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Autore: sayuri_88    25/07/2011    10 recensioni
Se su una spiaggia mentre osservi il tramonto facessi un incontro speciale?
Ho pensato a come deve essere passare le vacanze estive per una persona che non può, per cause di forza maggiore, passare una giornata sotto il sole come fanno tutti ed è uscito questo...spero vi piaccia^^
Dal capitolo:
Sognavo che un giorno avrei potuto correre sotto il sole, andare alla spiaggia a nuotare e poi asciugarmi sulla sabbia, pranzare in un parco mentre i raggi del sole sfioravano la mia pelle come delle carezze. Un sole che mi era amico insomma. Ma la realtà era ben diversa.
Genere: Generale, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Coppie: Bella/Edward
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film
Capitoli:
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Hola! questa storia partecipa al concorso OS dell'estate. Ho pensato a come potrebbe essere la vita, l'estate in questo caso, per una persona che non può esporsi al sole, come i vampiri. Così ho ambientato la storia nel mondo della Meyer, creando un Twilight alternativo. Spero vi piaccia e mi farebbe davvero piacere sapere cosa ne pensate^^. Buona lettura!
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... Tramonto ...












Da piccola mangiavo tante carote, pomodori e qualsiasi altro frutto o verdura che avesse un’alta concentrazione di melanina o carotene, insomma quelle sostanze che permettono all’uomo di stare al sole senza subire troppi danni.
Sognavo che un giorno avrei potuto correre sotto il sole, andare alla spiaggia a nuotare e poi asciugarmi sulla sabbia, pranzare in un parco mentre i raggi del sole sfioravano la mia pelle come delle carezze. Un sole che mi era amico insomma. Ma la realtà era ben diversa.
Il sole era il mio nemico numero uno ed era un bel problema se ti ritrovavi a vivere in una città dove il sole splende alto nel cielo per almeno trecentosesanta giorni l’anno e con la media delle massime e minime nel periodo estivo di quarantuno-ventisette gradi centigradi, come succedeva a Phoenix. L’estate era un vero incubo per la sottoscritta, che si vedeva obbligata a rimanere reclusa in casa fino al tramonto. Per questo mamma decise di trasferirsi a Jacksonville dopo il suo matrimonio con Phyl, certo anche lì, la situazione per me non era delle migliori ma sicuramente più sopportabile.

A scuola molti m’indicavano come “ l’albina”, i più fantasiosi come “la vampira”. Non potevo negare che non s’impegnassero.
Anche se, effettivamente fossi nata nel medioevo, mi avrebbero veramente additato come vampira, con tanto di referto medico, e impalettata…
 
Erano le sette e trenta passate e mi ero recata alla spiaggia per osservare il tramonto, uno spettacolo a dir poco magnifico. Il cielo si era tinto di gialli, arancioni e rossi mentre il blu della notte, stava prendendo il posto dell’azzurro del giorno, una barca attraversava placida quello specchio d’acqua per tornare a casa.
La tavolozza con i colori nella mano sinistra e il pennello con la destra con cui tracciavo linee veloci e fluide per cogliere l’attimo, anche la più piccola sfumatura.
Attorno a me il rumore delle onde che s’infrangevano sul bagnasciuga, il suono del vento che soffiava caldo, scompigliandomi i capelli in una danza frenetica, e il richiamo stridulo dei gabbiani, che si riparano nei loro nidi in attesa della notte.
 
 
Sulla tela avevano iniziato a prendere forma le mie emozioni e sensazioni. La tristezza per la fine di un altro giorno ma anche la gioia per la certezza che presto ne inizierà un altro e la speranza che il futuro porta con sé.
 
Il sole si era quasi completamente nascosto sotto il manto scuro del mare, quando una sagoma attirò la mia attenzione. Un uomo, o meglio un ragazzo, era fermo in riva al mare, i piedi bagnati dalle onde che lo colpivano e si ritiravano lasciando dietro di se solo una leggera schiuma bianca, in mano reggeva un piccolo sacchetto e sorrisi, probabilmente erano conchiglie. I pantaloni erano arrotolati fino al ginocchio, probabilmente per non bagnarli, indossava una leggere camicia bianca a maniche corte che metteva in risalto il busto e le braccia muscolose, ma non massicce, i capelli volteggiavano leggeri attorno al suo viso, mi davano l’impressione di essere soffici e setosi, in un momento pensai come sarebbe stato immergervi la mano. Infine ne osservai il viso, il ragazzo era contro luce e potei vedere poco o niente, ma avrei giurato che avesse un’espressione corrugata. Mi ricordava molto “ Il pensatore ” di Rodin.
 
Guardava nella mia direzione ma non ero tanto vanitosa da ritenere che stesse osservando me. Probabilmente c’è qualcosa lungo la strada che costeggia la costa, normale visto che di sera si riempie di bancarelle, di gente e ragazze...
Mi girai per controllare ma la strada era ancora deserta. Che stesse davvero osservando me?
Purtroppo quando mi girai per accertarmene, il ragazzo non c’era già più. Ebbi una fitta allo stomaco che non mi seppi spiegare. Quel ragazzo mi aveva affascinato e incuriosito e l’assurdo era che, molto probabilmente, era frutto della mia fervida immaginazione. Come poteva un essere umano volatilizzarsi in quel modo?
 
Sistemai i pennelli e i colori, poggiai la tela sopra lo zaino e di fianco il piccolo cavalletto, mi tolsi i vestiti, che coprivano tutto il mio corpo, e finalmente potei fare il tanto agognato bagno del giorno. Chiusi gli occhi e immaginai che fosse ancora giorno e che il sole stesse splendendo sopra di me mentre io, galleggiando, mi beavo del suo tepore ma quando li riaprì, ricaddi nella realtà, dove non ci sarebbe stato nessun sole che mi baciava la pelle o nessun raggio che mi sfiorasse senza riempirmi di bolle o donandomi un colorito violaceo. Sbuffai e in poche bracciate tornai a riva. Era passata una mezzora da quando mi ero immersa ed era tempo di tornare a casa per non far preoccupare Renée e Phyl.
 
