16/01/2012
7 recensioniBITTEN
1. RISVEGLIO
La pioggia scrosciava umida e fredda.
Le batteva sulla pelle ritmicamente, con violenza.
I capelli neri e lucenti le si erano incollati al volto e lungo il collo e i vestiti bagnati le si appiccicavano addosso, trasparenti. Non aveva freddo.
Scrutava con i suoi occhi il paesaggio attorno a lei, umido, bagnato. Le colline verdeggianti, gli alberi alti e possenti, il cielo plumbeo dal quale si rovesciavano fiotti d’acqua e fulmini.
Più in lontananza una città, un piccolo paesino dai palazzi grigi, che era quasi del tutto nascosto dalla nebbia.
Ma non per lei.
Il suo sguardo riusciva a cogliere tutto nel minimo dettaglio.
I contorni frastagliati delle case, le ombre che le nuvole grigie gettavano su di esse e tutto intorno una vasta distesa di verde.
Le gocce di pioggia le correvano giù dal volto come se fossero lacrime, incastrandosi tra le ciglia degli occhi e scendendo giù lungo le guance pallide e rotonde.
Non aveva più freddo da qualche giorno ormai. Da qualche giorno non aveva più nemmeno una famiglia.Vagava solitaria tra gli alberi, con immensa tristezza e un profondo vuoto nell’anima. Sempre che l’anima ce l’avesse ancora.
Sospirò e ancora una volta si accorse di quanto quel gesto le risultasse inutile.
L’odore di pioggia e di terra bagnata e grumosa le pizzicò le narici. Un tempo trovava quell’odore il più bello del mondo. Ora era solo uno l’odore che voleva sentire.
Era solo uno l’odore che le piaceva terribilmente e che le solleticava i nervi, il palato, le labbra, la lingua.
Al solo pensiero sentì qualcosa di duro e affilato premere contro le sue labbra, graffiandogliele.
Ritirò le zanne velocemente.
Ancora non si era abituata a quanto potesse fare con i poteri che si ritrovava. E né voleva farlo.
Rivoleva indietro la sua vecchia vita o almeno tutto ciò che la rendeva umana.
Il cibo, il colore della pelle, il calore del suo corpo, gli amici, tutto. E invece ora era un vampiro.
Si prese la testa tra le mani, crollando a terra. Le dita affondarono nella superficie terrosa, strappando l’erba, mentre lacrime di rabbia le scorrevano lungo il volto, mischiandosi alla pioggia. Stese il corpo bagnato sull’erba, strofinando violentemente il volto contro la terra.
Voleva svegliarsi da quell’incubo e invece non poteva nemmeno dormire.
Con uno scatto poderoso si rimise in piedi e iniziò a correre.
Un mostro. Pensava.
Sono un mostro. E non cambierò mai. Ho sedici anni e il mio corpo sarà sempre e solo questo.
Un singhiozzo le uscì dalle labbra rosse e corse ancora più velocemente, addentrandosi nella foresta.
Sentiva i muscoli delle gambe e dei fianchi tendersi al movimento, poderosi e duri. Ancora non si era resa conto di quanto veloce potesse correre.
I capelli le si impigliavano lì dove la vegetazione era più folta, ma altrettanto rapidamente scivolavano tra i rami contorti delle piante.
Con un balzo superò un grosso albero abbattuto e atterrò con violenza dall’altra parte. Si prese la testa tra le mani, scuotendo via dai capelli le foglie e i granelli di terra.
Un mostro. Pensò con rabbia, sferrando un pugno all’albero più vicino.
Vide quello scalfirsi profondamente e i graffi della sua mano rimarginarsi immediatamente.
Voleva ferirsi, voleva provare dolore, qualunque cosa pur di sentire un briciolo di sensazioni umane dentro di sé.
Sferrò un altro pugno all’albero, stavolta con più forza, con più precisione. La corteccia le graffiò la pelle dura e alcune gocce di sangue rotolarono giù dalla mano. Alla vista del sangue le zanne le rispuntarono violentemente.
Aveva fame.
