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Autore: Mary P_Stark    19/01/2012    1 recensioni
PRIMA PARTE DELLA SAGA DI OCCHI DI LUPO. Il regno di Enerios è sull'orlo della guerra con il suo nemico storico, Vartas. Solo il suo principe ereditario, Aken di Rajana, e una ragazza-lupo, Eikhe di Nestar, potranno salvare il loro regno dalla distruzione. Ma non solo per difendere le loro terre, i due giovani dovranno lottare. Anche per difendere il loro amore che, tra le gelide lande dei Monti Urlanti, è divampato come fuoco scarlatto. Incuranti della differente estrazione sociale che li separa, dei loro stili di vita così diversi e del segreto misterioso che si cela dietro gli occhi di lupo di Eikhe, i loro cuori si toccheranno nel momento di maggior pericolo.
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Occhi di Lupo Saga'
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29.

 

 

 

 

 

Il boato che li svegliò di soprassalto nel cuore della notte, non fu spaventoso a causa di ciò che lo aveva provocato, ma quanto piuttosto per l’oscuro presagio che portava con sé.

Sobbalzando nel letto che ormai da mesi divideva con Eikhe, Aken si levò a sedere di scatto, le orecchie vigili in cerca di ulteriori rumori chiarificatori.

Le mani della compagna, nel frattempo, corsero all’acciarino nel tentativo di accendere la candela sul comodino il più in fretta possibile.

Bussando alla loro porta con fare concitato, nemmeno un minuto dopo quel suono disumano, Antalion esalò con voce ancora impastata dal sonno, ma già allerta: “Posso entrare?”

“Vieni pure, An” disse lesto Aken, levandosi da letto mentre una fiammella purpurea prendeva vita sulla candela.

Armato della propria, che gli illuminava il viso tirato e i capelli scompigliati dal sonno, Antalion entrò a grandi passi nella camera padronale.

Fissati alternativamente i genitori, domandò torvo: “Una slavina?”

“A giudicare dal rumore, o era bella grossa, o si è trattato di una valanga in piena regola” brontolò il padre, indossando alla svelta camiciola, pantaloni e una pesante casacca di pelle di bufalo, che Eikhe aveva confezionato per lui come regalo per la sua venuta.

Storcendo la bocca carnosa, il figlio annuì mentre la donna, imitando il compagno, indossava i suoi abiti più pesanti assieme ad alti stivali di cuoio nero, che usava per i lavori di fatica.

Quando furono entrambi pronti, si volsero a guardare il figlio, già abbigliato per uscire e, senza una parola, imboccarono il corridoio per raggiungere l’ingresso della casa e, da lì, la via principale di Hyo-den.

Era necessario scoprire se i frangi valanga avevano retto, o se le parti più esterne del paese fossero state colpite dal fronte nevoso.

Diverse donne, e non pochi uomini, si riversarono a loro volta sulla via mentre Istrea e la figlia, uscendo di gran carriera dalla loro abitazione, si univano al gruppo via via più folto di persone.

Salutandole con sorriso di circostanza prima di affiancarle, Aken chiosò: “Risveglio sonoro, eh?”

“Avrei preferito non doverlo mai sentire, ma dopotutto non mi stupisce. Siamo in primavera, ormai” brontolò Istrea, prima di accorgersi del cipiglio cupo dell’uomo al suo fianco.

Una valanga agli albori dell’alba poteva voler dire solo una cosa; le temperature si erano irrimediabilmente alzate.

Se già non lo era in quel momento, la Carovaniera del Nord sarebbe stata ben presto percorribile.

Questo significava anche che, da quel momento in poi, re Arkan avrebbe inviato i soldati alla ricerca del figlio, rivoltando quelle lande così isolate e lontane dalla Capitale del Regno.

Aken vi aveva pensato nell’istante stesso in cui, quel sordo tuono mortale, si era allargato nella valle con le sue vibrazioni raggelanti.

