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Autore: Talesteller    18/01/2012    1 recensioni
Questa cosa è andata ben oltre dove speravo andasse.
E questo ci ha portati alla catastrofe.
Ma la gente deve sapere perché ora sono qui, in questa cella, ad attendere la fucilazione.
Ciò che ho fatto non deve morire con me e con i miei.
Questi sono i miei diari.
Queste sono le origini del più grande movimento anarchico della Galassia.
Genere: Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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DG0 114795, DG0 114795 IV
Data e ora locale, 25/07/10507, 23.40
 
Fa un dannato freddo.
Se credevo che su Sirio d’inverno facesse freddo, era solo perché non ero mai stato qui.
È cominciato tutto un centinaio di ore solari dopo il decollo.
Qui non esistono date, il tempo si calcola in ore trascorse dalla partenza.
Io e lei eravamo in uno dei corridoi panoramici della nave, quelli con le pareti esterni completamente trasparenti.
Le stavo raccontando i miei anni passati, e perché me l’aveva chiesto lei.
Altrimenti non avrei mai pensato di annoiarla con quella successione di fallimenti che è la mia vita.
Eravamo da poco usciti dal sub-spazio, una di quelle regioni di spazio artificiali dove lo spazio intorno alla nave è dilatato e le distanze compresse.
Tutto quello che si vede dall’iperspazio è un fondo bianco dove talvolta scorre rapida una macchia colorata.
Eravamo ancora sopra l’atmosfera di questo blocco di ghiaccio planetario.
Non era male come pensavo, ma questo credo di doverlo al fatto che lei fosse con me.
Quando sono con lei, è come se il resto della gente sparisse.
È quello che ho cercato di fare per anni. Ignorare quella massa uniforme di menti che vanno in tutte le direzioni, ma tutto ciò che sono riuscito a fare è maturare un odio pazzo verso di esse.
Su quella nave eravamo quasi undicimila.
Era uno degli ultimi modelli, costruiti perfezionando il progetto originale della AIC Genesis.
E abbiamo fatto la sua stessa fine, o pressappoco.
Una voce metallica aveva da poco annunciato in un siriano perfetto che ci eravamo appena inseriti nell’orbita del pianeta e noi stavamo lasciando il corridoio.
Un lampo inondò di luce la passeggiata, rischiarata dalla debole luce della nana blu al centro del sistema.
Ora, per quanto poco io ne possa sapere di navigazione interstellare, sapevo che quello era l’effetto prodotto da una nave che usciva dal salto.
E a giudicare dall’intensità, ci era molto vicina.
Troppo.
Era uscita dal salto gravitazionale a neanche mille metri dalla fiancata, non molto sotto il corridoio.                 
Doveva essere una nave doraniana da carico, slanciata e con i vani di carico modulari.
Era grande almeno dieci volte meno di noi.
-A tutti i passeggeri, allontanarsi immediatamente dalla fiancata…-
La frase della voce elettronica fu interrotta dallo schianto.
Le barriere di elettroni alzate a poco più di un metro dalle fiancate delle navi servono a fermare polveri spaziali, piccoli missili e piccoli oggetti in generale, quelli più avanzati distruggono anche testate più grandi, ma non siamo ancora neanche arrivati vicino a qualcosa in grado di bloccare un’intera nave con lo slancio del salto gravitazionale e del calcio gravitazionale di un grosso pianeta.
Chissà che diavolo trasportava.
L’esplosione ha mandato in frantumi il pavimento del corridoio.
Se avessimo camminato leggermente più lentamente, a quest’ora staremo bruciando entrambi nell’atmosfera.
Ci saranno state più di cento persone in quel corridoio.
Lo sbalzo di pressione deve averle catapultate chissà dove.
Non appena avevo visto la nave, l’avevo spinta oltre il limite, e mi ero lanciato subito dopo di lei.
Le paratie di sicurezza, saracinesche di un qualche metallo molto solido, sono progettate per chiudersi in meno di un secondo non appena il sistema di controllo ambientale percepisce uno sbalzo di pressione o temperatura nell’ambiente o subisce danni.
Se fossimo stati un po’ meno rapidi o fossi stato un po’ meno reattivo, quel cancello spesso un metro ci sarebbe caduto addosso.
Ricordo secondo per secondo quello che successe da allora.
Mi tirai in piedi e la aiutai ad alzarsi.
-È un danno grave?-
Aveva visto perfettamente cos’era successo.
