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Autore: Northern Isa    23/01/2012    6 recensioni
Dopo la sua rinascita, Voldemort incarica i Mangiamorte di raccogliere seguaci. Thorfinn Rowle e Fenrir Greyback saranno incaricati di tornare in Svezia, la loro terra natale, per convincere i Giganti ad unirsi al Signore Oscuro. Ma Thorfinn sarà costretto a confrontarsi con un passato che aveva cercato di dimenticare.
Prima classificata e vincitrice del premio originalità al contest Morsmordre di Princess of Slytherin, giudicata da saramichy
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro personaggio, Fenrir Greyback, Mangiamorte, Voldemort
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Età di venti, età di lupi.'
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Capitolo 2

Mia madre si chiamava Amelia, ed era originaria di un piccolo villaggio del Devon. Ricordavo ancora perfettamente i suoi occhi marrone chiaro, frangiati da lunghe ciglia, e il suo sguardo caldo e avvolgente. La sua era una famiglia benestante e non molto nota in Inghilterra, ma dallo stato di sangue impeccabile. Anche lei, come me, ricevette la sua lettera per Hogwarts nel suo undicesimo anno di vita. Quando fu il mio turno di prepararmi per andare per la prima volta in quella scuola, temetti il giudizio del Cappello Parlante. Non mi sentivo né coraggioso, né paziente, né ambizioso, né intelligente. Mia madre mi tranquillizzò dicendo che anche con lei il Cappello aveva avuto qualche difficoltà. Era stato in dubbio fino all’ultimo se smistarla tra i Corvonero o tra i Serpeverde. Alla fine, seppur con qualche incertezza, il Cappello Parlante aveva deciso che la sagacia e l’acume di mia madre prevalessero sulla sua ambizione e furbizia, ed io ero d’accordo. Avevo sempre pensato che mia madre fosse una donna generosa e amorevole, e che non avesse fatto niente per meritare il suo destino.
Terminati i suoi studi e guadagnato un ottimo numero di MAGO, mia madre si prese un anno sabatico, com’era consuetudine nella sua famiglia. Mio nonno fu entusiasta all’idea che la figlia potesse viaggiare, conoscere nuovi luoghi, nuove culture, nuove forme di magia. Era convinto che uno studio sul campo potesse essere più utile di sette anni chiusi in un castello di pietra a sventolare bacchette e ammuffire sui libri. Tutti in famiglia erano così orgogliosi dell’intelligenza di mia madre che si congratularono per giorni per la sua opportunità di conoscere il mondo. Tutti credevano che sarebbe stato un ottimo modo per permetterle di allargare i suoi orizzonti e mettere alla prova il suo cervello. Fu così che mia madre lasciò l’Inghilterra, intenzionata a esplorare l’Europa, e poi perché no, magari anche gli altri continenti. La sua prima tappa fu la Svezia. Amelia era sempre stata affascinata dalle leggende norrene, dai miti e dagli usi di quei luoghi. Sapeva che la Scandinavia era una terra antica, ricca di tradizioni sconosciute agli Inglesi, culla di una magia potente. Il desiderio di conoscenza di mia madre era effettivamente molto grande, così come aveva previsto il Cappello Parlante sette anni prima. Mia madre aveva previsto di fermarsi in Svezia non più di due settimane, ma, quando giunse il momento di partire, non si mosse. Raccontò ai suoi genitori di essersi innamorata dei paesaggi, della quiete, delle inesauribili fonti di conoscenza. E di un uomo, ovviamente. Mio padre, Odinresk, aveva l’aspetto del classico vichingo, e non solo quello. Alto e massiccio, capelli e barba rossi così chiari da sembrare quasi biondi, occhi azzurri. Le mani erano grandi e callose, probabilmente sarebbe riuscito a spezzare un collo umano senza troppa difficoltà. Ogni muscolo del corpo era perfettamente sviluppato dall’attività fisica e dalle lunghe marce in condizioni proibitive durante la caccia. Nel suo villaggio mio padre veniva considerato un cacciatore leggendario. Laddove non riusciva ad uccidere la preda al primo colpo, si lanciava all’inseguimento della bestia ferita, riuscendo ugualmente a farla sua, prendendola per sfinimento. Non mi fu difficile capire perché mia madre si fosse invaghita di un uomo come mio padre. Ancora più facile fu per me spiegarmi perché lui l’avesse ricambiata. I miei nonni chiesero più volte a mia madre di ritornare nel Devon, ma lei non acconsentì. Essi passarono allora agli ordini e alle minacce, ma lei non si mosse da Fagersta, dove aveva iniziato a convivere con Odinresk.
Mi era stato sempre raccontato che l’amore tra i miei genitori fu profondo e travolgente. Quando ero piccolo ci credevo, ma ora non riuscivo più a trattenere una smorfia disgustata ogni volta che la mente rievocava quei ricordi. Amore. L’invenzione più stupida e repellente mai creata dall’uomo.