Pur avendo a cuore le sorti di coloro che, per disgrazia, si fossero trovati in mezzo a quella furia di neve e ghiaccio, non aveva potuto esimersi dal chiedersi quanto tempo sarebbe passato prima di ricevere notizie dai clan del sud.

Non voleva andarsene da lì, e neppure voleva costringere la famiglia all’ennesimo sacrificio per causa sua, ma cos’altro gli rimaneva da fare?

Non avrebbe mai rimesso piede a Rajana alle condizioni del padre, e non voleva che l’esercito se la prendesse con le figlie sacre che, così gentilmente, lo avevano accolto nel loro abbraccio.

Certo, si era guadagnato il suo posto all’interno del clan, lavorando operosamente e prendendosi cura dell’educazione militare di tutti i giovani del villaggio, comprese alcune figlie sacre già avanti con l’età.

Oltre a ciò, aveva dato una mano alla sistemazione di alcune case, al consolidamento di diversi tetti e alla fortificazione dei frangi valanghe.

Non si poteva certo dire che si fosse tenuto in disparte.

In ogni caso, non voleva ripagare con l’esercito e la morte la loro calda ospitalità.

Se fosse stato necessario, avrebbero fatto i bagagli e se ne sarebbero andati.

Avevano già l’appoggio di Enok, nel caso si fossero diretti a nord, così come avevano da tempo diversi contatti con alcune tribù di donne-lupo nel reame di Karton.

Quest’ultime si erano rese disponibili ad accoglierli nella malaugurata ipotesi che, restare a Enerios, fosse risultato per loro troppo pericoloso.

Per il momento, in ogni caso, dovevano occuparsi di ciò che era successo al villaggio.

Solo se avessero ricevuto notizie negative, si sarebbero mossi, non un minuto prima.

Aken teneva troppo a quel luogo e ai legami che Eikhe, Antalion e lui stesso avevano creato a Hyo-den.

Non vi avrebbe rinunciato se non tassativamente costretto.

“Tutto bene, papà?” sussurrò al suo fianco Antalion, strappandolo a quei lugubri pensieri.

Cercando di abbozzare un sorriso, lui annuì dicendo soltanto: “Tutto a posto, An. Tutto a posto.”

***

“Non siamo più disposti ad accettare le intemperanze di Sua Maestà” precisò, alla fine di un lungo discorso, il comandante della guarnigione di Rajana, osservando spiacente il principe Ruak.

Ruak aveva ipotizzato senza problemi i motivi di quell’incontro segreto, fin da quando aveva ricevuto quell’invito tramite missiva vergata a mano.

Era raro che un membro dell’Alta Aristocrazia di Rajana venisse chiamato al cospetto di un ufficiale militare.

Ma il principe non aveva faticato a comprendere a cosa fosse dovuta quell’infrazione alle regole.

Senza dire nulla alla moglie, che si stava occupando dei figli assieme alla bambinaia, aveva disceso perciò le scale che, dalla torre nord del palazzo, conducevano fino all’atrio del maniero.

Da lì, era uscito in silenzio pur mantenendo un contegno regale come il suo ruolo gli imponeva.

Distante poco più di un isolato dal palazzo, la Caserma Ufficiali di Rajana era un’imponente struttura di pietra grigia, a forma di ferro di cavallo.

Posta sulla via principale, che costeggiava il castello reale, era dotata di ampi portoni di ferro, da cui due o più carri potevano passare agevolmente senza intralciare il passaggio di eventuali pedoni.

Due piccoli gabbiotti di legno, in cui stazionavano giorno e notte un paio di soldati di guardia, delimitavano le estremità dell’entrata.

Quando gli uomini al loro interno avevano scorto la figura del principe, si erano messi immediatamente sull’attenti, salutandolo con voce stentorea.

Ruak aveva risposto con cortesia a quel saluto così altisonante – e di cui non sentiva necessariamente il bisogno – , prima di fermarsi in prossimità della guardiola e attendere che il secondino al suo interno aprisse.