— Sono a casa! — urlai appena misi piede nell’ingresso.
— Ciao, tesoro! Sono in cucina — Poggia i miei strumenti vicino alla porta e la raggiunsi.
— Ho preparato il tuo piatto preferito! — la sua affermazione mi fece sbarrare gli occhi per la paura. Renée si era messa ai fornelli! E le parole “Renée” e “fornelli” messi nella stessa frase, non annunciavano mai nulla di buono.
— R... Renée — mormorai con tono preoccupato.
— Oh…non fare quella faccia. Non cucino così male… — borbottò offesa Renée aggiungendo un “ che figlia ingrata” pensando che non la sentissi. In quel momento entrò anche Phyl, che aveva assistito alla scena dalla terrazza.
— Tua madre ha ordinato la cena al ristorante, ha solo riscaldato — disse avvicinandosi a Renée e schioccandogli un bacio a fior di labbra.
A quella rassicurazione tirai un sospiro di sollievo e con un sorriso sulle labbra li aiutai a portare in tavola la cena.
 
Mi dispiaceva obbligarli a mangiare con me quando ormai era tutto buio, con la luce del sole mi sarebbe impossibile cenare sulla terrazza all’aperto.
Il tempo passò velocemente tra una risata e l’altra. Anche se non potevo uscire spesso di giorno, l’estate era la mia stagione preferita. Io, Renée e Phyl, che con la pausa estiva del campionato non era costretto a spostarsi in continuazione, potevamo passare molto tempo insieme. Dopo cena uscimmo per camminare tra le bancarelle disposte lungo la costa e quando arrivammo al punto in cui mi trovavo a dipingere mi tornò alla mente la figura alta e slanciata del ragazzo misterioso. E come se qualcuno avesse ascoltato i miei pensieri, illuminato dal raggio di un faretto, lo vidi. Il ragazzo misterioso era a quattro o cinque bancarelle di distanza, addosso, gli stessi vestiti della spiaggia e la stessa espressione corrugata. Avevo già mosso un passo verso la sua direzione, volevo essere certa di non aver immaginato nulla e accertarmi che quel ragazzo fosse vero, quando la voce di Renée mi destò dal mio intento.
— Bella! Guarda questa collana. Ti starebbe d’incanto! — mi disse mettendomi sotto il naso, una collana di legno, graziosa ma inutile per una che non portava gioielli, così la riposi sul tavolino sotto lo sguardo contrariato di Renée.
Tornai a guardare il ragazzo ma anche questa volta di lui nessuna traccia. Sconsolata seguì Phyl e mamma come un automa, rispondendo a monosillabi, troppo impegnata a rivivere nella mia mente quell’attimo in cui i nostri occhi si erano incontrati, erano di un colore che non avevo mai visto prima, particolare. Semplicemente unico.
 
Quando tornai a casa, la prima cosa che feci, fu chiudere le tende, in modo che il sole del mattino non filtrasse, e dopo essermi cambiata mi coricai, addormentandomi con la sensazione di due occhi, dalla particolare sfumatura di miele/ambra, che mi osservavano.
 
 
Il giorno dopo, mi svegliai che era mattino inoltrato, mi girai nel letto mettendomi pancia all’aria e girando la testa verso le grandi tende scure. Da quella poca luce che filtrata, potevo capire che anche oggi il sole splendeva fiero nel cielo e quindi: un'altra giornata di reclusione per me. Con un gesto secco mi liberai delle coperte e a piedi nudi mi diressi in bagno per una doccia fredda per togliere il torpore residuo del sonno.
 
Per una che è “allergica” al sole le giornate come questa, passano molto lentamente, tra noia e monotonia. Non essendoci molto da fare in casa presi un blocco da disegno e iniziai a scarabocchiare.  Disegnai quello che succedeva al di là della grande finestra del soggiorno, da quando Renée aveva fatto istallare queste vetrate che impedivano ai raggi UV di entrare potevo almeno osservare quello che succedeva nel mondo. Si fa per dire.
Osservavo lo svolgersi della vita delle altre persone come in una televisione, tranquillamente seduta sulla poltrona osservavo dalla finestra il solito trio di fissati con il jogging corre dall’altra parte della strada, i tranquilli passanti occasionali che camminavano parlando tra di loro o ancora il postino portare la posta di casa in casa, in alcune entrava anche, e stranamente lo faceva in quelle dove c’era una povera giovane donna, sola, che si presentava alla soglia di casa con una misera vestaglia…
Riportavo tutto sul mio blocco che come un diario raccontava i miei pensieri. Infine senza neanche rendermene conto avevo disegnato due occhi ipnotici ambrati, li avevo visti solo una volta ma mi erano rimasti dentro.
 
 
Lo scatto della serratura mi fece sussultare, velocemente girai il foglio incriminato per cominciarne uno nuovo. Questa volta, arte astratta.
 
Ancora il tramonto, ancora un’altra giornata che finisce. Il meteo aveva annunciato pioggia per il giorno dopo e in cuor mio speravo fosse vero, almeno avrei potuto uscire di casa senza problemi. I mesi tra giugno e settembre sono i più piovosi dell’anno, certo per la gente normale passare le vacanze estive con la pioggia non è il massimo delle aspettative, ma per quelli come me invece è una benedizione. Sarei potuta andare in giro per negozi o comprare il gelato in quella nuova gelateria di cui mi aveva parlato mamma qualche giorno prima o ancora meglio, uscire con lei per mangiare da qualche parte a pranzo e girare per negozi.
 
In pratica quello che la gente faceva durante le giornate di sole io le facevo quando c’era la pioggia, ma non mi lamentavo, anche se era frustrante non poterlo fare sotto il sole.
 
