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Autore: sayuri_88    18/01/2012    7 recensioni
Se su una spiaggia mentre osservi il tramonto facessi un incontro speciale?
Ho pensato a come deve essere passare le vacanze estive per una persona che non può, per cause di forza maggiore, passare una giornata sotto il sole come fanno tutti ed è uscito questo...spero vi piaccia^^
Dal capitolo:
Sognavo che un giorno avrei potuto correre sotto il sole, andare alla spiaggia a nuotare e poi asciugarmi sulla sabbia, pranzare in un parco mentre i raggi del sole sfioravano la mia pelle come delle carezze. Un sole che mi era amico insomma. Ma la realtà era ben diversa.
Genere: Generale, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Coppie: Bella/Edward
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film
Capitoli:
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Ciao! Mi ero ripromessa di non postarla perchè volevo completarla prima, ma mi sono venuti tanti dubbi e così ho deciso di postare il secondo capitolo per sapere se il seguito vi piace. Sono al quinto capitolo e sono nel panico perchè non so se vi può piacere. Quindi lascio a voi l'ardua sentenza. Posso andare avanti o nessuno leggerebbe gli altri capitoli?
Colgo l'occasione di ringraziare le ragazze che hanno recensito l'OS le vostre parole mi hanno fatto davvero piacere, quindi grazie per aver perso due minuti per scrivermi due paroline^^

Se volete contattarmi vi ricordo la mia pagina FB dove sono sempre a vostra disposizione. 

Ora vi lascio alla storia... Solo una premessa: quando arrivate alla fine non lanciatemi pomodori o uova, cibo andato a male o oggetti appuntiti : )

Per sicurezza si nasconde...

 




 

 



... Forks ...



 
“Il comandante vi comunica che siamo arrivati all’aeroporto di Port Angeles. Speriamo che il viaggio sia stato di vostro gradimento e che viaggerete ancora con la nostra compagnia. Vi ricordiamo inoltre di controllare di non aver dimenticato nulla: borse, libri o suocere indesiderate…”
 
Una risata generale nacque alla battuta del capitano, poi i passeggeri si alzarono e iniziò una lunga processione per uscire da quella scatola di ferro. Vicino al portellone di uscita c’era una hostess bionda, che sorrideva gentile ai passeggeri che le passavano davanti ringraziandoli e augurandogli buon soggiorno nella città. Era perfetta nella sua divisa inamidata, col trucco impeccabile e i capelli raccolti in un’alta crocchia su cui era fissato il cappellino con la spilla della compagnia aerea.
— Grazie e arrivederci — mi disse quando le passai davanti.
— Arrivederci.
 
L’aeroporto era poco affollato, così riuscì a recuperare i miei bagagli molto velocemente, e uscì. Subito fui colpita da una ventata d’aria non fredda, gelida, che mi obbligò a cercare riparo nel mio cappotto nuovo. Il cielo era plumbeo, di un tetro grigio scuro - così diverso dal mio amato cielo della Florida - e dove i birichini raggi solari facevano capolino tra le nuvole. Qui il Sole sembrava un concetto astratto e per quanto esso m’impediva di passare le giornate fuori casa a Jacksonville, mi piaceva, mi trasmetteva calore, benessere. Tutto sotto la luce dei suoi raggi si colorava di vivacità e gioia.
Il cielo di Forks mi trasmetteva solo tristezza e desolazione, già troppo presenti nella mia vita in quel periodo. Scacciai a forza quei pensieri negativi e ritornai a osservare il manto di nuvole. Era per questo motivo che non avevo mai voluto andare a vivere da Charlie.
 
Charlie Swan, il bravo sceriffo di Forks, che in quel momento mi aspettava appoggiato alla macchina di servizio della polizia, le braccia conserte sul petto e lo sguardo serio impegnato a osservare ogni faccia che usciva dall’aeroporto. Si aprì in un sorriso quando inquadrò il mio viso, un sorriso che contagiò anche me. Nonostante tutto, ero felice di rivederlo.
Mi raggiunse subito, liberandomi dal peso delle valige. Sorrideva felice, aveva sempre voluto che passassi più tempo con lui, oltre le due settimane di ferie che poteva permettersi.
— Allora, com’è andato il viaggio? Ti sei stancata? Hai trovato difficoltà? — parlò a macchinetta, per la gioia e la preoccupazione.  L’avvenimento dell’estate appena passata lo aveva scosso parecchio, c’era voluto tutta la persuasione di mamma per convincerlo a non precipitarsi a Jacksonville con un fucile da caccia carico e pronto al tiro.
— Charlie è andato tutto bene. È stato un viaggio tranquillo — gli dissi ridacchiando e seguendolo verso la macchina.
 