Un attimo dopo, la porticina a lato dell’entrata carrabile era stata aperta per permettere loro di oltrepassare le mura di cinta della caserma.

Una volta all’interno dell’ampio cortile lastricato, il soldato si era voltato verso il principe, dicendo: “Prego, Vostra Altezza, da questa parte.”

Ruak lo aveva seguito lungo un interminabile porticato ad arco, dove spuntavano come bocche da fuoco una miriade di porte, sui cui battenti erano scritti i nomi di altrettanti ufficiali della guardia cittadina.

Giunti infine all’ultimo ufficio, il soldato aveva bussato prima di inchinarsi al principe e andarsene in silenzio, lasciando che Ruak entrasse da solo all’interno della stanza.

Era chiaro che quel colloquio sarebbe stato privato.

Il generale Sedarr non aveva perso tempo, esponendogli le sue lagnanze con profonda dignità, ma anche con il viso percorso da un profondo dissenso.

Era forse la prima volta in vita sua che scorgeva sul suo volto abbronzato, e solcato da rughe profonde, una simile indisposizione nei confronti dell’autorità costituita.

E ora, al termine delle infinite accuse sottolineate dal comandante, Ruak non poté che annuire.

Le intemperanze del sovrano avevano ormai superato ogni limite.

Accomodatosi stancamente quando, fino a quel momento, era riuscito a sopportare in piedi il monologo del generale, Ruak piegò in avanti il capo e lo poggiò sulla mano destra spalancata a sorreggerlo.

Spiacente, sussurrò: “Non avremmo mai dovuto raggiungere questo punto.”

Sedendosi sul suo scranno e poggiando gli avambracci sui braccioli, ricoperti di fine velluto blu mare, il generale Sedarr annuì a sua volta, scuotendo il capo con espressione afflitta.

“Non avrei mai voluto proferire simili parole, Vostra Altezza, ma punire uno dei miei ufficiali, a mia insaputa, e per una cosa al di sopra delle possibilità di chiunque, forse persino di un dio, non può essere tollerato!”

Avrebbe dovuto rimanere a palazzo e vigilare sui movimenti del padre, ma la sua decisione di avvisare Aken dei prossimi spostamenti delle truppe, lo aveva distratto.

Questo aveva permesso ad Arkan di muoversi indisturbato, data la sua assenza.

Dopo l’ennesima quanto infruttuosa missione inviata verso il nord, il sovrano si era sfogato sul comandante di turno, facendolo fustigare dalla sua guardia privata nel bel mezzo del cortile di palazzo.

Il tutto, senza avvisare né i comandi militari, né tanto meno il Concilio della Corona, in spregio a tutte le consuetudini e le regole che anche il re doveva seguire.

Naturalmente, non appena Ruak aveva saputo della notizia, era andato su tutte le furie.

Dopo aver parlato brevemente con il padre – senza peraltro ottenere alcunché – aveva incontrato la madre e alcuni membri del Concilio, che avevano espresso il loro dissenso.

Gli era spiaciuto vedere sul volto della madre la rassegnazione e, sì, la ferrea volontà di andare contro le decisioni del marito ma, in fondo, non avrebbe potuto aspettarsi null’altro, dopo ciò che era accaduto.

Per quanto legata al padre, Anladi non lo aveva mai amato veramente, non quanto amava il suo popolo, per lo meno.

La donna sapeva benissimo che dare ancora corda al marito avrebbe potuto causare ben più di un danno, alla gente di Rajana e a Enerios.

Arkan non era più in grado di controllarsi, ormai troppo simile a un despota e perciò non più degno del trono del Regno.

Certo, la fuga di Aken aveva segnato la svolta, ma già da anni il suo comportamento si era fatto pericolosamente simile a quello dei regnanti di Vartas.