Come la sera prima stavo finendo il mio dipinto, quel giorno avevo deciso di usare l’acquarello, quando una sagoma a me familiare si fermò nello stesso punto del giorno prima. Era tornato! Quella consapevolezza, inspiegabilmente, fece aumentare al mio cuore i suoi battiti.
Restò fermo a guardarmi, e sì, questa volta ero sicura che stesse guadando me perché la spiaggia era deserta, per un paio di minuti, in una posa rigida, come se fosse indeciso su qualcosa, per poi incamminarsi verso di me. Oddio stava vendendo verso di me!
— ciao — la sua voce calda mi avvolge come un abbraccio.
— ciao — mormorai incantata.
— posso? — chiese titubante, indicando il posto vicino a me.
— c…certo — dissi senza abbandonare l’aria trasognante che probabilmente avevo in quel momento.
Con un’eleganza, pari a quella di un ballerino di danza classica, il ragazzo misterioso si sedette al mio fianco. Le gambe, piegate vicino al petto, i gomiti, poggiati sulle ginocchia. Faceva invidia a un modello.
— mi chiamo Edward, tu? — e solo in quel momento mi risvegliai dal torpore e realizzai di averlo davanti agli occhi e questa volta, potei osservare anche i più piccoli particolari. Osservai il suo viso, aveva lineamenti dritti e regolari, la pelle era molto pallida, molto più della mia.
Rimasi ammaliata quando un angolo delle labbra svettò verso l’altro, in un sorriso storto che non aveva niente di lecito. Era semplicemente stupendo.
Solo quando lo vidi ritirare deluso la mano, capì di non avergli ancora risposto. Afferrai la sua mano prima che fosse tardi e subito una scarica elettrica si diffuse per tutto il corpo a quel semplice contatto, ed ebbi la certezza che l’avesse sentita anche lui perché mi guardo stupito. Solo in un secondo momento notai come la sua pelle fosse insolitamente fredda, dovrebbe essere calda, insomma oggi si erano raggiunti i 29°C, pure la mia pelle era più calda della sua ed io avevo quasi sempre le mani fredde. Ma non dissi nulla, non erano certo fatti miei.
— Isabella….ma chiamami pure Bella — dissi accennando un sorriso timido.
— Modesta.
— C…cosa? — lo guardai prima interrogativa, poi arrossì come un peperone quando realizzai a cosa si riferisse.
— Ah no, non volevo…insomma…Bella è … — la sua risata interruppe il mio sproloquio.
— Sì, avevo capito. Stavo scherzando.
— Oh…ehm… bene — dissi impacciata.
— Allora Bella, sei qui in vacanza? — mi chiese curioso.
— No, io vivo qui con mia madre e Phyl — il suo sguardo da interessato divenne stupito. Potevo immaginarne il motivo.
— Sì, lo so… sono bianca come un lenzuolo, come faccio a vivere qui e non essere abbronzata? — dissi ridacchiano e ottenendo un sorriso di conferma da parte sua.
 — Beh, ti svelo un segreto…. — sussurrai avvicinandomi maggiormente, subito imitata da lui, — sono una vampira — dissi con fare cospiratore. Quello che non mi aspettavo fu la sua reazione, si allontanò con un rapido scatto, che mi lasciò basita, irrigidendosi all’istante e una maschera di terrore a coprirgli il viso angelico.
— Stavo scherzando — lo rassicurai e rilassatosi mi abbagliò con un altro dei suoi sorrisi storti, si poteva definirlo sghembo.
Una mano, corse ai capelli scompigliandoli ancora di più. Mi persi in quel gesto che tanto desideravo fare. Mi morsi la lingua per non chiedergli il permesso, certamente mi avrebbe preso per pazza e poi sarebbe fuggito a gambe levate.
— sei una pittrice? — mi chiese per cambiare discorso, indicando, con un cenno della testa, il blocco, placidamente poggiato sulle mie gambe in attesa di essere completato.
— diciamo che mi diletto — non potevo certo definirmi una pittrice, sarebbe stato un insulto bello e buono. Amavo dipingere e davo il meglio ma certo non ero Monet o Van Gogh. Quelli erano pittori con la “P” maiuscola.
— sei molto brava — il suo apprezzamento mi fece arrossire, anche Renée, Phyl e Charlie mi avevano già fatto dei complimenti ma il fatto che lo avesse fatto lui, mi rendeva orgogliosa e fiera.
Tolsi le pinze che teneva fermo il disegno al piano di legno e glielo porsi.
— Consideralo un regalo — lui mi guardò stupito, non se lo aspettava.
— Cosa? No non posso accettare. Ci avrai lavorato molto — non lo lascia finire.
— Insisto — Edward lo prese senza non poca titubanza e lo osservò attentamente, sembrava studiare ogni singola pennellata, ogni sfumatura.
 
 
— Davvero bellissimo — mormora distogliendo lo sguardo dal foglio per guardarmi. Ancora una volta mi ritrovai ad arrossire sotto quello sguardo serafico. Cercando di riacquistare un minimo di contegno, mi schiarii la voce e tentai di intavolare un discorso con l’Adone che avevo al mio fianco. Che si siano ispirati a lui gli antichi scultori greci?
— Invece tu? Sei in vacanza?
— Oh no, ho accompagnato mio padre per un convegno medico. Èuno dei relatori — Ecco perché non è abbronzato, quei convegni durano giornate intere.
— Quindi è un medico… — quando si dice costatare l’ovvio, brava Bella davvero intelligente — anch’io da piccola volevo fare il medico — confessai — ma presto capii di non avere futuro percorrendo quella strada —
— Perché? — chiese sinceramente incuriosito.
— Beh, io e il sangue non andiamo d’accordo. Sto male solo al sentirne l’odore — dissi ridacchiando.
— Ma l’odore del sangue non si sente— affermò guardandomi scioccato.
— Si invece. Sa di ruggine e di sale — dissi ovvia mentre la sua espressione diventava sempre più incredula. Mi guardava a bocca aperta, cercò di dire qualcosa ma presto vi rinunciò scuotendo la testa divertito, mi parve anche di sentirgli dire “ è incredibile” ma era così flebile che pensai di essermelo immaginato.
— Tu invece seguirai le orme di tuo padre? — volevo sapere qualcosa di lui, io avevo rivelato molto mentre lui ancora nulla.
— No, meglio che stia lontano dal sangue umano — disse con tono cupo, forse pensava di aver deluso suo padre con quella scelta. Non chiesi nessun chiarimento, in fondo non lo conoscevo e non avevo nessun diritto di ficcanasare nella sua vita.
— Anche tu soffri della vista del sangue? — domandai, contenta che qualcosa ci accumunasse.
— Più o meno — disse con tono criptico.
 