I miei genitori non convivevano che da pochi mesi che mia madre rimase incinta di me. Sorpresa e turbata da questa scoperta, Amelia non seppe come comportarsi, né mio padre le fu molto d’aiuto. Mia madre si sentì, per la prima volta da quando aveva messo piede in terra straniera, davvero sola. Non lo ammise mai, non con me almeno, ma io lo capii dal velo scuro che le ricopriva gli occhi ogni volta che parlava della sua gravidanza. Non sapendo in che altro modo comportarsi, scrisse alla sua famiglia, raccontando tutta la verità. Mio nonno tuonò come neanche Odino Gunnarr, padre della battaglia. Comunicò a mia madre che l’avrebbe aiutata solo se lei e il padre di suo figlio fossero tornati in Inghilterra per sposarsi. Disperata, lei era pronta ad accettare le condizioni di mio nonno, ma non così solerte fu mio padre. Impiegò mesi per convincerlo che l’aiuto di qualcuno della sua famiglia sarebbe stato necessario, dato che Odinresk non aveva parenti in vita, né alcuno che potesse aiutare la coppia con il loro primogenito. Fu così che io nacqui a Fagersta, tra la neve, i neri tronchi d’albero protesi verso il cielo, il ghiaccio delle montagne, l’ululato dei lupi in lontananza. Amelia non fu felice come dovrebbero esserlo tutte le madri dopo il parto. Inveiva contro l’uomo che l’aveva ingravidata, sostenendo che le avesse rovinato la vita, inveiva contro la terra inospitale in cui era costretta a vivere e contro la solitudine che l’opprimeva. Quando mia madre non gridava, piangeva. Da adulto capii che si trattò sicuramente di depressione post partum. Fu allora che anche mio padre si accorse del grande bisogno d’aiuto che avevano, e acconsentì a venire in Inghilterra: la preoccupazione per le condizioni di mia madre prevalse sul suo attaccamento alla terra natia. Odinresk e Amelia tornarono quindi nel Devon, dai miei nonni materni, e si sposarono nella cappella della loro grande casa di campagna. Come magicamente risanata dal ritorno in patria e in famiglia, mia madre guarì in fretta, e le cose tornarono ad andare per il meglio. Con il tempo, anche i miei nonni impararono a conoscere mio padre, e a volergli bene.
Ricordavo i miei primi undici anni come un’infanzia molto piacevole. Più crescevo, più tutti si convincevano della mia somiglianza con mio padre. La mia famiglia era sicura che avessi preso da lui la corporatura massiccia, gli occhi azzurri e il pallore della pelle. I miei capelli biondi invece dovevano essere il punto di incontro tra il colore della capigliatura di mio padre e quello delle chiome di mia madre. Fui istruito a casa con un precettore, era un uomo anziano e un po’ burbero, ma molto paziente. Con lui imparai a leggere, a scrivere e a far di conto, inoltre mi insegnò la storia, la geografia, le scienze.
Avevo circa sei anni quando si manifestarono in me le prime scintille di magia; tutti i miei parenti erano estremamente fieri di me. Nonostante fosse passata praticamente una vita, ricordavo ancora perfettamente come avvenne. Mio padre, rimasto legatissimo alla cultura e agli usi scandinavi, usava portarmi a caccia nei boschi di proprietà di mio nonno. Si lamentava sempre che la selvaggina fosse troppo piccola e meno feroce di quella della nostra terra natale, ma ogni tanto riuscivamo ad abbattere qualche cervo. Nonostante le deboli proteste di mio nonno, mio padre mi portò nei boschi fin da quando ero piccolissimo. Ancora non avevamo avuto la certezza che avessi poteri magici, perciò cacciavamo con arco e frecce. Mio padre però portava sempre la sua bacchetta infilata nella cintura, nell’eventualità in cui il suo utilizzo fosse stato indispensabile, e io fui fin da subito attratto da quella misteriosa ma potente stecca di legno. Un giorno che mio padre mi portò tra i boschi, scorgemmo presto uno splendido esemplare di cervo: il manto era chiaro e lucente, le corna enormi e ramificate. Era una bestia giovane e perfettamente in salute. Non sarebbe stato facile riuscire ad abbatterla, perciò non mi sarei stupito se avesse voluto provarci mio padre. Invece lui insistette affinché tentassi io. Finalmente riuscimmo a braccare il cervo in una radura, ma, per la tensione, la freccia che avevo incoccato nel mio arco mi sfuggì di mano e colpì l’animale in un punto che non gli fu letale. Mio padre non mi rimproverò per l’errore, ma mi spronò a gettarmi all’inseguimento del cervo ferito. Con ostinazione mi infilai a testa bassa nel folto degli alberi, seguendo la scia della bestia. Dopo un po’, con mio grande disappunto, mi accorsi di averla persa. Mio padre era rimasto un po’ indietro, volendo lasciarmi fare da solo. Non avrei mai voluto deluderlo tornando da lui a mani vuote. Fu così che mi arrampicai su un albero che protendeva i suoi lunghi rami su una radura, attraversata da un gorgogliante corso d’acqua. Prima o poi il cervo si sarebbe venuto ad abbeverare, avrei aspettato anche tutta la notte, se necessario. Ma le mie speranze vennero esaudite prima del previsto: quando vidi il collo lungo e muscoloso dell’animale chinarsi verso il ruscello, incoccai un’altra freccia nel mio arco. Tesi bene la corda: intendendo evitare altri errori. Ma prima che potessi scoccarla, preceduto da un sinistro scricchiolio, il ramo sul quale sedevo si ruppe, precipitandomi al suolo. Riuscivo ancora a sentire l’urlo di mio padre, affacciatosi alla radura appena in tempo per vedermi venire giù dall’albero. La paura che provai mi impedì di ricordare successivamente cosa accadde, sapevo solo che d’un tratto mi ritrovai comodamente seduto su un mucchio di foglie secche ai piedi dell’albero, al sicuro. Nelle mani stringevo solo l’arco, vuoto. La freccia emergeva dal collo del cervo, stramazzato al suolo, con il sangue che gorgogliava dalla carotide recisa. Quel giorno compii per la prima volta una magia. E uccisi il mio primo cervo. Da quel momento in poi, non cacciai mai più con arco e frecce.