Annusò il suo sangue, cercando di capire qual era la differenza tra il suo e quello di un essere umano qualunque. Il suo sapeva di ghiaccio e morte, di cenere e veleno. Disgustata allontanò dal viso la sua mano, che si stava già rimarginando.
Il mio sangue è freddo. Il mio cuore non batte più. pensò posandosi una mano sul petto, dove una volta sentiva il pulsare lento e regolare del suo cuore che ora era solamente una sacca vuota e priva di funzione.
Vide il riflesso del suo volto in una pozzanghera.
Portò lentamente le mani al viso.
Questa faccia non cambierà mai. Avrò sempre le sembianze di una sedicenne.
Per sempre.
Capelli neri, leggermente mossi, guance paffute e occhi grandi.
La trasformazione l’aveva cambiata molto.
E non solo dal prestamento fisico. Ora era velocissima, fortissima, tutti i suoi sensi erano molto più amplificati. La vista, l’udito, il tatto, l’olfatto. Persino il gusto di tutto ciò che mangiava era molto più sviluppato.
Tuttavia non era quello che intendeva.
Il suo corpo era cambiato totalmente.
Quelli che un tempo erano difetti, tra gli umani, ora l’avevano resa molto più attraente.
Come una belva. Come una pianta carnivora, con quei suoi fiori semplicemente stupendi, ma che in realtà sono bocca e denti. Si disse sfiorandosi con un dito le zanne.
Le ritrasse.
Prima della trasformazione era una ragazza normalissima.
Un viso paffuto dove spiccavano un paio di occhi neri e grandi, un corpo abbastanza in carne e un paio di mani affusolate, dalle dita leggermente cicciotte.
Ora invece non si riconosceva quasi più. Le mani erano molto più delicate, era smagrita di molto e quella rotondità che un tempo trovava irritante e fastidiosa, ora la trovava addirittura attraente.
Le curve dei fianchi e del seno erano ben marcate, mentre la pancia era piatta e attraverso la maglietta bagnata si intravedeva una schiera appena accennata di addomi.
Il viso era sempre lo stesso, le guance ben rotonde e gli occhi grandi.
Le labbra si erano scurite leggermente, spiccando sulla carnagione pallida.
E gli occhi … un tempo neri e lucenti e ora …
Rossi. Pensò.
Rossi come il sangue, di una tonalità piuttosto scura e vicino alla pupilla vi galleggiavano delle pagliuzze dorate. Li chiuse per un attimo.
Vide la sua vita, tutto quello che aveva. La sua famiglia, i suoi amici, le risate quando guardava un comico in tv.
Tutto scomparso.
Tutto scomparso quattro giorni prima, un sabato, mentre stava camminando per la foresta alla ricerca di una pianta da analizzare per il compito di biologia.
Si era allontanata troppo, lo sapeva.
Ma il suo unico timore era quello di non riuscire a ritrovare la strada per tornare indietro, non quello di imbattersi in un vampiro!
Per un attimo si era trovata ad osservare quell’ombra che avanzava in una pozza di luce dorata.
Poi, l’ultima cosa che aveva sentito era qualcosa di duro e freddo che le bruciava la pelle e, più sotto, il sangue.
Dopo due giorni si era risvegliata.
La prima cosa che aveva fatto era stata prendere uno scoiattolo e mangiarselo assaporando il gusto caldo del sangue che le colava lungo la gola. Le era piaciuto sentirsi più forte, più viva e sentire le pulsazioni dell’animale mutilato, farsi sempre più deboli nelle sue mani.
Quando si era accorta di quello che aveva appena fatto aveva scagliato lontano il corpo dello scoiattolo e dopo tanto tempo aveva capito che l’unico modo per non morire o per non fare del male agli esseri umani era quello di riempirsi lo stomaco con il sangue animale.
Che era ottimo, senza dubbio.
In quei giorni aveva cercato di capire cosa i vampiri potessero fare e cosa, invece, non dovevano fare.
Ma tutto quello che conosceva, o ricordava dai racconti di quando era bambina, erano stupide leggende.
Chissà cosa era vero e cosa invece non lo era.
Poteva entrare in un suolo consacrato?