La Corona non era più stata, per lui, un onore da portare avanti con dignità e coraggio, ma un mezzo per soggiogare tutti al suo volere, cosa che un re di Enerios non poteva permettersi.

Era giunto infine il momento di fermarlo.

“Comprendo benissimo cosa volete dire, Generale, e io stesso ho parlato con alcuni membri del Concilio non appena sono tornato da Elior. So cosa vuole la Corte come so cosa volete voi, e non mi trovate impreparato” sospirò Ruak, raddrizzandosi prima di imporsi un controllo marziale.

Era l’erede al trono, il Re dopo suo padre, e non poteva mostrarsi debole proprio in quel momento, quando tutti cercavano in lui un’ancora a cui aggrapparsi nel momento del bisogno.

Doveva dimostrare di avere non solo sangue nobile e puro nelle vene ma, soprattutto, il coraggio di ergersi sopra gli altri e comandare, duramente se necessario.

Il suo compito era portare giustizia e senso di equità, cosa che il padre aveva dimenticato nell’attimo stesso in cui aveva rinchiuso entro quattro mura il figlio primogenito.

Castigando le ambizioni più che giuste di Aken, aveva anteposto il sangue e il nome della sua famiglia all’onore e alla giustizia, condannandosi con le sue stesse mani.

Aveva posto la prima pietra per la costruzione dell’altare su cui, ora, Concilio e Casta Militare, volevano immolarlo per le sue colpe.

A quel punto, non c’era nulla che Ruak potesse fare per salvarlo da se stesso, poiché già troppe parole erano state spese in tal senso.

Ora, era giunto il momento di agire.

Levandosi in piedi con grazia e forza assieme, Ruak si fece marmoreo in viso e, con un tono di voce che mai, in precedenza, aveva usato, disse al generale: “Indirò un Concilio della Corona, ove saranno presenti i più alti in grado della Casta Militare, e proporrò l’abdicazione del re come è in mio potere in quanto erede al trono.”

Scattando sull’attenti, il generale piegò rispettosamente il capo in avanti e, portando il pugno in corrispondenza del cuore disse con voce stentorea e piena di ammirazione: “Ve ne sono grato, Vostra Maestà.”

Già. Vostra Maestà.

Ben presto, quel titolo altisonante e di cui, per motivi vari, aveva sempre avuto timore, gli sarebbe crollato sulle spalle prima di quanto avrebbe immaginato.

D’altra parte, non si poteva fare altrimenti, e non solo per salvare Aken dalle grinfie degli uomini del padre, ma anche per Rajana ed Enerios.

Tutto il popolo meritava un re equo, e Arkan non lo era più ormai da tempo.

“Ora è il mio turno” sussurrò tra sé Ruak.

***

“Certo che ha schivato le case di un soffio!” commentò Kalon, osservando a braccia intrecciate il fronte nevoso disceso dal monte solo poche ore prima.

Sotto il sole di quella frizzante mattina di inizio primavera, Aken e altri uomini del paese stavano osservando ciò che la valanga non aveva danneggiato grazie ai frangi valanga che avevano rinforzato l’inverno precedente.

Le travi che il fronte nevoso aveva divelto come fossero stati stuzzicadenti, facevano comunque impressione.

Avrebbero dovuto lavorare per settimane, per sistemare tutti i frangi valanga distrutti dal passaggio della neve ma, poiché servivano a proteggerli, erano ben visti i danni a loro, piuttosto che alle case di Hyo-den.

Non che questo compensasse il fatto che una simile distruzione voleva significare.

Giorni e giorni nei boschi ad abbattere nuovi alberi, e ore e ore di estenuante lavoro di piallatura, incasso e lavoro di martello e chiodo.

Guardandosi vicendevolmente in faccia, non del tutto certi da dove poter cominciare con i lavori, Yvok intervenne per primo dicendo: “Allora, direi che io e questi robusti gemelli potremmo andare a fare legna, mentre voi liberate le buche dai tronchi distrutti e controllate quelli che sono stati solo divelti.”