Io e i miei genitori provammo un’emozione simile quando, in occasione dei miei undici anni, ricevetti la lettera di ammissione ad Hogwarts. Partii per il mio primo anno di studi con il sorriso sulle labbra e l’immagine di mia madre che mi salutava sventolando un fazzoletto negli occhi. Il Cappello Parlante mi smistò tra i Serpeverde, quella fu davvero un’ottima scelta, pensai posando lo sguardo sul Marchio Nero impresso sul mio avambraccio sinistro. Negli anni successivi circolarono strane storie, secondo cui i maghi appartenuti alla Casa del grande Salazar sarebbero stati i più facili a convertirsi al lato oscuro, alla causa di Lord Voldemort. Non sapevo se quelle voci fossero fondate, potevo però dire che per me le cose andarono esattamente in quel modo.
Gli anni che passai ad Hogwarts furono molto piacevoli e soddisfacenti; tornavo a casa solo in occasione delle vacanze di Natale e di quelle estive. La mia era sempre stata una famiglia felice, non vedevo l’ora di recarmi di nuovo nel Devon.
Non seppi precisamente quando, ma d’un tratto le cose cambiarono, o forse fu solo che io presto crebbi abbastanza da rendermi conto che erano sempre state diverse da come ero abituato a vederle. Il silenzio composto di mio padre si rivelò essere un ostinato mutismo, i modi pacati dei miei nonni un freddo distacco. Mi accorsi che, nonostante mia madre sorridesse sempre, la luce emanata dalle sue labbra non riusciva a raggiungere i suoi occhi. Come avevo potuto essere cieco per tutti quegli anni? La mia non era una famiglia felice, era solo brava a sembrare tale. Mio nonno non aveva mai potuto perdonare Odinresk per aver messo incinta la figlia. Mio padre non riusciva a sentirsi a casa sua in Inghilterra, rimpiangeva ogni giorno di più i ghiacci e le tenebre della sua amata Scandinavia. Mia madre si era solo illusa di essersi ripresa, di essere riuscita a fare combaciare i pezzi della sua vita, ma mentiva a se stessa. Mi accorgevo dell’atmosfera pesante che si respirava in casa solo nei momenti in cui ero nel Devon per le vacanze, nonostante i miei parenti si sforzassero di mantenere una parvenza di normalità. Chissà che cosa doveva essere quel luogo durante la mia assenza.
La svolta però  avvenne durante il mio diciassettesimo compleanno. Ero nel salone della villa di campagna dei miei nonni, i miei parenti erano tutti intorno a me. Non riuscii a credere ai miei occhi quando mio padre mi regalò il ciondolo a forma di Drakkar che portava sempre. Dopo aver brindato con il vino elfico, quando i miei nonni e mia madre si furono ritirati nelle loro stanze, mio padre, che per una volta mi sembrava genuinamente felice, mi trattenne, posandomi le mani sulle spalle. Mi disse che presto saremmo tornati in Svezia, a Fagersta. A casa.
L’indomani tornai ad Hogwarts senza essere riuscito a riprendermi dalla sorpresa provocatami da quelle parole. Ero insieme spaventato ed eccitato dalla prospettiva di una nuova vita. Inoltre, dopo anni in cui avevo vissuto con gli usi e le abitudini delle terre del nord, parlando con mio padre solo in svedese, l’idea di ritornare a Fagersta mi riempiva di aspettativa.
Non passò neanche una settimana che mi arrivò una lettera da parte di mia madre, con cui diceva che mio padre era andato via. Svanito, fuggito abbandonando lei e me. Pochi mesi più tardi, consunta dal dolore, mia madre morì.
   
 
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