L’aglio la teneva a distanza?
E l’acqua santa le bruciava la pelle?
Come poteva morire?
Tutte queste domande erano senza risposta. E sapeva che per capire cosa fare doveva tornare giù in città.
Per capire se poteva e quanto tempo poteva resistere senza sangue o tra esseri umani. Ma la cosa che voleva di più era la vendetta.
Voleva trovare chi l’aveva uccisa così brutalmente e voleva fargliela pagare.
Perché anche se fosse stato un gesto folle, privo di controllo per la mancanza di sangue da diverso tempo, il vampiro poteva almeno aspettare il suo risveglio e aiutarla a capire la sua situazione.
E invece non l’aveva fatto.
L’aveva lasciata da sola ad affrontare una nuova se stessa, di cui non conosceva praticamente più niente.
Si sedette per terra, incrociando le gambe.
Lì dove la vegetazione era più fitta i rami degli alberi creavano una cortina spessa che non lasciava scivolare giù le gocce di pioggia.
Si raccolse i capelli in una coda umidiccia e iniziò a pensare a cosa potesse fare per iniziare.
Per iniziare a capire.
Arrabbiarsi non serve a niente, ora. Appena troverò quell’animale che mi ha messo in questo casino, lo farò a pezzi. Adesso, però, devo capire cosa fare.
Fissò il vuoto per una decina di minuti, prima di decidere che la prima cosa da fare era cacciare.
Doveva mangiare a sufficienza per mantenersi forte e vigile.
Però, questo poteva farlo solo dopo che la pioggia avrebbe smesso di cadere giù a secchiate, così gli animali sarebbero usciti nuovamente allo scoperto e sarebbe stato più facile ucciderli.
Si rimise in piedi.
Dal momento che non aveva niente da fare se non stare a piangersi addosso, decise di recarsi nel luogo dove tutto era finito.
E dove tutto era cominciato.
Si incamminò con cautela attraverso gli alberi, seguendo la scia dei ricordi.
Giunse nella piccola radura dove si era fermata ad osservare una piccola pianta che non aveva mai visto da quelle parti.
Era la stessa radura dove si era risvegliata.
Guardò nel punto in cui l’aveva visto la prima volta.
Non sapeva come avesse fatto a capirlo, ma di certo, l’essere mostruoso era un lui. Con cautela si fece più avanti, dove la vegetazione era meno folta.
I suoi passi non producevano più il minimo rumore.
Annusò la corteccia di un albero, dilatando le narici e inspirando a fondo l’essenza della pianta e anche di qualche altra cosa. Più sotto, sotto l’odore del legno bagnato e della linfa appiccicosa, era trattenuto un altro aroma, leggermente più intenso, ma che era stato cancellato in parte dalla pioggia.
Cannella. Cannella e un pizzico di … di oceano.
Si scostò velocemente dall’albero.
Aveva funzionato! Riusciva a percepire l’odore di un suo simile, come se fosse la sua preda!
Forse grazie a quell’odore l’avrebbe riconosciuto.
E allora, per lui sarebbe stata la fine.
Alzò gli occhi al cielo. Aveva smesso di tuonare e anche la pioggia si era diradata.
I musetti impauriti dei conigli iniziavano a far capolino dai cespugli e gli uccellini iniziavano ad intonare i loro canti melodiosi con cinguettii acuti e dolci.
Angela si accovacciò, i capelli che le ricadevano sulle spalle, sciolti e liberi e gli occhi che lanciavano fiamme.
La caccia ha inizio. Pensò spiccando un balzo, le zanne scoperte e brillanti nella semioscurità della foresta.
Era scuro.
Aveva cacciato e mangiato a sufficienza per diverse ore.
I cadaveri degli animaletti uccisi, giacevano tutto intorno a lei, squartati dalle sue zanne e stritolati dalla morsa delle sue mani.
In loro non vi era più alcuna goccia di sangue.
Con un dito, Angela si pulì le labbra sporche di sangue in parte raggrumato.
Lì dove era più fresco, la lingua saettò veloce, annaspando in tutte le screpolature delle labbra, succhiando via ogni rimasuglio dalla bocca e dai denti.