Il suono del mio telefono fece scattare entrambi. Infastidita da quell’interruzione cercai il telefonino che si era perso nella borsa. Quando finalmente lo trovai, la voce di mia madre di chiedeva dove ero finita e di tornare velocemente a casa se non volevo finire in punizione per una settimana.
Poi guardai l’orologio che segnava le 21.30, strabuzzai gli occhi. Come avevo fatto a fare così tardi? Forse mamma aveva tutte le ragioni per essere preoccupata, ma mettere in punizione una ragazza di 17 anni che durante le vacanze estive è costretta a rimanere chiusa in casa  a causa della sua malattia è un po' inutile.
— Devo andare — dissi amareggiata dopo aver chiuso la chiamata.
In sua compagnia il tempo e lo spazio sembravano talmente sfocati da sfuggire alla mia percezione.
— Beh tua madre sarà sicuramente preoccupata — e con la stessa grazia con cui si era seduto, si alzò, imitato da me che al confronto sembravo una foca marina.
Mi aiutò a raccogliere le mie cose e volle anche accompagnarmi a casa per essere sicuro che non mi succedesse nulla. Lo ringrazia per la sua premura, sembrava un uomo di altri tempi.
 
Purtroppo casa mia non era molto distante dalla spiaggia e in meno di un quarto d’ora eravamo arrivati.
— Ci vedremo anche domani? — chiesi speranzosa. La sua compagnia mi piaceva, nonostante vivessi a Jacksonville da cinque anni, non avevo fatto molte amicizie, anzi quasi nessuna. Chi passerebbe del tempo con una ragazza che non può stare troppo sotto il sole e deve indossare abiti coprenti per farlo? Sarebbe imbarazzante per loro… l’unica ragazza che sembrava non farsi problemi era Claudia, purtroppo questa partiva per l’Italia durante le vacanze estive lasciandomi da sola.
— Certamente.
— Perfetto allora a domani! Mi trovi alla spiaggia dalle sei e mezza — entusiasta entrai in casa con un sorriso che andava da un orecchio all’altro.
 
— Sono tornata!
— Isabella Marie Swan! Ti sembra l’ora di tornare! Nessuna chiamata, nessun messaggio! Che dovevo pensare io! — nonostante le urla e i rimproveri di Renée, il sorriso che avevo stampato in volto non se ne voleva andare. Quello strano stato di pace e beatitudine che avevo raggiunto non sarebbe stato rovinato da nessuno.
— lo so scusa mamma, ma sai come sono quando disegno.
— beh deve essere una vera opera d’arte se sei stata via tre ore!
— Sì, non è venuto male — dissi ripensando ai suoi complimenti sinceri. Il mio cuore perse un battito nel rivivere quei momenti.
Come poteva uno sconosciuto avermi condizionato così tanto? Che sapevo di lui? Solo che si chiamava Edward, che il padre era un medico, che gli piaceva il mio stile e che era il ragazzo più bello che avessi mai visto.
— Posso vederlo? — chiese abbandonando l’aria da mamma arrabbiata per lasciare spazio a un’espressione di pura curiosità. Il sorriso si gelò sulle mie labbra, tirandole in un’espressione tesa.
— Emh…no — dissi iniziando a sudare freddo.
— Perché? — forza Bella pensa a una scusa plausibile che non comporti il nominare un certo ragazzo.
— Perché… perché l’ho regalato a un bambino. Sì, stava giocando con la mamma sulla riva e quando mi ha visto, si è avvicinato e siccome gli piaceva tanto, gliel’ho regalato — conclusi la mi arringa difensiva con tutta la convinzione di cui ero capace. Non ero mai stata una brava attrice ma speravo che in quel momento le mie doti si rivelassero più raffinare del solito. E, infatti, gli occhi di Renée sbrilluccicavano di gioia mentre mi faceva i complimenti per il mio gentile gesto.
 
Il giorno dopo effettivamente ci fu una giornata nuvolosa che mi permise di passare la mattinata in compagnia di mia madre curiosando per i negozi e le vie del centro senza timore di riempirmi di bolle, eritemi o spellature. Verso mezzogiorno iniziò a piovere ma questo non danneggiò il mio umore. Era bello passare una giornata normale. Tornammo a casa nel tardo pomeriggio, piene di buste e bustine e con l’umore alle stelle. Sistemati i nuovi acquisti presi in necessario per disegnare, un grande telo e mi incamminai verso la spiaggia.
— Bella torna presto.
— promesso.
Nel cielo ancora alcune nuvole, che lo coloravano di mille sfumature grigiastre, perfette per il carboncino mentre l’orizzonte era libero e tinto dei colori del tramonto. Il vento mi soffiava contro ma avevo un appuntamento e nessun’intenzione di tornare a casa senza prima averlo visto.
 
 
Arrivai alla spiaggia che erano le sei e mezza passate e lui era già li, seduto a gambe incrociate al limite del bagnasciuga, guadava assorto il mare che rigettava le sue onde sulla spiaggia. Era una visione.
I capelli scompigliati dal vento gli davano un aspetto libero, quasi selvaggio, la camicia blu svolazzava a ritmo del vento, le maniche arrotolate fino ai gomiti, appoggiati placidamente sulle ginocchia, e le gambe fasciate da un paio jeans chiari.
— Edward — mormorai al vento e come se questo si fosse fatto messaggero delle mie parole, vidi Edward girarsi di scatto e sorridermi felice. Con gesti rapidi si alzò, si ripulì della sabbia rimasta attaccata ai pantaloni e alle mani e con una corsetta, fu al mio fianco.
— Lascia ti do una mano — e senza darmi il tempo di rispondere prese il mio blocco e la tavola di legno — dove ti metti? —. Mi guardai attorno cercando il punto migliore.
— Là, vicino agli scogli. Così avrò l’effetto dell’acqua che s’infrange.
                                                 
 
Edward osserva pensieroso il punto che gli ho indicato per poi rivolgermi il suo sorriso sghembo. Avevo pensato che avrebbe avuto qualcosa da ridire ma il sorriso che mi rivolse mi aveva rincuorato.
— Sì, mi piace. Forza allora, non voglio che poi mi accusi di rallentarti il lavoro — e a passo svelto mi sorpassa lasciandomi stupita ancora ferma nello stesso punto.
— Cosa? No non lo penserei mai! — urlai, per sovrastare il rumore del vento e delle onde, mentre iniziavo a correre per raggiungerlo.
 