Gran parte delle poche altre che ho frequentato avrebbero chiesto cos’era accaduto. Lei mi aveva chiesto se era un danno grave.
Studiava legge su uno dei pianeti più ricchi di Kolbat.
Il pianeta nei cui pressi dovremmo essere adesso.
-Non posso dirlo. Questo tipo di nave non era nemmeno ancora stato ideato, quando studiavo all’ASTI. Direi di no, ma…-
Ero profondamente inquieto. Inquieto, non spaventato.
Era più probabile che fosse un danno grave che non uno leggero, visto quanto eravamo vicini ai reattori, ma preferii non allarmarla.
La mia frase fu interrotta da uno scoppio e un tremore nel pavimento.
-Non mi piace. Segui questa paratia verso la prua, ad un certo punto troverai una scala in discesa…-
-…che conduce ai gusci di salvataggio. Tu dove pensi di andare?-
-A recuperare un paio di cose. Se dovremo evacuare, finiremo per forza di cose sul pianeta, e ci servirà qualcosa di più addosso- Avevamo solo le nostre giacche nere, i pantaloni leggeri.
Feci per voltarmi, lei mi fermò.
-Questa cosa l’ho cominciata io, e non ti permetto di metterci fine- Mi sorrise.
Ero quasi certo che non mi avrebbe lasciato andare.
Arrivammo di corsa alle nostre cabine, avevo faticato l’impossibile per trovare la sua e farmi dare quella accanto.
Un paio di scosse attraversarono il pavimento, ma lei non mostrò di farvi caso, e io feci lo stesso.
-Prendi solo i vestiti pesanti. Per adesso siamo ancora in orbita, ma forse il danno non è così leggero-
Entrammo nelle camere.
Io non avevo nulla oltre i vestiti.
Il resto l’avrebbe portato la nave della compagnia di trasloco.
Sirio mi era diventato stretto al punto che non avrei potuto sopportare l’idea di tornarvi dopo aver passato un mese nel suo appartamento.
Uscii pochi minuti dopo con una piccola valigia e una borsa.
Lei era già sulla porta della sua con addosso un cappotto pesante che le arrivava alle caviglie e due enormi valigie –Solo i vestiti pesanti?-
-Sai già perché ero su Sirio-
Era venuta per completare un suo superprogetto sulle differenze tra la società ed il sistema governativo di tutte le razze di umanoidi della Galassia.
Scendemmo verso il corridoio.
La nave era ancora calma.
Finché il pavimento non fu scosso un’altra volta, con tanta forza che tutti quelli che erano nel corridoio finirono a terra.
Sentimmo il boato dell’esplosione.
Evidentemente lo schianto non era avvenuto così lontano dalla sala macchine.
-A tutti i passeggeri, siamo entrati in rotta di collisione con DG0 114795 IV. Recatevi ai corridoi di…- La voce si interruppe in uno stridore metallico. Un’altra esplosione. Ci tirammo in piedi. Tutti si erano messi a correre verso il più vicino corridoio con i gusci d’emergenza, sfere dotate di quattro propulsori progettate per staccarsi dalla nave in casi d’emergenza, con spazio per dieci umanoidi.
Non riesco quasi a credere che una cosa simile sia accaduta a noi due.
Erano anni che non si aveva notizia di una collisione spaziale.
Tutte le navi, dalla distruzione della Genesis, che postò con se’ diecimila persone, sono dotate di un qualche dispositivo che avrei anche studiato, ma che ho rimosso, per evitare di uscire dall’iperspazio addosso, o peggio, dentro, ad un’altra aeronave.
Evidentemente, quel fottuto cargo doraniano no.
Tutto ciò a cui pensavo era lei.
Non perché l’amassi, o cose di questo genere, sempre ammesso che io possa parlare di cose che non conosco del tutto.
Non nel senso che gli da la gente.
Lei era viva.
Avrebbe saputo fare quello che non avevo saputo fare io in anni di permanenza su Sirio, lottare davvero, combattere per risvegliare il nostro popolo.
Tutto ciò che io sono stato capace di fare è stato caricare qualche pagina di scritti su blog a caso in giro per la Rete, scritti che non suscitavano altro che un pronto intervento della Censura.
Lei avrebbe potuto fare di più, e lo stava facendo.
Doveva salvarsi, non era possibile che la sua lotta finisse su quella nave e su quel dannato blocco di ghiaccio.
Più ci avvicinavamo al corridoio, più gente c’era.
Quando arrivammo alla scala, eravamo pressati e fermi.