Il viaggio fu lungo, guardavo il paesaggio sfrecciare fuori dal finestrino, ero circondata dal verde delle fronde degli alberi e il marrone dei loro tronchi. Tre ore dopo, il cartello “Benvenuti a Forks” annunciava che finalmente ero arrivata nella mia nuova casa.
Charlie abitava al limitare del bosco, in una classica casetta, in pieno stile americano, a due piani, dipinta di un tenue azzurro, sbiadito nel corso degli anni, e dal tetto spiovente. Sulla facciata quattro finestre, due per ogni piano e sulla destra era situata l’entrata, coperta da una tettoia spiovente, sostenuta da due colonne.
L’avevano comprata Charlie e Reneé subito dopo il matrimonio e doveva essere il loro nido d’amore, invece si rivelò il luogo della loro rottura ma infondo tutti lo sapevano, lo avevano previsto. I miei genitori erano come il Sole e la Luna, la notte e il giorno. Troppo diversi per poter durare e mamma lo capì presto. Non era Forks il suo mondo, troppo piccolo, troppo spento e morto. Partì e mi portò con sé, verso una nuova vita.
 
Charlie parcheggiò sul ciglio della strada dietro a un vecchio pick-up che un tempo doveva essere stato rosso. Scesi dalla macchina e mi fermai a osservarlo curiosa.
— Benvenuta a casa, Bella — disse Charlie affiancandomi. — Ho pensato che ti servisse un mezzo per muoverti.
Potevo sentire il calore del suo corpo e l’affetto che trasudava da ogni poro, anche se non mi abbracciò o esternò in nessun modo i suoi sentimenti, è sempre stato così, riservato ma sempre presente. Eravamo molto simili in questo.
— Grazie, papà.
Lui sorrise e senza aggiungere altro, prese la mia valigia e s’incamminò lungo il vialetto.
 
Mi mostrò la mia stanza, la stessa in cui tenevano la mia culla da piccola, solo riadattata a un’adolescente. Il pavimento era di legno, le pareti erano dipinte di un azzurro pallido, il letto a mezza piazza era poggiato, col lato corto, sulla parete di sinistra e davanti, un armadio a due ante, in legno scuro. Di fronte alla porta si apriva una finestra dalle tende ingiallite, che dava sul giardino, anche se la vista, era impedita da un albero di medie dimensioni, e accanto era posizionata una sedia a dondolo, la stessa su cui mamma mi allattava e mi faceva addormentare quando non ne volevo sapere di dormire nel mio lettino.
— Allora, Bells, ti piace come l’ho arredata? — mi domandò Charlie che nel frattempo mi aveva raggiunto con i bagagli.
— Molto bella. L’hai scelta tu? — lui chinò il capo imbarazzato e si grattò la nuca.
— Veramente mi ha aiutato Sue. Te la ricordi? Era la moglie di Harry — disse il nome della donna con gli occhi luccicanti d’ammirazione, che poi si spensero, al pronunciare il nome dell’amico.
— Oh sì, me la ricordo, — dissi mentre nella mia mente iniziarono a delinearsi i contorni della sua figura. Una donna di statura media e dalla pelle bronzea, tipica dei nativi americani, un carattere gentile e dolce. Aveva sempre qualcosa per me quando andavo a La Push con Charlie. — Come stanno lei e Harry?
Il viso di Charlie se possibile si scurì ancora di più e la cosa mi fece pentire di aver posto la domanda.
— Harry è morto l’anno scorso.
— S… Scusami Cha…papà io… — ero imbarazzata e quelle che uscivano dalla mia bocca erano frasi sconnesse.
— Non preoccuparti Bells. Non potevi saperlo — e impacciato mi poggiò una mano sulla spalla che strinsi. Sapevo quando fossero legatiquei due. Lui, Billy e Harry andavano spesso a pescare durante i weekend, erano molto legati e deve essere stato un brutto colpo per lui ed io mi sentì verme per non essere stata lì con lui.
 
Charlie mi lasciò il tempo di sistemare le mie cose e ambientarmi nella casa. Sistemai i vestiti nell’armadio, organizzai la scrivania e riempì gli scaffali di libri, fortunatamente, ne avevo portata una selezione altrimenti sarei stata costretta a dormire sul divano perché nella stanza non ci sarebbe più stato posto per me.
 
