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Autore: Pink_lemon    19/01/2012    6 recensioni
Un forte trauma colpisce Bella durante la sua vita a Phoenix. Per aiutarla, Renee la manda a vivere con suo padre a Forks. Riuscirà Bella a ritrovare la serenità e a tornare a parlare?
Genere: Avventura, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Più libri/film
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Salve! Eccomi di nuovo qui a rubare il vostro prezioso tempo in cambio di  non so bene cosa!
E chiedo venia per il mio ritardo mostruoso… ma tra crisi d’identità varie, post-depressive, d’ispirazione… Insomma c’è crisi XD…  comunque mi spiace veramente molto per avervi fatto aspettare cosi tanto  ma ogni volta che prendevo a trascrivere il capitolo al pc, la mia mente era tormentata da mille dubbi:  se fosse abbastanza lungo, se magari fosse troppo noioso o troppo lento, se fosse inutile e dispersivo… non lo so! Ora finalmente mi sono decisa e lascerò giudicare solo voi! Spero che questo ritardo non vi abbia persuaso a non leggere più la storia che è solo una povera vittima della sua pazza autrice.
Buona lettura!
 
Visita parte 2
Non appena aprii la porta mi ritrovai davanti quegli occhi così simili a quelli di un bambino che stonavano su quel fisico muscoloso…
Quegli occhi … che mi avevano fissato  con curiosità e  che  ora sembravano così felici di vedermi.
-Ehi! -   disse, lievemente  a disagio dal mio silenzio e dal mio palese sconcerto. - Come promesso… il suo pranzo è qui , milady  - 
Pronunciò queste parole con una veemenza appositamente esagerata  accennando un inchino appena finito di parlare.
Notando  il mio stupore  si ricompose e subito si affrettò a dire     - Bella, Charlie mi ha chiamato chiedendomi di portarti il pranzo… mi ha assicurato di averti avvisato  -   “ah ecco di cosa mi parlava Charlie prima di essersene andato “
In modo  indifferente mi spostai dalla porta e gli feci cenno di entrare.
Arrivati in cucina l’imbarazzo aveva preso consistenza che quasi si poteva toccare…
Avrei voluto farlo cessare, ma più di tutto avrei voluto far cessare lo sguardo che quel ragazzo, Jacob o come cavolo si chiamava, mi riservava dal nostro primo incontro… non so se poterlo definire di compassione, o di semplice tristezza… 
Ma se era triste io cosa c’entravo? Tutto questo pensare non faceva che stordirmi maggiormente.
Eravamo seduti l’uno di fronte all’altra, circondati da quel famigliare silenzio, fonte di tanto imbarazzo. Lui era concentrato a scrutare ogni mio movimento per tentare di decifrare la ragazza che aveva di fronte e capire se fosse realmente Isabella, quella che lui diceva essere la sua compagna di giochi d’infanzia, ed io ero concentrata su ogni singolo boccone per non dover  poi rigettare  quella che mi sembrava lasagna. Mi ero così abituata a disprezzare il cibo e il suo sapore che quasi non distinguevo più le pietanze, tanto che attribuivo loro lo stesso disgusto. In fondo  alla fine tutto si riduce in una disgustosa poltiglia che in un modo o nell’altro il tuo corpo parzialmente rigetta…
Con mio enorme stupore riuscii a mandar giù una bella meta della mia porzione, e non sentii nessun impulso  di recarmi al bagno. Ero piacevolmente stupita di come fossi diventata brava nel controllarmi e nell’auto-gestirmi. Dovetti comunque fermarmi - non potevo pretendere troppo, non volevo di certo finire con l’ingozzarmi di fronte a un estraneo, chissà cosa avrebbe mai potuto pensare! Potevo comunque ritenermi più che soddisfatta: avevo mangiato in modo pacato e tranquillo senza dare nell’occhio un bel pezzo di lasagna, ed il mio stomaco era forse in procinto di digerirlo.
Un tale autocontrollo non so se sarei riuscita a mantenerlo anche con Charlie: anzi, credo che forse una parte di me avrebbe voluto ficcarsi due dita in gola e vomitargli davanti. Non so quanto grande fosse quella parte, ma so per certo che era una parte di me molto malvagia.
Ma tutto sommato non credo lo avrei mai fatto, non perché quella parte di me fosse piccola, ma perché la voglia di non farmi scoprire  era nettamente maggiore. Non avrei mai voluto far succedere di nuovo il casino dell’ultima volta…
 Jacob guardò dubbioso sia me che il piatto. - Lo so che non sono come quelle di mia madre… ma da piccola non avresti esitato a spazzolarti la teglia  - 
Il pensiero di tutto quel cibo da ingurgitare mi fece salire un accenno di vomito su per la gola, che con molta discrezione dovetti sputare nel tovagliolo.