Annuendo, Aken guardò Antalion, che sorrise compiaciuto, prima di ammiccare all’indirizzo di Kersten e Siak – compagni di un paio di donne-lupo del villaggio – e dichiarare: “Qui ci penseremo noi. Se vi servono dei cavalli per trainarli, sentite Eikhe. Oggi è di turno lei, nel maneggio.”

“A dopo, allora” chiuse il discorso Yvok con un gran sorriso, tornando verso valle assieme ai due gemelli, mentre il resto del gruppo restava in prossimità dei frangi valanghe distrutti.

Il resto degli uomini teoricamente presenti al villaggio erano, o impegnati a Marhna per lavoro – e risiedevano lì solo nei fine settimana – , oppure alle prese con i malanni di stagione.

Quei pochi che restavano fuori da quelle categorie, erano davvero troppo piccoli per poter partecipare a simili lavori di ristrutturazione.

Visto che, per almeno un paio di giorni, non ci sarebbe stata altra manovalanza se non la loro, dovevano darsi da fare per iniziare almeno i lavori.

Tirandosi su le maniche, Aken e gli altri si avviarono perciò verso i tronchi divelti, iniziando a controllarli uno per uno per essere certi che non avessero danni.

Dopo averne salvati almeno una decina, accatastarono quelli irrimediabilmente distrutti su una slitta, e inviarono il cavallo che la guidava direttamente al villaggio.

Fu solo verso sera inoltrata che, stanchi e affamati, tornarono a Hyo-den, più che desiderosi di una cena e di un bagno caldi.

Dopo essersi salutati e dati appuntamento per il giorno seguente per proseguire i lavori ai frangi valanghe, Antalion e Aken salirono lentamente i gradini che conducevano alla veranda di casa.

Con un saluto stentato e fiacco, Aken fu il primo a entrare, già pronto ad avventarsi sulla cena come un orso affamato.

Quando però vide Eikhe seduta al tavolo della cucina, lo sguardo perso nel vuoto e il suo cucciolo di lupo poggiato in grembo e tutto preso a leccarle il viso, si bloccò a metà di un passo ed esalò: “Tesoro… che c’è?”

Antalion, dietro di lui, lo oltrepassò preoccupato non appena sentì quel tono di voce ansioso.

Squadrando la madre con il cuore in gola e il viso percorso da mille e più paure, corse subito dopo verso di lei, esclamando: “Mamma, cos’hai?!”

Scuotendosi non appena Antalion le scrollò le spalle con una certa violenza, Eikhe fissò il volto innaturalmente pallido del figlio prima di sorridere leggermente e dire: “Oh… siete già tornati?”

Avvicinatosi a sua volta con passo solo apparentemente più tranquillo, Aken le si sedette accanto e, afferrata una sua mano, se la poggiò sul petto, mormorando: “Amore, non stai bene?”

“No, tutt’altro” asserì lei, prima di aprirsi in un sorriso vero e proprio e aggiungere: “Oh, cielo, scusate! Ero un po’ stralunata, e voi mi avete vista così, pensando non stessi bene.”

Scansando gentilmente il suo lupo, Luak, che atterrò sulle zampette morbide prima di accoccolarsi sotto la sua sedia e sbadigliare felice, Eikhe guardò dapprima il compagno prima di volgere gli occhi verso il figlio e chiedergli: “Te la senti di fare il fratello maggiore?”

“Oh. Cacchio!” se ne uscì Antalion, crollando scompostamente su una sedia prima di guardare il padre che, letteralmente, si era fatto di marmo.

Bianco come un cencio e del tutto privo di espressione, Aken si limitò a sbattere furiosamente le ciglia senza avere la forza di parlare.

Comprendendo il suo ovvio sconcerto, Eikhe gli carezzò una guancia con la mano libera, sussurrando: “Non sei dispiaciuto, vero?”

“No, affatto, ma… sei sicura che…” tentennò lui, riprendendo solo in parte il controllo di sé.