Prima di dimenticarmene chiamai Reneé che preoccupata iniziò una lunga serie di domande su com’era il tempo, inutile visto che c’era sempre nuvolo, le persone, che non avevo ancora conosciuto, la camera e molto altro. Prima di riattaccare mi fece promettere di chiamarla spesso per aggiornarla sulle novità e di tener controllata la posta elettronica. Dopo l’episodio, era diventata più apprensiva e anche se ero a chilometri di distanza da loro, per lei ero sempre in pericolo e i suoi timori erano anche i miei. Ormai non sapevo più quante erano state le notti che mi avevano visto urlare di paura a causa di incubi in cui rivivevo quel pomeriggio e tutte le volte mamma era li per me a cullarmi come fossi stata una bambina.
 
Spesso un oggetto, un paesaggio o anche solo un odore ci riportano alla memoria un attimo passato, magari non hanno nessun apparente legame, ma la nostra mente agisce da sola e ci riporta a un momento e ce lo fa rivivere.
Fu quello che mi successe mentre stavo sistemando il cavalletto vicino alla finestra e mi persi a osservare il paesaggio. Era tutto verde e marrone, un cielo grigio minacciava pioggia da un momento all’altro e non so perché a quella vista, il volto pallido, decorato da un paio di occhi ambrati, e incorniciato da una folta chioma bronzea, riemerse dal mare dei miei ricordi. Posizionai una tela sul cavalletto e con decisi colpi di pennello riprodussi lo scorcio di paesaggio.
Che cosa stai facendo Edward?
Stupidamente non gli avevo chiesto nemmeno il cognome e questo mi rendeva impossibile cercarlo su Facebook o su Messenger o uno di quegli altri social network che tanto andavano di moda. Certo io ero la prima a non usarli ma forse lui avrebbe rappresentato lo stimolo giusto per usufruirne.
 
“Mi sembra di conoscerlo da sempre”era un’affermazione del tutto astratta per me. Come si può dirlo quando non si conosce la persona? Era impossibile, era solo una frase smielata, anche per una romantica come me, cha si trovava sui cioccolatini o in poesie dedicate all’amato o all’amata.
Era un’affermazione del tutto astratta fino a che non avevo incontrato Edward, mi sembrava naturale stare con lui, parlare, ridere. Nessun timore o imbarazzo.
 
Avevo appena posato il pennello e stavo rimirando il mio lavoro quando sentì la porta aprirsi e la voce profonda di mio padre risuonare per la casa annunciando il suo rientro. Era ora di cena, così scesi in cucina accantonando tutti i miei pensieri che tanto non avrebbero portato a nulla.

Convinsi Charlie a lasciarmi cucinare qualcosa ma quando aprì il frigorifero, mi chiesi come aveva fatto Charlie a sopravvivere per tutti quegli anni e intuì che da quel momento mi sarei dovuta occupare della cucina. Alle dieci di sera, dopo aver lavato i piatti e sistemato l’ultimo scatolone, feci per abbassare la tapparella ma mi diedi mentalmente della stupita.
Quando mai si era visto il Sole da quelle parti?
Così mi limitai a tirare le tende, quelle sarebbero bastate per la fievole luce del mattino.
 
Ebbi una notte movimentata a causa di uno strano sogno, anche se sarebbe meglio dire incubo. Correvo in un bosco, era notte fonda e avevo paura, qualcuno mi stava seguendo, anche se non potevo vederlo, lo sentivo forte alle mie spalle. Correvo senza guardare dove andassi, più di una volta mi ero ritrovata a terra, i rami graffiavano la mia pelle lasciando una striscia rossa al loro passaggio.
Dei ruggiti echeggiavano nell’aria, era un animale? Un leone? Ma cosa ci faceva un leone in un bosco? Qualcosa mi afferrò per la spalla e con forza sovrumana mi gettò contro un albero. La vista si annebbiò e quello che riuscì a intravedere tra le tetre ombre degli alberi furono due rubini, rossi come il sangue, che emanavano morte e malvagità. Erano così diversi da quelli caldi e dolci di Edward.
Apri gli occhi di scatto e mi misi a sedere sul letto. La fronte era imperlata di sudore, il mio respiro corto e spezzato, tutto l’opposto del mio cuore che batteva così forte da rischiare di uscire dal petto. Ero sveglia e mi trovavo nella mia stanza ma quella sensazione di terrore non aveva intenzione di abbandonarmi. Quella notte, i papaveri di Morfeo avevano fatto un ottimo lavoro, in quel sogno tutto sembrava così reale, così vero, come anche il dolore alla schiena e alla spalla tanto che le toccai per essere certa che non ci fosse nulla.
Era un incubo, solo un brutto sogno, continuavo a ripetermi. Mi distesi nel letto e mi rannicchiai su me stessa, presto caddi in un sonno profondo e senza sogni.
Quando mi svegliai, l’incubo era solo un brutto ricordo ma presto ne sarebbe iniziato un altro.
 