Stavamo per arrivare al corridoio, quando il leggero ronzio di sottofondo dei propulsori che evidentemente avrebbero dovuto salvare la nave mutò in un ruggito e la nave vibrò leggermente.
-Sovraccarico- I razzi di allineamento non erano progettati per tenere in orbita una delle più grandi navi mai costruite.
Iniziammo a sentire gli effetti della gravità.
Eravamo stesi su un fianco, se così si può dire.
La fiancata su cui ci trovavamo era rivolta verso il pianeta, e cominciammo a sentirci attratti da essa, come il resto della nave, che iniziò ad abbassare il muso verso l’atmosfera.
Da lì a poco sarebbe diventato difficile muoversi.
A forza di farci largo a gomitate riuscimmo ad entrare nel corridoio.
Ad ogni portellone chiuso che incontravo la mia ansia cresceva.
Il corridoio più vicino, dopo l’impatto, era dall’altra parte della nave.
Ne trovai uno aperto, ma gli occupanti premettero il pulsante di espulsione poco prima che lei potesse entrare.
Arrivammo agli ultimi tre.
Finalmente, ne trovammo uno libero.
Feci per entrare.
Mi bloccai quando gettai uno sguardo all’interno.
Nove occupanti, un posto libero. Dissi all’umanoide con la mano sul pulsante di non premerlo, mi tirai fuori.
-Vai tu- Le dissi.
-Cosa?- Guardò all’interno. Notò un solo posto -Ce ne sono altri…- In quei pochi istanti erano passate oltre almeno trenta persone e i due gusci erano partiti.
-Non più. Vai, ci sono altri corridoi, ti raggiungerò-
-Non te lo permetto- Mi porse una delle sue valigie –Tu mi hai svegliata, è solo grazie a te e ai tuoi post se mi sono resa conto di chi ero e perché. Questa è la mia ricerca. Prendila e conservala, sarà molto più utile a te che a me, se non dovessi farcela-
-Il corridoio più vicino…- Mi guardò storto e mi sorrise.
Sapevamo entrambi che se non avessimo lasciato la nave da lì non l’avremmo mai fatto –Stiamo precipitando e saremo sempre più veloci. Entra adesso o vi schianterete-
-Tu non…- Presi la valigia.
Non credevo che l’avrei fatto.
Forse era l’unico modo per farlo, forse sentivo solo il bisogno di farlo, e spero che sia così.
Le nostre labbra si unirono a lungo.
Gli insulti e le imprecazioni degli occupanti del guscio e di tutti quelli che ci stavano intorno scomparvero, rimanemmo solo io, lei, e la nave che precipitava.
Ora dovevo agire.
O sarebbe stato troppo tardi. Mi separai da lei e spinsi la valigia.
Non si era completamente ritirata dal margine del guscio, la guarnizione che separava il portello interno da quello esterno.
Scivolò e cadde all’indietro nel guscio.
-Addio- Premetti il bottone, i portelli si chiusero e il guscio partì.
Infine, qualcosa di utile nella mia vita ero riuscito a farlo.
O almeno lo spero.
Non posso sapere cosa sarebbe successo se fossi entrato io, tutto ciò che posso sapere è che ora io sono nell’emisfero nord di questo blocco di ghiaccio, senza la minima idea di dove sia lei.
Non so per quanto tempo rimasi a guardare quel portello chiuso.
Molto, di certo.
Finché non ho realizzato che stando lì a chiedermi se avessi fatto una cosa sensata o meno non sarebbe stato d’aiuto a me come a nessun altro.
Mi feci strada tra la gente e lasciai il corridoio.
Era forse la prima volta in cui avevo occasione di applicare tutti i miei sforzi nel valutare la situazione nel modo più completo possibile.
Valutare, calcolare, elaborare.
Sono forse un computer?
Comincio a pensare che tutti gli umanoidi lo siano.
Dovevo cercare di salvare i miei bagagli per avere qualcosa da mettermi addosso.
La gravità cominciava ad essere piuttosto intensa e presto gli oggetti avrebbero cominciato a scivolare verso la prua.
Se ci fossimo schiantati poi, ammesso che non fossimo esplosi, i danni minori li avrebbero subiti le zone dello scafo più alte e posteriori.
Lasciai le valigie in una camera che trovai aperta, sul ponte più alto e vicina alla sala macchine, e corsi verso la plancia di comando.
Se potevo essere utile in qualche modo, era lì.
Sapevo che sarei crollato se mi fossi fermato.