Lei annuì una sola volta e Aken, non sapendo che altro fare, si inginocchiò accanto alla sua sedia e, sfiorandole il ventre ancora piatto con una mano, sussurrò: “Crescerai amato e protetto. Io, tuo fratello e tua madre non ti faremo mai mancare nulla.”

Levando poi lo sguardo a cercare quello del figlio, ancora piuttosto confuso di fronte a quella notizia inaspettata, Aken gli sorrise prima di dirgli: “Vieni qui con me a dare il benvenuto a tuo fratello… o a tua sorella, vedremo.”

Antalion annuì come in trance e, inginocchiatosi all’altro lato della madre, la baciò su una guancia prima di dire: “Sarò un bravo fratello maggiore, vedrai.”

“Ne sono sicura, tesoro mio” annuì Eikhe, sorridendo poi divertita al compagno. “Stavolta, potrò insultarti senza ritegno.”

“Non avevo alcun dubbio” ridacchiò Aken, scrutando pieno d’amore la compagna e il figlio. “Sarà bellissimo affrontare tutto questo con voi due al fianco. Sarà un po’ come ripagarvi degli anni in cui non ho potuto esserci.”

“Sei già stato ampiamente scusato, per quello” bofonchiò Antalion, levandosi in piedi in fretta. “Vado a farmi il bagno, visto che la cena ancora non è in tavola.”

Osservandolo mentre, con passo stanco e strascicato, Antalion si allontanava da loro per prendere la via delle camere, Eikhe sorrise benevola al compagno.

“Vai da lui, prima che si metta in testa strane idee.”

“Sarà meglio” annuì Aken, levandosi da terra prima di darle un bacio maritale sulla fronte e correre dietro al figlio.

Raggiuntolo nella stanza da bagno, dove una stufetta di ghisa serviva non solo a riscaldare l’ambiente ma anche i secchi d’acqua, Aken lo osservò in silenzio per alcuni attimi, indeciso su cosa dire.

“Temi possa amarlo di più perché potrò vederlo nascere e crescere?” chiese d’improvviso Aken, facendo sobbalzare il figlio per lo spavento.

Rovesciando a terra parte dell’acqua, Antalion trattenne a stento un’imprecazione prima di sospirare e bofonchiare a mezza voce: “Ma che razza di idee ti vengono in mente?”

Non del tutto convinto, Aken si avvicinò al figlio e, precedendolo, prese un canovaccio per asciugare il pavimento di legno.

“Non è questa la tua più grande paura, ragazzo?”

“Perché dovrei avere paura di un nanerottolo non ancora nato?” sbuffò Antalion, prima di posare con una certa malagrazia il secchio vuoto a terra per prenderne un altro.

Bloccando la mano del figlio prima che versasse nella tinozza il secondo secchio, Aken gli sorrise comprensivo e disse: “Perché saresti umano, a pensarlo, tutto qui. Credi che non avessi le tue stesse paure, quando mia madre morì e Anladi prese il suo posto, dando a mio padre altri due figli? Pensavo mi avrebbero messo da parte, dimenticato, relegato in un angolo.”

“Invece?” chiese in un sussurro Antalion, posando a terra il secchio ancora pieno.

Con una scrollatina di spalle, Aken si sostituì al figlio nel riempire la tinozza e, mentre il fruscio dell’acqua scivolava dal secchio in metallo, disse tranquillo: “Anladi mi prese sotto la sua ala, nonostante fosse poco più che una bambina ella stessa e, insieme, diventammo adulti, crescendo il piccolo Ruak e la sdolcinata Melantha. E credimi, avere a che fare con mia sorella, finché è rimasta a palazzo, è stato un inferno. Abbiamo faticato molto ad andare d’accordo, ma alla fine siamo riusciti a trovare una via di mezzo.”

Abbozzando un sorriso, Antalion allora disse: “Quindi, anche se lo vedrai nascere e crescere, per te non farà differenza?”