Primo giorno di scuola ed ero la nuova studentessa il che, in un paesino come Forks, voleva dire avere un grande riflettore che puntava dritto su di me e che per i primi giorni avrei avuto gli occhi di tutti puntati addosso. Sarei stata studiata, soppesata in ogni singolo gesto o parola, sottoposta al giudizio di ogni studente e relativa famiglia fino a che non avrebbero trovato qualcosa di scandaloso sul mio conto, giusto per parlare di qualcosa.
Era una situazione spinosa per una che voleva mantenere un profilo basso, che sfiorava l’invisibile.
Avevo paura, era inutile negarlo, almeno a me stessa. A Charlie avevo fatto credere che fossi tranquilla e pronta a iniziare la scuola ma dentro di me si susseguivano sempre le stesse domande.
E se qualcuno mi avesse preso come bersaglio per i loro scherzetti ed io avessi dovuto subire ancora, oppressa dall’omertà generale?
Chi prende le difese dei più deboli rischiando di diventare a sua volta un bersaglio?
A Jacksonville qualcuno della mia classe aveva provato a reagire ma era presto messo al suo posto dai miei aguzzini. Sarebbe stato diverso in un piccolo paese, dove tutti conoscevano tutti?
 
Con quei pensieri, indossai la giacca e uscì nel freddo della mia prima mattina settembrina a Forks. La prima di una lunga serie.
Incredibilmente quel giorno c’era il Sole, certo non quello cocente e intenso della Florida ma era comunque Sole. Che Forks volesse darmi il benvenuto e mostrandomi che infondo quel globo giallo non era bandito dal suo cielo e che qualche volta poteva spuntare anche lui tra la coltre di nuvole? Come a volermi dire: “Vedi Bella, non è così male, ti piacerà Forks.”
Lo presi come un’allegoria, una premonizione, della mia nuova vita. Nonostante le difficoltà, il Sole avrebbe tagliato la coltre di nubi che in quel momento mi soffocava e avrebbe illuminato il mio mondo portandomi piacevoli novità.
Solo due giorni dopo avrei costatato quanto avessi avuto ragione.
 
Parcheggiai il mio Chavy scassato nel primo posto libero e m’incamminai verso l’edificio della segreteria. Ad accogliermi, una signora di mezza età, occhialuta e dai capelli rossi, risultato di una tinta non proprio recente.
— Come posso aiutarti, cara? — disse appena alzò lo sguardo. Sembrava una donna gentile e ammodo, non come la segretaria di Jacksonville, quella era una donna spocchiosa e altezzosa, rifatta dalla testa ai piedi e sempre intenta a pitturarsi le unghie.
— Sono Isabella Swan e… — ma non mi lasciò finire, ovviamente tutti aspettavano la figlia al prodiga dello sceriffo che dopo anni tornava all’ovile. Mi diede il mio orario, i moduli da far firmare ai professori, e riconsegnare a fine giornata, e la pianta della scuola. La ringraziai e uscì dall’edificio proprio quando la campanella iniziò a suonare. Osservai la mappa alla ricerca dell’aula per la prima lezione e costatai che non era lontana avrei potuto evitare di andare in giro come una demente.
Prima lezione: Letteratura.
Mentre m’incamminavo per raggiungere l’edifico tre, pensai che forse in questo posto dimenticato da tutti avrei potuto avere una vita normale. Le nuvole erano un’ottima protezione contro i raggi solari e il tempo uggioso unito alle basse temperature avrebbe favorito il mio abbigliamento super coprente, che a Jacksonville mi aveva fatto guadagnare tante occhiate storte.
Inoltre non sarei più stata chiamata “albina” o “vampira” visto che Forks, tutti avevano la pelle chiara come la porcellana.
Mi stupì il fatto che, molti studenti vestissero leggero, nonostante le temperature non fossero poi così alte, ma forse essendo abituati a questo freddo, appena le temperatura andavano leggermente sopra la media tiravano fuori dall’ultimo cassetto dell’armadio i vestiti “estivi”.
Mentre camminavo nel corridoi vidi alcuni ragazzi lanciarmi occhiate curiose, mentalmente iniziai a catalogarli in una rigida tabella dividendoli in pericolosi e non pericolosi. Nei loro sguardi cercavo quella luce quasi diabolica che illuminava gli sguardi dei bulli della vecchia scuola, Fred e Gabe in primis.
Non volevo ripetere la simpatica esperienza dell’estate appena terminata. Una volta mi era bastata.
Con stupore dovetti costatare che la colonna dei pericolosi era quasi vuota, se non per qualche soggetto strano.
 
