate. Mi misi a sedere sul letto, massaggiandomi le tempie attanagliate dal dolore, cercando di mandar giù la saliva, ma riuscendo ad ingurgitare solo  aria. Anche la lingua, secca e provata, iniziò a dolermi.  Controvoglia posai i piedi sulle assi di legno del pavimento e mi tirai giù dal letto. Mi sentivo impregnato dalla sgradevole sensazione che generalmente accompagna il risveglio dopo una sbornia colossale, ma la sera prima non avevo toccato neanche una goccia d’alcol. Raggiunsi il bagno trascinandomi lungo le scabrose pareti della mia casa, imprecando ogni tre passi circa. Chino sul lavandino del bagno, lasciai scorrere per un po’ l’acqua fredda, sostenendomi al bordo di ceramica. Il mal di testa era atroce, e il sapore di fiele che avevo in bocca era disgustoso. Raccolsi l’acqua gelata che scorreva dal rubinetto a piene mani, rabbrividii quando me la schiaffai sul viso, ma mi sembrò di sentirmi subito meglio. Con il volto ancora gocciolante, sollevai lo sguardo sullo specchio che sovrastava il lavabo. Gli occhi azzurri erano circondati da nere occhiaie, le guance erano ricoperte da chiara barba incolta, le estremità delle ciocche di capelli, fradice d’acqua, erano appiccicate disordinatamente al volto. Quasi stentavo a riconoscermi. Con un gesto nervoso, richiusi il rubinetto, impedendo alla scrosciante acqua gelida di sgorgare oltre. Non appena il rumore di quella cascatella tacque, il mio mal di testa esplose ancor più prepotentemente, espandendosi ad occupare tutti gli spazi lasciati vuoti dal silenzio.
Uscii dal bagno ancora più sofferente di quando ero entrato. Fu quando raggiunsi, trascinando i piedi, la cucina che mi accorsi dei cinque gufi appollaiati sul davanzale di fronte al tavolo da pranzo. Ruotai la maniglia della finestra e aprii i vetri, permettendo ai volatili di entrare. Incurante delle loro espressioni seccate per essere stati lasciati fuori per così tanto tempo, iniziai a slegare i rotolini di pergamena attaccati alle loro zampe. Li spiegai, uno dopo l’altro, con uno sbuffo esasperato. Tutte e cinque le pergamene recavano il sigillo della Gringott: evidentemente i Folletti si stavano chiedendo che fine avessi fatto e come mai non fossi ancora andato al lavoro. Quella mattina non ce l’avevo fatta ad alzarmi in tempo, la sensazione di nausea e mal di testa mi avevano stordito al punto che avevo preferito restare a letto qualche altra ora. Non che questo fosse servito a farmi stare meglio: mi ero alzato ancora più fracassato di prima. Afferrai un mozzicone di matita abbandonato su un ripiano di legno e scrissi una breve risposta sul retro di una delle pergamene. Mi limitai a spiegare che quella mattina ero troppo malato per andare al lavoro. Se a quei sudici Folletti non fosse bastata quella risposta, si sarebbero potuti infilare il rotolo di pergamena su per il -. Non conclusi neanche il pensiero che stavo formulando che un gufo mi morsicò un dito.
-Maledetta bestiaccia!- inveii, scagliandolo dall’altra parte della cucina.
L’uccello, per tutta risposta, bubbolò dolorosamente. Afferrai senza molto garbo uno degli altri gufi e gli legai la risposta alla zampa. Dopodiché, buttai tutti e cinque i pennuti fuori dalla finestra. Osservai per qualche istante il vetro impolverato, oltre il quale i gufi erano soltanto cinque puntolini in lontananza nel cielo terso. All’orizzonte, le chiome degli alberi del bosco al limitare del quale sorgeva la mia casa erano scosse dal vento estivo. Mi passai una mano sulla fronte, detergendo il sudore. Odiavo quella stagione, il caldo era opprimente. Scorsi con lo sguardo i mobili della cucina, il mio stomaco protestò, attorcigliandosi dolorosamente, quando la mia mente formulò un pensiero riguardo la colazione. Temendo di essere nuovamente assalito dal senso di nausea, mi allontanai da lì, attraversai l’arco di pietra che separava la cucina dal soggiorno, e andai ad accasciarmi su un divano di stoffa, dello stesso colore del tappeto di pelliccia su cui affondavano i suoi piedi. Esalai un lungo e profondo sospiro, premendomi le dita sulle tempie. Immediatamente, neanche a farlo apposta, la mia mente ritornò alla riunione a Villa Malfoy, tenutasi il giorno prima.