“Sarà differente perché ci sarai anche tu al mio fianco. Non potrò mai dimenticare che tu sei stato il mio primo figlio, mai!” esclamò con enfasi Aken, prima di indicare la tinozza e aggiungere: “Ma se starai qui a crogiolarti al caldo per più di venti minuti, giuro che ti preleverò di peso e ti scaricherò in mezzo alla neve per avermi fatto aspettare.”

Scoppiando a ridere, Antalion annuì più tranquillo.

“Ti voglio bene, sai, papà?”

“Anch’io, An” disse Aken, allargando il suo sorriso.

Storcendo appena il naso, il ragazzo si sfilò la tunica e borbottò: “Mi sa che non permetterò più neanche a te di chiamarmi così, quando sarà nato il piccolo. Sai, devo mostrarmi adulto per lui o lei, dopotutto.”

Ridacchiando, Aken andò verso la porta per uscire dal bagno e disse: “Come vuoi tu, figliolo. A tra poco, allora.”

“Sì, papà. A tra poco” sussurrò Antalion terminando di svestirsi mentre il padre usciva dal bagno.

***

La Sala del Concilio era una lunga stanza rettangolare, posta a fianco della più imponente Sala del Trono dove, solitamente, si svolgevano le adunanze pubbliche e le celebrazioni più importanti.

Interamente rivestita di pannellature di legno per attutire i rumori e le voci, la stanza aveva nel mezzo un lungo e tavolo di legno scuro.

Attorno a esso erano posizionati gli scranni perfettamente uguali designanti a ciascun componente del Concilio della Corona.

Nato alcune centinaia di anni prima, così da mettere un freno alle mire dittatoriali del Sovrano dell’epoca, era composto da ventisette membri.

Il Concilio poteva vantare la presenza di ventitré nobili di alto lignaggio, scelti in ogni contea del regno mediante elezioni decennali.

I restanti quattro membri facevano parte della Casta Militare e, contrariamente ai nobili, erano scelti in base al grado e all’anzianità di servizio, e restavano in carica fino alla morte, o per abbandono del seggio.

Quel giorno di inizio primavera, chi in alta uniforme, chi sfoggiando vesti pregiate quanto apparentemente dimesse – nel Concilio era vietata l’ostentazione dei propri mezzi– l’assemblea si riunì.

Accanto all’unico scranno più altro degli altri, ove solitamente sedeva il Re, si trovava la figura ritta e fiera di Ruak.

Interamente vestito di nero, con l’unico plastron bianco a recare un qualche stacco di colore in quell’uniforme tenuta oscura, Ruak appariva rigido e statuario.

Lo sguardo era come di ghiaccio e la bocca, solitamente piegata in un sorriso, quel giorno disegnava un’unica linea sottile e pallida sul suo volto.

Era ben chiaro a tutti il motivo di quel suo atteggiamento così inconsueto, e nessuno dei membri del Concilio si sorprese nel vederlo così accigliato, visti i motivi che li avevano spinti a riunirsi quel giorno.

All’esterno, le piante da frutto del giardino di palazzo avevano messo le prime foglie smeraldine, mentre il cinguettio delle allodole e dei passerotti scandivano le note allegre della primavera ormai giunta.

Il tutto era in netto stridore con il silenzio tombale di quella stanza, dove la morte – e non la vita – sembrava aleggiare come una cupa minaccia.

Ruak si volse in direzione della porta a due battenti non appena udì, all’esterno, i due battiti sordi del bastone del cerimoniere, segno distintivo che il padre era giunto al loro cospetto.

La mano che teneva sullo schienale dello scranno, tamburellò nervosa.

Un attimo dopo, mentre i membri del Concilio si levavano per salutare il re, e Ruak si allontanava dal seggio di un paio di passi, le porte vennero aperte e sull’entrata comparve Arkan.