Il professor Meson mi accolse senza tante cerimonie, firmò il foglio e mi fece accomodare in fondo all’aula. Sperai di essere passata inosservata ma le continue e furtive occhiate dei miei compagni mi suggerivano che il mio tentativo non era andato a buon fine. Per distrarmi concentrai la mia attenzione sul programma che stava esponendo il professore e sulla lista di letture obbligatorie da fare durante l’anno. Molte cose le avevo già fatte e per me non sarebbe stato un problema seguire. Passai tutto il tempo dalla lezione cercando di ignorare quella fastidiosa sensazione di essere osservata, non amavo stare al centro dell’attenzione e per ovvie ragioni, stavo già pensando a un modo per andarmene quando il suono stridente e assordante della campanella annullò ogni mio piano di fuga.
— Ciao, tu sei Isabella Swan, giusto? — una ragazza dalla chioma bionda mi si era avvicinata e sorrideva cordiale ferma davanti al mio banco, in attesa di una mia risposta.
— Sì, ma chiamami Bella, lo preferisco.
— Io sono Jessica Stanley. Hai bisogno di una mano per trovare la prossima lezione? — mentre parlava lanciava sguardi furtivi attorno a noi, come a pavoneggiarsi per il fatto che fosse stata la prima a rivolgermi la parola. Praticamente ero il suo nuovo giocattolo.
— No, ho lezione nell’edificio sei e ho già visto dov’è — dissi gentilmente, non volevo essere il suo mezzo per farsi notare. Ma a quanto pare non era così che doveva andare…
— Ma che coincidenza! Anch’io ho lezione lì — rispose sorridente.
Che fortuna…
Cercando di nascondere la mia riluttanza la seguì silenziosa lungo il breve tragitto, ascoltandola mentre discorreva sui professori e i succulenti pettegolezzi scolastici. Alle domande che mi pose sulla mia vita a Jacksonville, risposi perlopiù a monosillabi, qualche volta aggiungevo anche un grugnito o un altro suono strano.
Non amavo parlare di me con degli estranei, certo era stato completamente diverso con Edward ma con lui era tutta un’altra storia, era sinceramente interessato, mentre questa Jessica voleva qualche informazione da spiattellare in giro appena avessi voltato le spalle.
 
A metà giornata già ero in grado di riconoscere alcuni volti, più difficile, si era rivelato associarli ai nomi giusti ma col tempo avrei ricordato tutti. Non era stato molto imbarazzante, quasi tutti i professori seguirono l'esempio del Signor Meson, solo quello di trigonometria mi obbligò a un’imbarazzante presentazione davanti a tutta la classe e quando arrivò l’ora di pranzo, accompagnata da Jessica e Angela,mi recai all'edificio che ospitava la mensa. Angela erauna ragazza dai capelli castani, come gli occhi, nascosti dietro a uno spesso strato di lenti da vista, con cui seguivo trigonometria e che si era rivelata una persona gentile e disponibile, era timida come me e fu l’unica che non mi assillò con domande sulla mia vita. Nella mia mente era già catalogata come migliore amica.
Ci sedemmo a un tavolo già occupato da un gruppo di ragazzi: Lauren, Ben, Mike, Eric e Tyler.
La prima era una bella ragazza molto magra, bruna e con una buona dose di trucco sul viso e prima di salutarmi non si esentò dal farmi una radiografia completa.
Ben era un ragazzo dai tratti orientali, lo sguardo sveglio e intelligente, mi accolse cordiale, subito lo associai ad Angela, pensai che sarebbero stati una bella coppia.
Eric aveva l’aria del cervellone, che come tutti gli adolescenti si trovava a lottare contro l’acne, smilzo e dai capelli neri che mi riservò molte, forse troppe, attenzioni.
Infine c’era Mike, era un biondino dal sorriso smagliante e dalla carnagione più rosea rispetto a quella degli altri, era originario della California e si era trasferito a Forks da quattro anni, subito si premurò di assicurarmi la sua più completa disponibilità in caso di bisogno.
— Jessica, chi stai cercando? — le chiese Lauren guardandola curiosa.
La ragazza appena si era seduta aveva tirato il collo, muovendosi frenetica sulla sedia, scrutando palmo a palmo tutta la sala.
— I Cullen… ma non ci sono — borbotta sconsolata ritraendo il collo e stringendosi nelle spalle.
— Chi sono i Cullen? — chiesi a nessuno in particolare.
Gli occhi della bionda si accesero di malizia — I Cullen sono i figli adottivi del Signor Cullen e sua moglie. Sono dei fighi pazzeschi! Sembrano modelli — mi spiegò con sguardo sognante ma con una nota di stizza nella voce che mi fece pensare a una buona dose di gelosia.
— E poi stanno insieme! — intervenne Lauren con tono da pettegola.
— Tranne Edward — aggiunse Jessica.
Il mio cuore ebbe un sussulto quando la mia mente registrò il nome e il suo viso pallido dai lineamenti decisi e gli occhi dorati, tornò prepotente davanti ai miei occhi annebbiando la realtà che mi circondava. Stupida! Quante possibilità ci sono che Edward Cullen e il tuo Edward siano la stessa persona? Mi diedi doppiamente della stupida perché; primo era impossibile un tale colpo di fortuna, e nel caso fosse lui se nemmeno Jessica e Lauren avevano attirato la sua attenzione, certamente, non l’avrei ottenuta io, e secondo non è mai stato “mio”.
— È uno schianto ma nessuna sembra al suo livello — continuò infastidita.
Io nascosi un sorriso dietro a un sorso di acqua.Chissà quando è stato il suo turno di essere rifiutata... 
— Già — convenne la bruna — ma gli altri fanno coppia tra di loro, è incesto — concluse scandalizzata. Un bel pettegolezzo per la piccola e calma città di Forks.
— Tecnicamente sono stati adottati e non ci sono legami di sangue. Non si può parlare d’incesto — intervenni a difesa di questi ignoti Cullen e guadagnandomi una furente occhiata dalla ragazza. Lauren sembrava non amare essere contraddetta.
 