— Carboncino? — chiese curioso quando mi vide aprire la scatolina dove ne tenevo dei pezzetti.
— Sì, per questo tempo uggioso è perfetto — dissi entusiasta. Col carboncino mi divertivo sempre molto, potevo sfumare usando le dita, il palmo o un pezzetto di carta in base all’effetto che volevo avere. Certo alla fine avevo le mani completamente nere ma questo era un piccolo particolare.
— Allora… come mai non sei abbronzata come tutti che vivono in Florida?
Involontariamente m’irrigidì e la mia espressione si fece triste. Vedendo la mia reazione Edward si affrettò a tranquillizzarmi.
— Non devi dirmi nulla se non vuoi. Non sei obbligata.
— No, non preoccuparti… — presi un profondo respiro e iniziai a parlare.
— Soffro di porfiria e questa non mi permette di stare a diretto contatto con la luce solare — l’avevo detto e ora dovevo solo sperare che non scappasse a gambe levate. L’espressione di Edward era imperscrutabile, non mi permetteva di capire cosa stesse pensando in quel momento. L’impossibilità di capire quello che stava pensando, mi fece cadere in uno stato di ansia acuta. Abbassai gli occhi per fuggire da quel gioco di sguardi che non faceva altro che aumentare la voragine nel mio petto e nervosamente iniziai a giocherellare col carboncino che tenevo in mano, impiastricciandomi ancora di più le mani, fino a che mi prese il mento obbligandomi a rialzare lo sguardo verso di lui e ancora quella stessa scarica elettrica che avevo sentito il giorno prima mentre gli stringevo la mano, attraversò tutto il mio essere.
— Anche Van Gogh soffriva di porfiria ed è diventato un grandissimo pittore.
— Beh, allora ho un futuro da pittrice assicurato. Una garanzia — dissi ridacchiando sollevata per il modo in cui aveva preso la notizia — anche Vlad III, quindi ho anche un futuro da vampira! — continua stando al suo gioco.
— Saresti una bellissima vampira — disse guardandomi intensamente mettendomi in imbarazzo.
Ricominciai a disegnare e presto le scogliere e l’infrangersi dell’acqua su di esse presero forma sul foglio bianco. Rimanemmo così, io a spostare lo sguardo dal mare al foglio e lui che seguiva ogni mio movimento.
— Perché avevi così timore da dirmelo? — chiese di punto in bianco.
— I ragazzi… quando lo vengono a sapere, mi stanno alla larga ­— dissi accompagnando la mia affermazione con un’alzata di spalle che vorrebbe mostrare indifferenza, ma probabilmente non fa altro che mostrare quanto la cosa mi faccia stare male.
— Perché? — il suo sguardo si era assottigliato, sembrava quello di un falco che aveva appena puntato la sua preda ed ebbi timore.
— Perché devo sempre stare attenta al sole e vivendo a Jacksonville è un problema abbastanza rilevante e in estate quando uno si vuole divertire non può certo portarsi dietro una palla al piede — risposi con ovvietà.
— Sono solo degli stupidi. Non devi dare retta a quello che ti dicono — gli occhi mi si fanno lucidi e un sorriso amaro increspa le mie labbra.
— Già… ma dopo anni che ti senti chiamare “l’albina” o “la vampira” — dissi mimando le virgolette sui due appellativi che mi avevano affibbiato — ti viene voglia di rimanere rinchiusa in casa almeno fino al College, la gente sembra più matura all’università — e non potei impedire a una lacrima di scivolare lungo la mia guancia, subito la tolsi con la mano.
Edward mi sorrise comprensivo prima di iniziare a ridere. Lo guardai interrogativa e lui tra una risata e l’altra m’indico con un dito la guancia, dove avevo tolto la lacrima. Presi lo specchietto che portavo sempre con me e osservai il mio riflesso.
Una striscia nera di carboncino faceva bella mostra di se sulla mia guancia. Le mie gote si tinsero di rosso per la pessima figura appena fatta ma guardarlo ridere era uno spettacolo unico e la sua risata cristallina contagiò anche me. Ridevamo come due sciocchi e probabilmente se qualcuno sarebbe passato di li, ci avrebbe dato dei matti ma non m’importava. Era riuscito a risollevarmi il morale con una semplice risata e gliene ero infinitamente grata.
 
Edward tornò serio, prese le mie mani tra le sue disegnando cerchi immaginari e guardandomi negli occhi, dopo un minuto di silenzio, disse — tu sei perfetta così come sei — e mi diede una lieve carezza sulla guancia che ebbe l’effetto di rilassarmi ma anche di scombussolarmi. Il mio cuore batteva a ritmi frenetici.
— Grazie — sussurrai con voce colma di gratitudine senza staccare il mio sguardo dal suo.
Passammo il resto del tempo a parlare della sua famiglia, di come fu adottato e dei suoi fratelli. Dalle sue descrizioni dovevano essere simpatici, un po' di dubbi li avevo su Jasper e Rosalie ma probabilmente di persona si sarebbero rivelati sicuramente affabili.
 
E’ incredibile quanto sia riuscita ad aprirmi con Edward, neanche Renée e Phyl sanno di questi nomignoli e dei miei sentimenti, con loro sono sempre la solare Bella che accetta la sua situazione e vive felice dipingendo e leggendo. In effetti si dice che ci confidarsi con un estraneo sia più facile.
 
Quando tornai a casa, avevo ancora un sorriso ebete stampato in faccia che provocò un fiume di domande sul motivo scatenante, ma l’intervento di Phyl per sedare l’attacco di mia madre mi risparmiò dall’assedio forzato.
 
Dopo la cena, quando Phyl mi chiese di uscire con loro rifiutai e nella tranquillità della mia stanza iniziai un nuovo dipinto.
 
Il girono dopo stavo frugando tra i cassetti della mia stanza alla ricerca di foglie dorate ma senza successo. Renée e Phyl erano usciti la mattina presto con alcuni loro amici e sarebbero tornati la sera tardi e quindi nessuno sarebbe potuto andare a comprarli per me. Purtroppo ne avevo assolutamente bisogno, dovevo finire il dipinto il prima possibile per regalarglielo, non sapeo quanto sarebbe rimasto ancora a Jacksonville. L’orologio segnava le due di pomeriggio, il picco del sole era già passato ma il rischio era ancora molto alto. Era anche vero che sarei andata in macchina, quindi non avrei preso il sole se mi fossi coperta per bene, e poi potevo parcheggiare nei parcheggi sotterranei del centro commerciale e quindi evitare il sole.
Sì, avrei fatto così.
Aprì l’armadio e presi una maglietta a maniche lunghe, i pantaloni di una tuta, indossai un cappello con visiera e mi diressi in garage. Salì sulla macchina e guidai fino al centro commerciale.
 