Era incredibile quanto vorace potesse essere.
Nonostante fosse sazia, l’idea del sangue le faceva ancora scendere i brividi lungo la spina dorsale e la lingua schioccava impaziente contro il suo palato, desiderosa di assaporarne ancora.
L’indomani sarebbe tornata a casa.
Doveva scoprire qualcosa in più sul vampiro in circolazione da quelle parti e impedire che facesse del male ad altre persone, per sempre.
E in più non poteva darsi per dispersa.
I suoi genitori erano sempre fuori città, ma come sempre, ogni tanto doveva chiamarli per far sapere loro come stava e per rassicurarli, senza contare che sua madre stava attraversando un brutto periodo in quel momento.
E poi tutti i suoi amici … non poteva abbandonarli così.
Anche se sapeva che prima o poi avrebbe dovuto farlo. Lei non sarebbe mai cresciuta. Mentre loro, invece, sarebbero invecchiati e sarebbero morti.
Doveva accettare ciò che era diventata. Ormai era così e basta.
Doveva capire bene la sua essenza per poter contrastare quello che di malvagio era in lei.
E l’avrebbe fatto l’indomani mattina. Sperando che il sole non avesse su di lei conseguenze catastrofiche. Come bruciare, ad esempio.
Ma probabilmente non sarà così … si disse pensando all’ombra che la attaccava, illuminata dalla luce del sole.
Chiuse gli occhi.
Non poteva dormire né sognare, l’aveva scoperto da poco.
Tuttavia, se abbassava le palpebre con l’intenzione di riposarsi, un leggero torpore cadeva su di lei, in una fase di dormiveglia. Le permetteva di assentarsi da tutto ciò che la circondava ma, al tempo stesso, di essere consapevole di ciò che avveniva.
Riaprì gli occhi qualche ora dopo l’alba.
Uno strano silenzio avvolgeva la foresta, nonostante gli animali che la abitavano, fossero già in fermento.
L’umidità della notte le aveva bagnato leggermente i vestiti e i capelli erano ritornati ad essere umidi.
Si alzò in piedi, specchiandosi in una pozzanghera non del tutto secca.
Fu sorpresa nel vedere che di giorno la sua pelle e i suoi occhi erano più scuri. Soprattutto gli occhi. Mentre di notte si accendevano di un rosso allarmante e pericoloso, di giorno sembravano quasi neri, come un tempo.
Aveva un aspetto a dir poco selvatico.
I capelli arruffati, il viso predatore, gli occhi di uno strano colore e i vestiti schizzati di sangue.
Si tolse la maglietta, sbatacchiandola nell’acqua della pozzanghera e strofinandola violentemente, cercando di far andare via le macchie di sangue.
Un cerchio di luce si apriva a pochi metri davanti a lei, i raggi dorati che riflettevano la loro luce calda sulla terra e sulle foglie cadute dagli alberi.
Con cautela vi si avvicinò, le mani strette ancora sulla maglia.
Allungò tremante una mano verso la luce ma non successe nulla.
Si aspettava un bruciore immenso, oppure credeva di vedere la sua mano sbriciolarsi davanti ai suoi occhi e invece l’unica sensazione che avvertiva, era un leggero formicolio sul palmo esposto alla luce.
Pian piano, mosse prima un passo e poi l’altro verso la conca illuminata e si ritrovò avvolta in un raggio di sole.
La pelle le formicolava, persino i capelli sembravano gioire di quel tepore inaspettato. Tuttavia la sua pelle rimaneva dura e fredda come il marmo.
Osservando meglio la pelle nuda a diretto contatto con la luce, notò che sembrava più sfuggevole e scura.
Quasi un’immagine sfocata come …
come un’ombra! Ricordò.
Era strano. Era sempre lei, la sua immagine era la stessa ma alla luce del sole si faceva più scura, come se fosse coperta dalle nuvole, piuttosto che illuminata dagli splendidi raggi pallidi e caldi.