Durante il resto della giornata non accadde nulla d’interessante. Appena suonò la campanella mi diressi, accompagnata da Mike, verso l’aula di biologia. Il ragazzo aveva una buona parlantina e fortuna volle che non fossimo allo stesso banco, il professore lo fece accomodare qualche fila dietro mentre io presi posto in uno dei banchi alle prime file, il mio compagno era assente quel giorno e accolsi la notizia con gioia. Avrei passato un’ora in tranquillità, senza un vicino che mi lanciava occhiate furtive o che cercava di intavolare una conversazione.
Poi fu la volta di ginnastica, una vera tragedia, fortunatamente dopo l’ennesimo colpo in testa a un compagno di squadra, il professore mi permise di sedermi sugli spalti per osservare la lezione. Gliene fui immensamente grata, non ero mai stata brava con la coordinazione occhio-mano.
Quando, anche l’ultima campanella rintoccò, corsi in segreteria per riconsegnare tutti i moduli e mi fiondai verso il mio pick-up che in quel momento rappresentava il mio porto sicuro. Quel giorno ero stata così sotto osservazione che volli scappare il prima possibile. Accesi la macchina che mi salutò con un rombo facendo girare diverse persone nella mia direzione e con molta attenzione uscì dal parcheggio.
Una volta al sicuro nelle mura di casa, potei ripensare alla giornata trascorsa.
 
La casa degli spartani si era rivelata essere molto diversa dalla mia vecchia scuola, non c’erano i soliti ragazzi pompati, le cheerleader stronze quanto bellissime o gente prepotente come Fred e Gabe, forse perché qui si conoscevano tutti da generazioni e a conti fatti il primo giorno di scuola non era andato male, certo non erano mancati sguardi indagatori e domande troppo curiose ma nessuno mi aveva preso in giro, anche perché nessuno sapeva nulla della mia malattia, e mi avevano accolto con calore, alcuni anche troppo. Non sembrava regnare la legge delle tre scimmie: “ Non vedo, non sento, non parlo” e quello era un buon inizio.
Così, quando Charlie mi chiese un resoconto approssimativo della giornata, non dovetti mentirgli più di tanto.
 