— Sono sei dollari — porsi al commesso i soldi e usci dal negozio.
— Grazie e arrivederci.
Ero arrivata al centro commerciale in poco tempo, avevo trovato subito quello che mi serviva e ora stavo camminando per i corridoi sbirciando tra le vetrine, quando delle risate alquanto fastidiose, e che purtroppo conoscevo bene, arrivarono al mio orecchio. Con la coda dell’occhio sbirciai la zona della fontana e ne ebbi la conferma. Fred Niles e Gabe Morris erano seduti, anzi stravaccati, su una delle panchine, in mano avevano entrambi una bottiglia infilata in un sacchetto di carta. Potevo immaginare che cosa contenessero.
Attorno a loro, in bella mostra, delle lattine accartocciate, almeno sei. Distolsi lo sguardo schifata, come facevano a bere a quell’ora del pomeriggio?
Senza perdere altro tempo m’incamminai verso gli ascensori che portavano al parcheggio.
 
Fred e Gabe, erano il mio incubo a scuola, a dire il vero era l’incubo di tutti i nerd e gli emarginati della “ Wolfson High School “. Figli di papà che per la troppa noia si divertivano a prendersela con quelli che non potevano difendersi.
La mia fortuna era essere amica di Claudia, la ragazza del quarterback e questo, mi dava un piccolo margine di vantaggio. Non mi avrebbero fatto nulla fino a che fossi stata in compagnia della mia amica, anche se non si risparmiavano battute non proprio carine.
Ma ora Claudia non c’era.
 
Ero quasi arrivata agli ascensori quando un corpo estraneo mi strattonò all’interno di uno di essi. Le mani bloccate dietro la schiena e una mano sulla bocca m’impedivano di reagire o anche solo urlare per attirare l’attenzione. Risate cattive arrivavano dalle mie spalle. Un alito fetido soffiava sulla mia guancia. Alcool e fumo.
Le porte dell’ascensore si aprirono e fui buttata dentro.
— Ma chi abbiamo qui la piccola figlia di Dracula — una voce lasciva e con un forte accento texano, che nonostante gli anni non era sparito del tutto. Riuscì a mordergli la mano che mi chiudeva la bocca e gli urlai contro.
— Niles! Sei un pazzo. Lasciami subito — Gabe intervenne e mi tappò la bocca con una mano mentre il suo amico si lagnava dal dolore dietro di me.
— Brutta puttana — sibilò al mio orecchio intensificando la presa sui polsi. Mi stava facendo un male cane e il terrore di quello che potevano farmi m’impediva di pensare a una soluzione. Una soluzione che alla fine non c’era. Che potevo fare chiusa in un ascensore che stava salendo fino al tetto e bloccata da due energumeni?
 
Dopo il “plin” dell’ascensore, le porte si aprirono, attorno a noi neanche un’anima viva. I miei tentativi di liberarmi erano inutili e i lamenti che emettevo non avrebbero attirato nessuno.
Salirono le scale che portavano al tetto, forzarono la porta che ne bloccava l’ingresso e finalmente mi lasciarono andare. Gabe mi lanciò letteralmente a terra, per proteggermi portai le braccia in avanti, procurandomi diverse escoriazioni non molto profonde, ma che facevano dannatamente male.
— Dici che si scioglie al sole Fred? — sghignazzò quell’idiota chiudendo la porta dietro di sé. Mi alzai e cercai di aprirla, purtroppo senza successo. Iniziai a battere energicamente.
Dovevano averla bloccata in qualche modo o questa si poteva aprire solo dall’interno.
— Ehi! Fatemi uscire! — urlai continuando a colpire la porta con una mano e tentando di aprirla con l’altra.
— Non fare così Swan! È per la scienza! Dimostreremo l’esistenza dei vampiri o al contrario sfalderemo il mito — urlò Fred prima di scoppiare a ridere, una risata sadica e malvagia, seguita subito da quella del suo compare.
— Fatemi uscire vi prego — mormorai rallentando i battiti sulla porta, ormai inutili, visto che le voci dei due ragazzi si facevano sempre più fievoli e nessun’altro sarebbe venuto casualmente sul tetto.
Poggiai la schiena contro la porta e mi lascia scivolare a terra guardando davanti a me. Un paio di metri di corridoio mi dividevano dalla terrazza illuminata dal sole e sarebbero diminuiti con l’andare delle ore.
 
Erano quasi le tre, da mezzora urlavo senza sosta ma nessuno mi sentiva. Usare il cellulare era inutile. Non prendeva.
Le tre e trenta, i graffi non mi facevano più male, mi ero rannicchiata in un angolo pensando a un modo per uscire da quella situazione, non avevo alcuna intenzione di passare il pomeriggio, e forse anche la notte, bloccata in quei pochi metri di corridoio. Mi alzai e camminai fino al limite dell’ombra, alzai il cappuccio della maglietta, per proteggere la testa, per colpa di quei deficienti avevo perso il mio cappello preferito, le maniche tirate fino a coprire le mani e preso tutto il coraggio che avevo scattai verso la ringhiera.
 
— Ehi! Qualcuno mi sente! Ehi! Sono bloccata qua sopra! — urlai a più non posso ma la gente sulla strada passava senza degnarmi di attenzioni. Quei pochi che sentivano le mie urla, alzavano la testa e vedendomi sbracciare nella loro direzione mi salutavano.
— Dannazione non ti sto salutando! Ho bisogno di aiuto! Sono bloccata.
Dopo un po' la pelle aveva iniziato a prudermi e bruciare e non era un buon segno. Incapace di sopportare ancora, ritornai a ripararmi all’ombra per cercare un po' di sollievo prima di riprovare. Lascia libero sfogo alle lacrime che avevo trattenuto. Come avrei fatto a uscire da li? Renée e Phyl sarebbero arrivati tardi e nessuno sapeva dove trovarmi.
Passarono i minuti e in poco tempo arrivarono le quattro, feci forza sulle mani per alzarmi da terra e a passo lento e incerto mi avvicinai ancora una volta alla ringhiera.
La mia pelle iniziava a mostrare i segni del contatto con i raggi del sole, in alcuni punti era rossa, in altri quasi violacea, soprattutto le mani, mi rifiutavo di capire come fossi messa sul volto e il collo, ma sicuramente non ero messa meglio.
Dopo altri minuti, che mi parvero interminabili una guardia, notò la mia presenza e corse all’interno dell’edificio. Finalmente felice mi lascia andare a terra, la testa pulsava e la pelle bruciava un po’ ovunque. Le forze mi stavano abbandonando, aprì e chiusi gli occhi più e più volte fino a che non riuscì più ad ordinare alle palpebre di alzarsi.
Poi fu il buio.
 