Scoprì che la vista era anche molto meno acuta quando era alla luce, rispetto a quando si trovava rintanata nell’ombra sicura della foresta e che forse per questo motivo i suoi occhi assumevano un colore più normale.
Si stese nel cerchio dorato, assaporando il leggero formicolio sulla sua pelle.
La maglietta l’aveva stesa ad asciugare su alcuni sassi esposti alla luce e lei era lì, sorridente, come se non fosse mai successo niente.
I raggi che si intrecciavano ai suoi capelli sparsi, ricoprendoli d’oro e asciugandoli. Quando la maglietta fu abbastanza asciutta e il sole si fece più alto, Angela si alzò, infilò la maglietta e corse via, in direzione della città.
Voleva raggiungere la sua scuola e continuare la sua vita, con una piccola modifica. Ora aveva un obiettivo.
E anche un indizio.
Cannella e oceano.
Corse tra gli alberi, fino al limitare del bosco e poi giù per la collina, con gli steli d’erba che si spostavano velocemente al suo passo, come se stesse soffiando un forte vento.
Arrivata in città, rallentò il passo, mantenendo un’andatura agile e costante.
In pochi secondi fu davanti a casa sua, un palazzo antico di colore rosa, dalla vernice leggermente scrostata in alcuni punti.
Dette un’occhiata veloce attorno a sé e, assicuratasi che non ci fosse nessuno, si arrampicò agilmente lungo la facciata della casa, aprì una finestra e si intrufolò all’interno dell’edificio.
Richiuse le imposte e con passo felpato raggiunse la sua camera.
Si spogliò e si fece una doccia.
L’acqua calda sembrava scivolarle addosso senza sciogliere il freddo che la riempiva. Indossò dei vestiti puliti e uscì di casa con lo zaino di scuola in spalla.
Camminò fino a quando non raggiunse il cortile dell’edificio giallognolo che era la sua scuola. Un enorme complesso che occupava una buona parte della strada di periferia.
Non dovette aspettare molto, ed ecco i primi studenti entrare e aspettare che la campanella suonasse l’inizio delle lezioni.
Ricordava quanto le piaceva studiare.
Lo faceva per il suo futuro, perché voleva diventare medico.
Ma come faceva ora a diventare un buon dottore se sentiva odore di sangue ovunque? A poco a poco il cortile si riempì.
Per i primi attimi l’odore forte e travolgente della carne fresca le fece quasi perdere i sensi.
Doveva rimanere lucida. Si appoggiò al cancello e cercò di rilassarsi il più possibile. L’odore della carne, il sole che le batteva sulla pelle, tutto rendeva la situazione terribilmente astratta.
Una folata di aria gelida la riportò alla realtà.
Era in una scuola, in pieno giorno, circondata dai suoi amici e lei non doveva essere un mostro.
Dopo pochi istanti riuscì ad estraniarsi dall’odore che la perseguitava.
Non era poi così opprimente come aveva immaginato.
Con un po’ di concentrazione scoprì di potercela fare.
Il sangue umano non aveva nulla di diverso da quello animale, era solo più … travolgente l’odore.
Con un po’ di esercizio e lo stomaco pieno, forse sarebbe riuscita a trattenersi per i prossimi secoli.
Sentiva le vene pulsare sul collo degli studenti umani, sentiva il loro sudore, la loro pelle calda e profumata che la circondava ma più persone c’erano, più lei capiva di riuscire ad estraniarsi dal profumo del sangue.
Certo, il richiamo c’era, ma riusciva a trattenerlo, fortunatamente.
Proprio mentre la campanella squillava, una voce la chiamò.
Riuscì ad udirla solo grazie all’udito sviluppatosi con la trasformazione.
Si voltò. Roberta le correva incontro, sorridente.
Sentì una risata e si stupì quando capì a ridere era stata lei. Non rideva da giorni e quel suono le era sembrato così astratto!
Appena l’amica la raggiunse, si abbracciarono, ridendo come due bambine.
–Ma dove sei stata? Sei scomparsa da giorni pensavamo che fossi stata rapita o fatta fuori da un serial killer!!- scherzò Roberta ridacchiando.