La mia più che discrezione nel non farmi scoprire era diventata un’arte… più volte mi ero trovata a complimentarmi con me stessa per il mio ingegno , anche se la quasi totale assenza di mia madre da casa mi aiutava non poco a mantenere la mia “privacy”.
Jacob, forse imbarazzato quanto me da quel silenzio, riprese a parlare. - Mia madre te la preparava sempre, sapeva quanto ti piacessero… e quanto tua madre fosse negata in cucina - 
Finita la frase rimase un po’ spaventato, temeva che io avessi potuto prenderne la fine per un’offesa… ma per tutta risposta io scoppiai a ridere. Se non fossi stata così concentrata a diffidare di lui e a odiarlo per la sua interferenza con le mie abitudini… forse avrei potuto trovarlo simpatico.
Inforcai l’ennesimo pezzo di lasagna e mentre lo stavo portando alla bocca mi sentii osservata, così alzai gli occhi  e notai il suo sguardo puntato su di me… non potei fare a meno di chiedermi perché mi stesse sorridendo, volevo capire cosa ci fosse dietro quel sorriso, cosa volesse da me…
Nel cercare si decifrarlo mi persi nei suoi occhi scuri per qualche istante.
Tre secondi, tre interi secondi nei quali ci guardammo reciprocamente, poi mi resi conto di quello che stava succedendo così  iniziò a mancarmi l’aria, le mie guance avvamparono diventando di un colore tendente al pomodoro. Per non parlare della reazione del mio cuore: i battiti non solo erano aumentati ma avevamo preso un ritmo tutto loro molto incostante.
Il fatto che sentivo ancora i suoi occhi su di me non mi aiutava affatto, anzi peggiorava di gran lunga le cose. L’aria si faceva sempre più rarefatta e sentivo l’impulso di spalancare la bocca per riempirmi i polmoni, ma non volevo  esagerare di fronte a lui…
Il risultato, però, poteva essere lo svenimento! Poggiai con finta calma la forchetta nel piatto e mi precipitai in bagno, con una velocità che andava aumentando mano a mano che mi allontanavo da Mr. Sorriso facile!
Il mio cervello era in tilt: mi accadeva spesso, quando mi accorgevo di essere osservata o di essere al centro dell’attenzione. Mi sembrava mancasse l’aria, e lo spazio sembrava ridursi fino ad imprigionarmi.
Sapevo che non sarei potuta tornare subito in cucina se non mi fossi prima calmata per bene.
Così me ne stetti in bagno, seduta a terra, con la schiena poggiata sulle mattonelle ghiacciate della parete, e mentre poggiavo una mano sul petto, come a voler rallentare il battito del mio cuore, l’altra la poggiavo inerme a terra, sperando nel sollievo dettato dalla frescura del pavimento.
Con la mente continuavo a contare da uno a cinque in modo lento per cercare di calmare l’affanno.  “Uno, due, tre, quattro, cinque, inspira… Uno, due, tre, quattro, cinque, espira…” Iniziava ad andare molto meglio, ma non so con esattezza quanto tempo ci misi, potevano essere cinque minuti come venti.  Ad un tratto sentii dei passi provenienti dalla cucina .
Quei passi rimbombarono nella mia mente. Il bagno si trasformò in una stanza a me molto più nota, ed i passi timorosi e leggeri che la porta velava si erano fatti pesanti  e smaniosi.
E sebbene  sapessi che vi era Jacob dietro quei passi, e che era lo stesso Jacob a pronunciare il mio nome con tanto timore, nel mio cervello si era attivato un meccanismo di difesa procurato dal déjà-vu che si era fatto largo in me.
Così mi fiondai sulla maniglia e la chiusi a chiave, con un impeto che probabilmente spaventò persino Jacob, che sentii uscire  senza più dir nulla. Ma mentre lui avrebbe potuto lasciarsi questo episodio alle spalle, io ero ripiombata io un mondo di paure e odio che speravo essermi lasciata a Phoenix, ma che in realtà non mi aveva mai abbandonata…
Ero distesa a terra, come una bimba impaurita, caduta in trappola, che non sa che fare, se non piangere e cercare di non fare rumore, cercare di non pensare alle percosse sulla porta che presto non avrebbero più colpito il legno ma il suo corpicino, perché tanto alla fine, per quanto  riuscisse a nascondersi bene , lui riusciva sempre a trovarla.
Non capivo più perché tentassi di oppormi, la mia resistenza non faceva che aumentare la mia punizione…
“BASTA” urlavo dentro di me, ma non mi rimaneva che sperare nella sua indulgenza  e nella mia mente, che avrebbe dovuto estraniarmi dalla realtà come meglio poteva.
Quando tornai di nuovo cosciente mi ritrovai nel  bagno, dove probabilmente stremata dai ricordi avevo perso i sensi.
  
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