Il mio cuore mancò un colpo nell’udire quella parola, pronunciata in quella lingua, dopo tanto tempo.
-Come dite, mio Signore?- domandai con voce tremante, senza sollevare lo sguardo, puntato sul pavimento di marmo.
Mai prima d’ora le venature rosso scuro mi erano sembrate così interessanti. Il ginocchio premuto contro il freddo marmo color sangue iniziò a dolermi, ma non osai muovermi.

-Jötunn, mio caro Thorfinn. Non è questa la pronuncia esatta?-
-Sì, mio Signore- risposi tutto d’un fiato.
Non ero ancora abituato a sentirgli usare il mio nome.
Lord Voldemort stirò il suo volto in un ghigno senza labbra. Sollevai cautamente lo sguardo su di lui; non appena notai il suo cenno, mi alzai in fretta.
Immaginai che si aspettasse una risposta più completa da me, ma sentivo la bocca talmente impastata da non riuscire ad aggiungere altro.
Una porta si spalancò rumorosamente alle mie spalle, tutti i Mangiamorte presenti nella sala ruotarono le loro teste in direzione della fonte di quel fragore. Ringraziai mentalmente il tempismo dell’avventore: mi aveva salvato dal disagio di quei momenti.
-Mi avete fatto chiamare?- domandò il nuovo arrivato, rivolgendo un cenno del capo al Signore Oscuro.
Probabilmente avrebbe voluto mostrare reverenza, ma l’effetto finale fu alquanto grottesco.
-Certo, Greyback.- rispose Lord Voldemort.
Non c’era traccia di irritazione per il ritardo del lupo mannaro nella sua voce, c’era solo tanto compiacimento, che rasentava quasi l’allegria.
Fenrir Greyback attraversò la sala a grandi passi, fino a prendere posto accanto a me. Puzzava di alcol e di sudore. Gli rivolsi un’occhiata fugace, notai alcuni grumi scuri annidati nella sua barba: poteva trattarsi di sangue.
-Bene,- riprese il Signore Oscuro, -come avevo iniziato ad accennare a Thorfinn, ho intenzione di affidarvi un incarico.-
Fenrir ruotò appena il capo per verificare l’effetto che quelle parole avevano avuto su di me, ma io rimasi impassibile, lo sguardo fisso sul Signore Oscuro. Lord Voldemort iniziò a passeggiare in mezzo a noi.
-Mi è stato riferito che voi due vi conoscevate già prima di venire dalla mia parte, non è forse così?-
Rispondemmo il nostro assenso quasi all’unisono.
-È così, mio signore. Siamo entrambi originari di un paesino vicino Fagersta.-
-Da quanto tempo manchi da casa tua, Thorfinn?- mi chiese il Signore Oscuro con voce carezzevole.
-Da molti anni, mio Signore. I miei si sono trasferiti in Inghilterra che ero appena nato.-
Ingoiai con una certa difficoltà al ricordo dei miei genitori. Ancora però non ero riuscito a capire dove Lord Voldemort volesse arrivare.
-E tu, Greyback?- domandò, rivolgendosi al lupo mannaro.
-Da un paio d’anni, mio Signore.-
-Che felice combinazione!- esclamò il mago oscuro, con tale gelido entusiasmo nella voce da provocarmi qualche brivido dietro il collo.
-Ho deciso di mandarvi in Svezia: mi serve che qualcuno prenda contatto con i Giganti
, e voi sarete sicuramente felici di ritornare al vostro paese natale.-
Aprii la bocca senza volerlo, trattenendo il fiato. Tornare in Svezia.
A malapena riuscii ad udire Fenrir ribattere:
-M-ma mio Signore, perché proprio noi? Si tratta di una missione importante, non credete che sia meglio affidarla a qualcuno che sia al vostro servizio da più tempo?-
-Mio Signore!- fece eco una voce esaltata, -Il lupo mannaro si è unito a Voi da un paio di mesi, Rowle da poco prima, e questa missione è troppo importante per essere affidata a due reclute così recenti. Lasciate che se ne occupi qualcuno che è al Vostro servizio da più tempo, qualcuno che Vi ha già dimostrato la sua più cieca fedeltà!-
Tornare in Svezia, a casa, pensai mentre vidi il sorriso sparire dal volto di Lord Voldemort.
-No, Bellatrix.-
Tornò a rivolgersi a me e a Fenrir, l’espressione contratta, le dita che accarezzavano il manico della bacchetta che emergeva dalla cintura della sua veste.
-Ho deciso di incaricare voi due perché siete di origine svedese, perché conoscete i luoghi, la gente, la cultura, perché avete qualche possibilità in più di riuscire in questa missione rispetto agli altri.-
Né Fenrir, né la Lestrange osarono aggiungere altro.
Tornare a Fagersta, continuavo a ripetermi come un mantra, nella casa di mio padre.