Suoni fastidiosi si susseguivano, mi sembrava di riconoscere dei carrelli che venivano trasportati avanti e indietro, “bip” simili a quelle delle macchine dell’ospedale.
Ero ancora leggermente stordita ma cercai di aprire gli occhi, almeno per capire dove fossi finita. Ero ancora sul tetto o mi avevano riportato a casa?
— Si sta svegliando! Phyl si sta svegliando! Chiama i dottori, le infermiere! — quella voce mi era familiare, ero sicura di conoscerla.
— Bella! Bella sono la mamma — a fatica riuscì ad aprire gli occhi e il viso preoccupato di Renée vece capolino nel mio campo visivo.
— R… Renée — gracchiai dopo alcuni tentativi falliti. Avevo la gola secca e bruciava.
— Renée la gola mi… mi fa male.
— lo so tesoro non preoccuparti i dottori hanno detto che passerà — disse per rassicurarmi, mi guardai attorno e realizzai di essere in una stanza del Jacksonville General Hospital.
La voce di Renée, si fece seria, come poche volte l’avevo sentita — Bella mi devi dire che è successo. Perché sei uscita? E perché eri chiusa sulla terrazza del tetto? — sentì dei passi e poi vidi un uomo in divisa entrare nella stanza.
— Mi…. — mi bloccai incapace di andare avanti, cercai di ingoiare della saliva e quello mi permise di continuare a parlare — mi servivano delle foglie dorate ed ero andata al colorificio del centro commerciale — Renée continuava ad accarezzarmi i capelli riservandomi sguardi apprensivi e preoccupati — stavo…tornando al parcheggio quando davanti agli ascensori mi sono sentita afferrare — a quel punto lo sguardo del poliziotto si fece più attento mentre quello di Renée divenne una maschera di puro terrore.
— Saprebbe riconoscerli signorina? — intervenne a quel punto il poliziotto. Io annuì.
— Erano miei compagni di scuola. Frederic Niles e Gabe Morris — annuendo il poliziotto segnò i nomi su un piccolo blocchetto.
— Che cosa le hanno fatto? — mi chiese con tono professionale. Renée invece non staccava lo sguardo dal mio viso, probabilmente nella sua testa stava già vagando tra mille e più scenari.
— Mi hanno chiuso fuori perché volevano vedere se bruciavo al sole come i vampiri — lo sguardo di Renée si fa allucinato e subito si volta verso il poliziotto, tempestandolo di mute minacce — li avevi visti che bevevano prima di aggredirmi, stavano bevendo birra e delle lattine erano già ai loro piedi. Vuote.
— qualcuno più testimoniare che erano quei due ragazzi? — a quella domanda negai col capo.
— Sinceramente non lo so.
— Era la prima volta che mostravano atteggiamenti aggressivi verso di lei? — esitai a rispondere, confermare voleva dire farla passare liscia a quei due ma negare voleva dire rivelare a Renée tutte le bugie che le avevo propinato…
— Non erano mai arrivati a questo punto ma non è la prima volta che mi prendono di mira — confessai alla fine.
— Bella! Perché non mi hai mai detto nulla? — la delusione, per il mio comportamento, era ben visibile sul suo viso e mi colpì come un pugno nello stomaco.
— I... io non volevo farti preoccupare inutilmente — tenni lo sguardo basso non avevo la forza di sostenerlo.
— Signorina, prima che mi congeda, le devo chiedere se ha intenzione di sporgere denuncia.
— Certo che sporgerà denuncia! È vergognoso il comportamento di quei ragazzi! — intervenne Renée con tono risoluto, sembrava quasi il ruggito di una leonessa. Alzai di scatto la testa e la guardai con occhi sbarrati, nei suoi potevo leggere tutta la determinazione di una madre che è pronta a difendere la propria figlia a spada tratta e seppi che in qualche modo ce l’avremmo fatta. Gabe e Fred avrebbero avuto quello che meritavano.
 
Erano passati tre giorni ed ero ancora in ospedale per accertamenti, nemmeno Renée e Phyl erano tornati a casa, la notte rimanevano con me, anche se cercavo di convincerli che stavo bene e che potevano andare a casa a dormire su un letto vero.
Tre gironi che non mi presentavo alla spiaggia, con rammarico pensai che Edward ormai avesse smesso di recarvisi, non vedendomi più arrivare.
— Phyl — chiamai il mio patrigno intento a guardare una partita di basket, alla piccola tv della mia stanza — sai qualcosa di un convegno medico qui a Jacksonville?
Assunse un’espressione pensosa, per poi rispondermi infliggendomi il colpo di grazia — So che ce ne era uno all’Hotel Omni ma è finito ieri. Perché?
— Nulla.
Realizzai che non lo avrei più rivisto. Si sarà preoccupato per me? Credo che non lo saprò mai, stupidamente non c’eravamo scambiati né mail o i numeri di telefono. La mente corse a quel dipinto ancora incompiuto nella mia stanza, mancava così poco che lo finissi. Sospirai rassegnata, probabilmente doveva andare così, le nostre strade si erano incontrate per un attimo e poi subito separate. Nelle sere d'estate è così.
 
Passò un altro giorno e finalmente potei tornare a casa e la prima cosa che feci fu finire il dipinto. Alla fine era venuto davvero bene, anche se era niente in confronto all’originale.

 
Con leggerezza accarezzai il profilo della mascella, del naso, delle sopracciglia per poi salire sulla fronte e scendere a sfiorare le labbra. Quel ritratto era l’unico ricordo che mi restava di lui.
 