Il giorno dopo incredibilmente c’era ancora bel tempoesperai con tutto il cuore che così nonsifosse esaurita la dose annua di Sole per il piccolo paesino dello stato di Washington.
Dopo aver fatto colazione con Charlie, recuperai lo zaino, il giaccone e uscì. Nonostante il Sole, le temperature erano molto basse e sferzava un vento gelido che mi fece rabbrividire appena misi piede fuori dalla porta. Alzi il colletto del giubbotto, sistemai la sciarpa fin sopra il naso e corsi verso la macchina con la speranza di trovare un po’ di calore nel piccolo abitacolo.
La giornata corse lenta e tranquilla, Jessica rimase sempre al mio fianco non mancando di salutare chiunque incontrasse e cogliendo l'occasione per presentarmi: "Lei è Bella, la nuova studentessa". Mi sembrava di essere un oggetto da esposizione.
Arrivò l'ora di pranzo ed io, con Jess al seguito, mi diressi in mensa, dove trovai Angela ad aspettarmi e a stento trattenni un sospiro di sollievo. Avrei avuto un po’ di respiro dall'insistenza della bionda.
— Ciao, Bella, com’è andata la giornata?
— Abbastanza tranquilla — commentai con una rapida occhiata in direzione della mia accompagnatrice che non ci stava prestando attenzione, troppo intenta a guardarsi attorno. Angela parve cogliere l'allusione e mi sorrise comprensiva.
— Jess, i Cullen non ci sono nemmeno oggi — la avvertì Lauren che era arrivata anche lei in mensa. A quell'affermazione la ragazza sbuffò.
— Non saranno ancora tornati dalle vacanze… — azzardò Angela con un’alzata di spalle— Forza, Bella, andiamo a fare la fila. Ho una fame da lupi — Angela, come me, non sembrava molto interessata alle faccende di questi fantomatici Cullen e lasciando le due ragazze alle loro supposizioni ci mettemmo in fila per il pranzo.
— Andiamo fuori? — propose Mike che ci aveva raggiunto insieme a Tyler ed Eric.
— Sì, almeno godiamo un po’ di Sole — concordò Jessica affiancandolo con fare civettuoso sotto il mio sguardo allucinato. A malapena c'erano diciotto gradi!
Tutti si trovarono d’accordo con l'idea di Mike e si stavano dirigendo verso l'uscita quando li avvisai che sarei rimasta dentro.
— Cosa? Perché? — mi chiese Eric visibilmente dispiaciuto così come Mike e Angela. Solo Lauren e Jessica avevano un cipiglio infastidito, oltretutto mal celato.
— Per me fa troppo freddo — giustificai la mia reticenza con il problema che venendo dalla Florida per me queste erano temperature che sfioravano il gelo artico. Infondo non era una bugia…
— Anche per me è stato un problema nei primi tempi — disse apprensivo Mike.
— Beh, allora rimaniamo dentro — propose Tyler provocando le proteste di Jess e Lauren.
— No, andate pure io mangio e poi devo andare in biblioteca a recuperare dei libri — mi affrettai a controbattere vedendo le occhiate di fuoco delle due ragazze. Non volevo avere problemi già il secondo giorno e volevo essere lasciata in pace, stare sola, senza dover rispondere a mille e più domande.
— Sto io con Bella — soggiunse Angela.
— Non c’è bisogno che rinunci per me. Vai con gli altri — cercai di convincerla, non volevo che rinunciasse per me.
— Non mi sento molto bene oggi e se sto al chiuso, è meglio — così Angela ed io rimanemmo all’interno della mensa mentre le altre due e i ragazzi, dopo molte insistenze, si diressero verso il giardino.
— Devi scusare Jessica, non è una cattiva ragazza — affermò dopo che ci fummo sedute a un tavolo libero. Probabilmente non sono sfuggite nemmeno a lei le sue occhiate e quelle della sua amica.
— Lo so — concordò.
— Come sono andati questi primi due giorni? Deve essere dura ricoprire il ruolo della nuova arrivata — disse con un sorriso comprensivo. Eravamo molto simili, timide e riservate e forse lei riusciva a comprendere bene il mio disagio nello stare al centro dell’attenzione.
— Sì, spero solo che la novità passi in fretta ma per il resto non mi posso lamentare. Tutti sono stati molto gentili con me — chi per un tornaconto, come Jessica, o chi sinceramente era interessato, come Angela ma anche i ragazzi sono stati ospitali forse perché gli studenti sono pochi e ci si conosce quasi tutti.
A Jacksonville sarebbe stato impossibile, troppi studenti.
— Magari con il prossimo nuovo arrivato — azzardò ridendo.
— Oh bene allora sono a posto… se aspetto qualche nuovo studente, mi sa che sarò la nuova arrivata per molto tempo — dissi stando al suo gioco, ma quello che avevo detto probabilmente non era molto lontano dalla verità.
— Mike è arrivato quattro anni fa mentre i Cullen sono gli ultimi che si sono trasferiti e sono arrivati due anni fa… Se ti va bene tra due anni, arriverà qualcuno di nuovo — quindi secondo “tradizione” dovrei aspettare solo due anni, pensai con sarcasmo.
 