Mi alzai dal divano, incapace di stare seduto. Mi portai una mano alla bocca, guardandomi intorno con aria pensierosa. Ero nervoso come non lo ero da mesi. La sera precedente a Villa Malfoy aveva risvegliato in me un tormento interiore che avevo cercato di far tacere per quattordici anni. Il mio sguardo cadde sul mio avambraccio sinistro, marchiato a fuoco con il simbolo del serpente che usciva dalla bocca del teschio. Accarezzai il suo rilievo con la punta dei polpastrelli: al tatto sembrava quasi caldo. La scelta di diventare un Mangiamorte aveva seguito di poco la notizia, confermata da fonti sicure, del ritorno di Lord Voldemort. Avevo tanto sentito parlare di lui: era stato il terrore di un’intera generazione. Ero ai miei primissimi anni ad Hogwarts durante l’epoca di maggior gloria del Signore Oscuro, troppo piccolo per apprezzarne i grandiosi piani, figlio di genitori che né lo appoggiavano, né lo avversavano. Venivo da due famiglie di Purosangue che simpatizzavano tiepidamente per il credo di Lord Voldemort, perciò non furono loro a spingermi verso di Lui. Quando il Signore Oscuro scomparve, avevo solo quindici anni. Successivamente non si ebbero più Sue notizie. La paura rimase, ma la gente ricominciò a vivere come prima. Fino a poco tempo fa. Finalmente il Signore Oscuro era risorto, e io fui in grado di accogliere questo evento con una predisposizione diversa. È strano pensare come le cose siano potute cambiare in una manciata di anni. Durante i miei studi, il nome di Lord Voldemort aveva portato con sé un’eco di paura che non mi aveva mai toccato. Dopo Hogwarts, durante gli anni di servizio presso la Gringott, il Suo nome risuonò come un carapace senza contenuto. Fino a poco tempo fa, quando coloro che avevano usato chiamarlo Colui Che Non Deve Essere Nominato ricominciarono a pronunciare questa locuzione con più terrore di prima. Quel nome rievocato, quella memoria ridivenuta concreta, quel mago oscuro più potente di ogni altro trovarono ad attenderli in me uno stato d’animo diverso rispetto all’ingenua noncuranza degli anni dell’infanzia. Trovarono un cuore in tempesta, una mente martoriata, una fibra più forte, uno spirito dolente. Trovarono una rabbia sorda, una bacchetta pronta, un avambraccio nudo. Quale fu la ragione del mio cambiamento è presto detto: una madre sepolta, uccisa dal padre, fuggito lontano, tornato in Svezia. Ed era proprio lì che sarei tornato, per volere del mio Signore. 

   
 
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