Dovevo trovare qualcosa di cui occuparmi, o sarei impazzito aspettando la fine in uno dei comparti più estremi.
Non avevo una gran esperienza nel volo delle aeronavi, ma non me la cavavo male con le dinamiche del volo in generale e ho lavorato ad una parte consistente al progetto di uno dei più affidabili simulatori di volo della Galassia.
Dovetti inventare di essere un pilota in congedo temporaneo perché mi facessero entrare nella cabina.
Del resto non ricordo molto.
Metà della mia mente era occupata a pensare dove potesse essere lei, il resto da calcoli che non voglio e non posso riportare.
Il pianeta si avvicinava sempre di più e la gravità divenne talmente forte che mi ritrovai a stare in piedi sullo schermo di navigazione anteriore.
Il comandante non accettò di molto buon grado la mia presenza, ma gli fui utile.
Senza di me avrebbe bruciato tutti e quattro i generatori in pochi istanti.
Riuscimmo a far rallentare la nave alla velocità di duemila chilometri l’ora e a riportare l’angolo d’attacco a meno quindici gradi prima di entrare nell’atmosfera.
Durante la discesa abbiamo perso pezzi considerevoli dello scafo, ma siamo ugualmente riusciti a rallentare a millecento chilometri l’ora a qualche migliaio di metri dal suolo.
A quel punto ci siamo resi conto di cosa sia questo pianeta.
Un labirinto senza fine di picchi e montagne ghiacciati.
Manovrare una nave simile, a quella velocità e su quel terreno era impensabile.
A quel punto, nemmeno un computer poteva riuscire ad elaborare calcoli tanto rapidamente da evitare uno schianto.
Lasciai sconfitto la cabina di comando quando la nave rallentò a novecento chilometri l’ora.
Eravamo troppo lenti per tentare di risollevarci e troppo veloci per tentare di atterrare, visto che grazie a quel comandante geniale non avevamo più i propulsori d’arresto.
Spero lei, e i tremila passeggeri che dovrebbero aver lasciato la nave, se la siano cavata meglio.
Le navi Siriane non hanno da tempo abbastanza gusci per l’intero equipaggio.
Montarne mille sarebbe troppo costoso e il risultato sarebbe troppo pesante, quindi richiederebbe più carburante.
La probabilità di un’emergenza tale da dover evacuare l’intero equipaggio è troppo bassa per compensare questi costi.
E col tempo questa cosa non ha fatto altro che aumentare.
Più siamo, meno valore ci attribuisce l’Impero.
Però intanto noi siamo precipitati.
Mentre tornavo verso la stanza in cui c’erano le mie valigie, urtammo qualcosa e la nave si inclinò vistosamente. Finii a terra, e prima che mi potessi rialzare ci schiantammo di nuovo e la poppa fu sbalzata verso sinistra.
Per andare ad impattare qualcos’altro.
Si staccò qualcosa di grosso dallo scafo, e ci inclinammo di qualcosa come novanta gradi a destra.
La poppa si lanciò verso destra ed iniziò a scendere.
La fiancata su cui ero sdraiato toccò terra.
Lo scafo si spezzò ad un paio di metri da me. Il pezzo su cui mi trovavo continuò a strisciare producendo un rumore allucinante, e si fermò poco dopo l’altro.
 
Forse persi i sensi, non so, so solo che mi risvegliai sul soffitto di un corridoio, con il pavimento accartocciato a pochi centimetri dal petto.
Faceva un dannato freddo.
E lo fa ancora.
Il corridoio s’interrompeva a poca distanza da me.
Ho avuto parecchia fortuna a non essere lanciato fuori.
Le mie valigie erano misteriosamente integre, a poca distanza da me.
Mi sono mosso in quella direzione, o almeno ci ho provato.
Mi sono spezzato una fottuta gamba.
Sarei congelato se non mi fossi messo qualcosa di più addosso, e credo che l’ipotermia sia un modo pessimo di trovare la morte.
Un po’ imprecando e un po’ strisciando ho preso una fottuta valigia l’altra era stata schiacciata.
Sono strisciato fuori.
 
Mi sono ritrovato nel mezzo di una catastrofe.
Gran parte della gente non potrebbe capire queste parole.
Non avrei potuto capire queste parole se non avessi vissuto quello che ho vissuto.
Per gran parte degli abitanti di Sirio, una catastrofe è un caccia che si schianta dentro un palazzo.
Non potete immaginare cosa sia stato per me trovarmi lì in mezzo.