Tornata a casa, il vialetto era già occupato da una vecchia macchina e da quella della polizia.
Charlie non mi aveva detto che avremmo avuto ospiti, pensai quando parcheggiai a lato della strada.
Spensi il motore e velocemente entrai in casa, dove fui accolta da grasse risate, poggiai lo zaino per terra, appesi il cappotto e mi diressi verso il salotto.
— Ah Bells, sei arrivata. Ti ricordi di Billy e Jacob? — mi domandò Charlie appena mi vide fare il mio ingresso, con l’indice indicava l’uomo vicino al divano e il ragazzo seduto sulla poltrona vicino al camino.
— Vagamente — mormorai guardando sconcertata il vecchio indiano. Quante cose erano successe ed io non ne sapevo nulla. Billy aveva avuto un incidente che gli aveva paralizzato le gambe, ora poteva muoversi solo con la carrozzina e doveva sempre contare su qualcuno per svolgere alcune operazioni che per me erano normali.
— Jake, tu ti ricordi di Bella? — il ragazzo mi sorrise imbarazzato, doveva avere qualche anno in meno di me. Aveva lunghi capelli neri raccolti in una coda bassa, il viso aveva tratti regolari ed era caratterizzato da zigomi sporgenti, un mento un po’ arrotondato da bambino e gli occhi erano neri come la pece. Si poteva definirlo attraente.
— Certo che mi ricordo, facevamo le torte di fango insieme — esclamò mentre si alzava per stringermi la mano e così per poterlo guardare in viso dovetti alzare lo sguardo, per il mio metro e sessanta tre, Jacob appariva come un gigante.
Accennai un sorriso, non sapendo che dire. Io delle torte non mi ricordavo e nemmeno di lui, sinceramente.
— Ma tu forse non ti ricordi. Giocavi spesso con Rachel e Rebecca, le mie sorelle maggiori — aggiunse vedendomi spaesata.
— Oh sì, me le ricordo — mormorai quando un ricordo sfocato mi balenò nella mente.
— Billy è venuto a darti il benvenuto a Forks, sai è lui che mi ha venduto il pick-up.
— Allora ti devo ringraziare, è bellissimo — certo era vecchiotto ma per me era perfetto.
— Non devi ringraziarmi, Jake non vedeva l’ora che lo vendessi, vero figliolo?
— Certo! È una lumaca quell’aggeggio — si lagnò il ragazzo.
— Ehi! Non è vero! — protestai decisa a difendere l’onore del Chevy e Jacob mi guardò con sguardo scettico, di chi non credeva a una sola parola.
— Hai mai provato a superare i novanta chilometri l’ora?
— No — avevo il sospetto che il rottame, epiteto affettuoso, non sopportasse l’alta velocità ma per girare il paese andava benissimo.
— Bene, non provarci mai.
— Beh, ma il suo dovere lo fa bene, non devo partecipare a nessuna gara — ferma nella tesi che il mio Chevy andasse benissimo e che non doveva subire nessuna critica.
 
Jake e Billy si fermarono a cena e così potei svuotare il frizer da tutto il pesce che Charlie aveva pescato e così fare posto per quello nuovo. Fu una serata piacevole Jake mi parlò del suo progetto di costruire una macchina, la sua difficile ricerca dei pezzi per sistemarla e mi raccontò di La Push mentre Billy e papà parlavano dei risultati delle ultime partite come due bravi tifosi accaniti. Poco importava che tifassero per due squadre differenti.
 
— Ma sono sempre così? — chiesi divertita a Jake mentre sparecchiavamo la tavola. I nostri padri avevano iniziato una lunga discussione sul migliore giocatore della stagione e dopo un’ora non erano ancora giunti a una soluzione.
— E a volte anche peggio — sghignazzò scuotendo la testa sconsolato.
— Come mai non ti ho mai visto a scuola? — anche se aveva un anno in meno di me, la scuola era piccola. Tutti conoscevano tutti.
— Vado a La Push. Tutti quelli della tribù la frequentano, ci teniamo lontani dai musi bianchi. — e scoppiai a ridere per il tono che aveva usato.
 
Continuammo la serata ridendo e scherzando, gli raccontai anche della malattia. Non so perché lo feci, da quando ero arrivata, non lo avevo mai detto a nessuno per timore di rivivere la situazione della vecchia scuola ma Jake m’ispirava fiducia, in qualche modo sapevo che sarebbe andato tutto bene. Era facile, quasi naturale, parlare con lui, ispirava sicurezza e allegria, il sorriso, che non abbandonava mai il suo viso, era contagioso e i suoi modi un po' rozzi erano… teneri.
Alla fine della serata salutai i Black col sorriso sulle labbra e la promessa di andare a trovarlo alla riserva il prima possibile.
Ero felice poiché mi ero appena fatta un vero amico.


 

. . .





Citazioni e spiegazioni:

1. L’annuncio del Capitano è vero. Atterrati a Malta il pilota ci ha salutato così : )
 
2. Morfeo, quando inviava sogni popolati da forme umane, portava sempre con sé un mazzo di papaveri con cui, sfiorando le palpebre dei dormienti, donava loro realistiche illusioni.
 
3. Chissà quando è stato il suo turno di essere rifiutata... 
( da Twilight, pensieri di Bella)
   
 
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