I capelli castani le ricadevano sul volto, conferendole un’aria da scolaretta sbadata. Angela scosse la testa. –Ero in vacanza dai miei zii. Sono andata a trovarli a Waterville .- mentì.
–Oh!- esclamò Roberta. –Tua madre non ha detto nulla di tutto ciò! Mi hanno chiamata, hanno detto che non ti eri fatta sentire. La tua famiglia era in pensiero!- disse Roberta abbracciandola d’impulso.
Angela ricambiò, esitante.
Roberta era la sua migliore amica, non aveva segreti per lei e ora si ritrovava a doverle mentire per proteggerla.
Che situazione orribile!
–Sì, beh … credo che mia madre l’abbia dimenticato. Sai in questo periodo non è più come un tempo ora lei è …
-Sì abbiamo saputo che tua madre ha avuto dei problemi.- disse una voce irritante. Angela si voltò in quella direzione, con gli occhi di fuoco e le mani che le tremavano per lo sforzo di trattenersi.
–Già … - disse a denti stretti.
A parlare era stato John un ragazzo allampanato, sempre attaccato al suo iphone, che spiccicava qualche parola di tanto in tanto.
Angela si guardò attorno.
Erano tutti lì, in cerchio attorno a lei mentre salivano le scale per raggiungere l’aula di inglese.
Non si era accorta di loro. E loro non avevano fatto molto caso a lei, come sempre dopo una sua assenza.
Era più che frequente che si assentasse per qualche giorno da scuola e i suoi amici se ne erano fatti una ragione, rinunciando per un po’ alla sua “vivace compagnia”, come la definivano loro.
Dicevano che era simpatica e che li risollevava dopo una giornataccia di studio.
Per i primi periodi le avevano chiesto come stesse, se la situazione fosse migliorata, ma poi avevano deciso di non toccare più l’argomento.
I suoi genitori non erano mai in casa e a volte lei andava a stare da alcuni zii nella capitale.
Ma possibile che non si fossero accorti di quanto lei fosse cambiata?
Possibile che credessero ancora che tutto fosse come prima?
–Sempre il solito gentiluomo, John complimenti!- si infuriò Roberta.
Il ragazzo fece una smorfia senza staccare gli occhi dal cellulare.
Beh, non proprio tutti evitano l’argomento … si corresse Angela.
–Comunque sei in ottima forma!- le sorrise Roberta cambiando discorso.
Oh, cavolo!
–L’hai notato, eh? Ho fatto un po’ di esercizi con i miei cugini e adesso sto meglio di prima, credo.- non era mai stata brava a dire bugie.
Sembrava che dovesse imparare e dirle e anche piuttosto in fretta.
–A quanto pare non sono l’unica ad essermene accorta!- stava dicendo Roberta ammiccando a due ragazzi del quinto anno che guardavano Angela a bocca aperta.
–Eh, no. A quanto pare no … - mormorò lei triste.
Il suo fascino scolpito iniziava già a fare vittime. Anche i suoi amici la guardavano sottecchi deviando sempre il loro sguardo quando lei li beccava a fissarla.
-Lei dov’è? Hai avuto sue notizie?- chiese Angela.
–No, no, sempre il solito. È in una nuova clinica. Fuori città. Tuo padre era già lì per lavoro e per firmare alcuni documenti necessari per farla ricoverare. Starai sola per un po’, se vuoi, però, puoi sempre stare a casa mia. I miei non ribatteranno. - rispose Roberta.
Angela annuì e biascicò un “ci devo pensare”.
Bene. Una madre ricoverata per tumore al cervello, un padre fuori per lavoro, io vampiro e il verme che non è stato ancora trovato. Non poteva andare meglio di così!
Pranzo. Angela e Roberta uscirono dall’aula e si predisposero per fare la fila, riempiendosi il vassoio di cibo.
Raggiunsero il tavolo occupato dai ragazzi e si sedettero.
Roberta iniziò a sgranocchiare un po’ del suo pasto, mentre Angela girava e rigirava la porzione di riso freddo con un cucchiaio.
L’odore di cibo umano le faceva rivoltare lo stomaco, non aveva niente a che fare con quello intenso del sangue.