Meno di metà dell’aeronave torreggiava su di me per non meno di duecento metri.
Non aveva preso fuoco, o non tutta, per lo meno.
Tutto intorno, in un raggio di… saranno stati un migliaio di metri, non c’erano altro che corpi.
Acciaio distorto e corpi.
Qualcosa bruciava.
Per un po’ pensai di essere l’unico superstite.
Poi, dall’altro pezzo della nave, quello che si era fermato, iniziò ad uscire gente.
Giaceva su un fianco, inclinato di oltre novanta gradi.
Un mostro di duecento metri d’altezza e almeno ottocento in lunghezza, accartocciato ed in fiamme in diversi punti.
Faceva un dannato freddo. Il mio primo pensiero fu di infilarmi quei dannati abiti che avevo in quella valigia, ma pensai che probabilmente c’era qualcuno che ne aveva bisogno più di me.
Raccolsi la valigia e mi avviai verso gli altri sopravvissuti.
Posando lo sguardo per caso su un pezzo di specchio notai che avevo anche un taglio sulla fronte.
L’aria per lo meno sembrava respirabile.
Non saprei nemmeno cosa stessi provando.
Niente. Stavo pensando a cosa era accaduto a lei e alla sua ricerca.
Tutti quei morti… E tutto ciò a cui riuscivo a pensare era una persona, che tra l’altro non sapevo nemmeno dove fosse. Se fosse viva, morta, sul pianeta, vagante per lo spazio.
Forse è proprio questo che una vista simile provoca.
Gli altri si muovevano lentamente.
Non ce n’era nessuno illeso, e si muovevano tutti lentamente.
Voltandomi, vidi che anche dalla mia parte di nave stava cominciando ad uscire gente.
Non avevo la minima idea di cosa fare.
Quando accade una cosa simile, non c’è nulla di già fatto, nulla a dirti come comportarti, nessuna legge che ti guidi.
Continuai a camminare verso i superstiti dell’altro pezzo di nave ed entrai tra loro.
Nessuno proferiva una parola.
Ad un tratto, un rumore acuto seguito da un basso ruggito mi fece voltare.
C’è un unico punto debole nel sistema di propulsione delle nostre navi, una sola occasione in cui i motori rischiano di esplodere.
Quando uno dei fasci di elettroni che alimentano i generatori si spostano.
Ed ora, c’era un fascio violaceo che spuntava da una fiancata.
Non vi servirà sapere come è successo.
Probabilmente non vi servirà nemmeno sapere che è successo, ma è successo.
-A terra!- Fu la prima cosa che mi venne in mente di gridare.
Una vampata di luce azzurra avvolse quel pezzo di relitto, poi fummo travolti dall’onda d’urto.
Il tutto si ripeté altre tre volte.
Quattro reattori, quattro reattori esplosi.
Al posto di quattromila metri cubici di acciaio e vetro c’era un piccolo cratere annerito.
Chissà quanta gente c’era ancora, là dentro.
Altri morti.
Distrutti, i loro corpi polverizzati dalle esplosioni.
Per quanto tanti possiamo essere, non è possibile rimanere freddi davanti ad uno spettacolo tale.
Centinaia di persone che muoiono sotto i tuoi occhi… non è possibile immaginare cosa si prova, finché non lo si vive.
Sta calando la notte, e io mi sento distrutto.
Ho perso il conto dei cappotti che mi sono messo addosso, e sono in una delle stanze più interne del relitto.
È maledettamente buio, le uniche luci sono quelle dei dispositivi della gente che c’è accanto a me.
Mi sento distrutto.
Continuo a ripetermi che non avrei potuto fare nulla per impedire tutti questi morti, che probabilmente sarebbe successo anche se io non fossi mai salito su quella nave, ma non ho la forza di rispondermi.
Non so dove sia lei.
Potrebbe essere anche già al sicuro, in un’unità di soccorso sanitario su Sirio.
Potrebbe essere morta, non lo so.
Non so niente.
Tutto ciò che so è che devo sopravvivere insieme a questa gente.
Non so come dovrò rapportarmi con loro, mi sento terribilmente spaesato.
Non so quanto duri la notte qui, ma immagino molto più che su Sirio.
Non credo che domattina questo dispositivo funzioni ancora.
Questa potrebbe essere la mia ultima pagina di diario per molto tempo.
Sempre ammesso che sopravvivrò a stanotte.
Devo tentare di dormire.
Fa molto freddo.
  
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