— Tesoro — la voce di mia madre mi richiamò dalla cucina. Era seduta al tavolo da pranzo il suo viso portava ancora i segni della sofferenza e della preoccupazione sopportate in questi giorni. Phyl al suo fianco le teneva stretta la mano e alternava sguardi preoccupati a me e Renée.
— Siediti Bella — disse lui, quando vide che mamma non apriva bocca.
— Mentre eri in ospedale io e tua madre abbiamo mandato avanti la denuncia contro quei due ragazzi —  una pausa, rassegnazione — oggi c’è stato il verdetto — Un'altra pausa, rabbia — e il caso è stato archiviato per insufficienza di prove — mi paralizzai sul posto. Avevo rischiato la vita e loro non venivano puniti!
— Bella — il lamento di mia madre mi fece riprendere contatto col mondo — so che per te può essere difficile ora. Le vacanze stanno finendo e presto ricomincerà la scuola… — la guardai interrogativa non capendo dove volesse arrivare — e capisco se tu non te la senti di tornare. — voleva che abbandonassi la scuola? — quindi ho chiamato tuo padre e sarebbe felice di averti a Forks con lui, finiresti il liceo lì, in fondo si tratta di un anno.
Andare a Forks da Charlie?
 
Dopo essermi presa alcuni giorni per pensare avevo annunciato la mia decisione. La mia non era una fuga, ma la speranza di un nuovo inizio.
 
Stavo sistemando le ultime cose, ero indecisa se portarmi dietro anche la cartelletta dei disegni quando dal plico ne scivolò fuori uno. Era il tramonto che stavo dipingendo quando vidi Edward per la prima volta. Un ricordo tornò a galla, un frammento di una delle nostre poche ma preziose conversazioni.
 

— Di nuovo il crepuscolo, l’ora più leggera, ma in un certo senso, anche la più triste… la fine di un altro giorno. Ogni giorno deve finire, anche il più perfetto — disse, osservando il sole scomparire all’orizzonte.

— non è detto che tutto abbia una fine. 

 
E chissà forse la parola “ fine ” non era ancora stata scritta.




...

 

____________________________________________________
 


Ed eccoci alla fine^^ spero che non vi siate annoiati a leggere. Forse qualcuna si aspettava un finale diverso o forse proprio questo ma a me piace, è un finale aperto. Bella ha deciso di trasferirsi a Forks, ci sarà anche Edward e tutti gli altri Cullen? Beh ognuna può farsi una sua idea. Forse riprenderò in mano la storia per un seguito ma per ora rimane così, anche perchè per il concorso ci vuole una OS e non un papiro^^
Vi va di farmi sapere che ne pensate???? 

  
 
  
3.12.11: LA STORIA AVRA' UN SEGUITO, DIVERSI CAPITOLI SONO GIA' SCRITTI. 
  
 
  
Citazioni e spiegazioni:
 
1. Nelle sere d'estate è così.
 (Sere d’estate da “ Grease”)
 
2. Di nuovo il crepuscolo, l’ora più leggera, ma in un certo senso, anche la più triste… la fine di un altro giorno.
(Edward Cullen da “ Twilight ”)
 
3. “ Shade-Tolerant ” un modo con cui sono chiamati quelli che soffrono di eliofobia.
 
4. - ma l’odore del sangue non si sente-
- si invece. Sa di ruggine e di sale -
(Edward Cullen e Isabella Swan da “ Twilight ”)
 
5. La Porphyria è parzialmente connessa alla luce solare.
La porfiria è una sindrome genetica per la quale l'emoglobina dei globuli rossi morti non viene smontata dal fegato ma si trasforma in una molecola sensibile alla luce e si sistema nel derma per cui quando viene colpita da raggi solari reagisce in modo simile alla clorofilla (la molecola priva dell'atomo di Fe è molto simile) trasformando l'energia luminosa in en. chimica, ma non avendo noi un sistema capace di utilizzarla, la trasferiamo al tessuto circostante che ne viene danneggiato, per cui i malati presentano danni simili ad ustioni(bolle, eritemi, spellature, caduta di peli, ciglia, capelli, unghie ecc.) Un modo di alleviare i sintomi è assumere tanto carotene che si sistema nel derma e fa da scudo ai raggi.Provoca deformazioni e un colorito violaceo della pelle ed è stata connessa in passato all'esistenza di vampiri e lupi mannari, a causa della apparente similarità nell'aspetto dei malati a quella dei leggendari mostri.
 
 


Altre mie storie nel fandom twilight:


La mia piccola fifona

- Oddio!oddio! Edward ho paura - mormorai avvinghiandomi al braccio del mio ragazzo.
Mi aveva convinto a entrare in quell’edificio che sembrava aver scritto a caratteri cubitali “abbandonate ogni speranza voi che entrate” ma che il mio adorato ragazzo, a quanto pare, non aveva visto. Dovrò suggerirgli una visita dall’oculista mi appuntai mentalmente una volta che saremmo usciti da quell’inferno.
[ Autore: sayuri_88 ] [ Rating: Verde ] [ Genere: Commedia ] [ Capitoli: 1 ] [ Personaggi: Bella/Edward ]
[ Pubblicata: 02/07/11 ] [ Aggiornata: 02/07/11 ] [ Note: One-shot ] [ Completa ]
 
 
 Red Fairytale - Ultimo capitolo
C’era una volta una bambina tanto vivace quanto sbadata, correva sempre anche per andare da una stanza all’altra, i genitori non sapevano come farla stare ferma soprattutto perché aveva la tendenza a sbattere contro oggetti fermi e inciampare sui suoi stessi piedini ed erano preoccupati che potesse farsi molto male, ma la amavano tanto e quando la vedevano a terra a piangere per l’ennesima caduta la rassicuravano e le davano un bacino sulla bua per fargliela passare e la piccolina rassicurata tornava felice a saltellare per la casa o il giardino mentre i genitori amorevoli, aspettavano la successiva caduta.
In un girono di fine giugno correva nei campi col suo fratellone, quando….
[ Autore: sayuri_88 ] [ Rating: Verde ] [ Genere: Generale ] [ Capitoli: 3 ] [ Personaggi: Bella/Edward, Un po' tutti ]
[ Pubblicata: 30/04/11 ] [ Aggiornata: 03/05/11 ] [ Note: Nessuna ] [ Completa ] 
   
 
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