Tuttavia prese una cucchiaiata e la mise in bocca, arricciando il naso.
I chicchi di riso le scendevano lungo la gola senza avere un sapore preciso. Le prudevano contro la lingua, le graffiavano la trachea come se stesse inghiottendo piccoli sassolini appuntiti.
Tossì, infastidita e alzò lo sguardo verso Roberta, che guardava l’altra parte della sala, sognante.
Angela volse lo sguardo in quella direzione e lo vide.
Alto, capelli biondi sul rossiccio, occhi di un verde troppo intenso, circondato da una marea di studentesse.
Porca miseria! Carino! Pensò sgranando gli occhi.
–Chi è?- chiese con un filo di voce all’amica.
Lo stomaco sembrava essere invaso da farfalle svolazzanti e il cuore se avesse potuto, ne era sicura, le avrebbe battuto a mille. Una strana spinta la costringeva a non staccare gli occhi dal ragazzo, le mani erano attraversate da un leggero tremore ed aveva la schiena percorsa da brividi e formicolii.
Forse è l’effetto del cibo … pensò poco convinta.
–È arrivato quando tu non c’eri, è un nuovo studente ed è decisamente bellissimo!!- rispose l’amica, eccitata, senza distogliere lo sguardo dal ragazzo nuovo.
Angela lo osservò per qualche istante.
Il ragazzo si passò una mano tra i capelli corti, mentre le ragazze sbavanti attorno a lui strabuzzavano gli occhi e lanciavano gridolini folli. Sfoderò un sorriso obliquo e sornione e alcune studentesse svennero, mentre lui continuava ad avanzare verso un tavolo vuoto, il passo fluido ed elegante, gli occhi verdi illuminati di ironia, la pelle pallida e tesa, la maglietta stropicciata sotto la quale si intravedevano le linee marcate dei pettorali e dei muscoli delle braccia.
–Si chiama Ryan Orlean fa il quarto ed è un fico da paura!- sospirò Roberta.
–Questo lo vedo da me!- mormorò Angela leggermente sarcastica.
–Ha un non so che di ripugnante. – aggiunse poi.
–Ripugnante dici? Io lo trovo terribilmente travolgente.-
Già … pensò Angela.
È questo il guaio … Non posso permettermi distrazioni. Soprattutto distrazioni umane …
Alcuni studenti spalancarono l’entrata che dava nel cortile della sala mensa e una forte folata di vento travolse Angela.
Scattò in piedi, rovesciando per terra il tavolo e la sedia. Gli occhi serrati, i denti brillanti digrignati, i capelli corvini che le svolazzavano al vento e i muscoli tesi pronti a scattare.
Il tonfo del tavolo aveva zittito tutte le urla degli studenti affamati che ora la guardavano con tanto d’occhi, compreso il ragazzo nuovo.
Cannella e oceano.
L’odore familiare che aveva imparato ad odiare le devastò le narici, salendo pungente sino al cervello, che emanava un solo impulso.
Uccidere.
Lui è qui.
I loro occhi si incontrarono, verde e nero e quelli di lui si sgranarono in un’espressione di consapevolezza colpevole.
Nella sala non volava una mosca e gli occhi degli studenti saettavano da Angela a Ryan e viceversa.
Lei quasi rannicchiata su se stessa, elegante ed agile, il corpo sinuoso e i muscoli vigorosi pronti a slanciarsi verso un Ryan altrettanto muscoloso, ma che non aveva la più pallida intenzione di fare niente.
Rimaneva lì impalato, bellissimo nella sua espressione confusa e colpevole.
Fece un improvviso passo indietro, quasi impercettibile, ma lo fece.
Gli occhi di tutti si puntarono su Angela, che al movimento di lui aveva iniziato a ringhiare sommessamente.
Il suo bel volto era trasfigurato in una maschera di rabbia, gli occhi neri che lanciavano saette in direzione del ragazzo.
Bene Ryan Orlean … finalmente ti ho trovato. Cannella e oceano. Vampiro. Non umano. Vampiro. Assassino.
Ti farò a pezzi.