Armato come suo solito del bastone e di tutta la sua fiera spavalderia, era ritto di spalle e con la bocca piegata in una lieve smorfia di disappunto.

Seguito in silenzio dalla moglie, che si accomodò su un basso scranno posizionato poco a destra rispetto alla porta d’entrata della sala, Arkan raggiunse con passo claudicante ma svelto il suo scranno.

Dopo aver lanciato un’occhiata venefica in direzione del figlio – che lo aiutò a sistemarsi più accanto alla tavola – esordì dicendo: “Accomodatevi e spiegatemi a cosa dobbiamo questa riunione straordinaria. Sono curioso!”

Lo sguardo serio e compassato, Anladi osservò un attimo il figlio prima di annuire lievemente e lui, abbozzando un sorriso nella sua direzione, prese un gran respiro e disse: “La riunione si è resa necessaria a causa del vostre scelte dissennate e dispotiche.”

Volgendo lentamente lo sguardo su tutti i membri del Concilio, che in silenzio osservavano Ruak con fiducia, Arkan terminò il suo studio sul viso del figlio prima di dire arcigno: “Vuoi togliermi la corona, figlio? E’ questo?!”

“Mi ci avete costretto” precisò Ruak, abbassando finalmente lo sguardo a osservare gli occhi adamantini del padre.

No, non lo riconosceva davvero più.

Non c’era che gelo, in quelle iridi che, un tempo, aveva amato.

“Avete usato il vostro potere per agire in maniera ossessiva, sprezzante della sicurezza delle genti, che avete mosso per il vostro solo diletto, e avete punito un uomo solo per il gusto di farlo, poiché nulla avrebbe potuto per accontentarvi, e voi lo sapevate benissimo!”

“I miei soldati sono dei rammolliti, se basta della semplice neve a fermarli” sbottò il re, tornando a guardare il Concilio con aria di sufficienza. “Basi davvero su queste misere accuse, la tua richiesta di abdicazione? Neppure uno sciocco accetterebbe.”

Cercando di mantenere la calma, Ruak continuò imperturbabile.

“Sono mesi, per non dire anni, che le vostre scelte ipocrite hanno minato la fiducia di noi tutti nei vostri confronti. Senza toccare i motivi veri che hanno costretto mio fratello a rimanere praticamente prigioniero in questo castello per sedici anni, sono anche altri, e non meno gravi, i motivi che mi spingono a parlare qui, oggi.”

Ciò detto, lanciò un’occhiata in direzione Consiglio, come a sincerarsi di avere ancora il loro appoggio, e proseguì.

“I vostri colpi di testa hanno messo a rischio la vita dei soldati preposti alla difesa del regno, quest’inverno e, quando li avete tacciati di codardia, non vi siete neppure premurato di conoscere il loro parere. Avete mandato alla morte dodici dei nostri migliori cavalli, sei cavalieri hanno dovuto vedersi amputare almeno un dito di un piede, o di una mano, a causa dei geloni e, come spregio ultimo, avete fatto fustigare un ufficiale senza il benestare del suo comandante. Questi mi sembrano ottimi motivi per chiedervi, anzi, ordinarvi di abdicare in mio favore.”

Sordo alle parole del figlio, Arkan gli sorrise beffardo, replicando: “Se tuo fratello fosse stato alla guida di una sola di quelle spedizioni, sarebbe giunto a Marhna senza problemi!”

Chiusi un momento gli occhi per ingoiare la bile che, feroce, era risalita fino alla bocca, Ruak li riaprì subito dopo e solo per dire: “Mio fratello non si sarebbe mai mosso da Rajana con simili condizioni di tempo ma, cosa ancora più importante, non avrebbe permesso a nessuno dei suoi uomini di farlo! Non parlate di mio fratello come se lo conosceste, perché così non è! Voi non sapete chi è Aken di Rajana!”

Assottigliando le iridi perlacee a fissare malamente il figlio, Arkan si levò dallo scranno per affrontarlo direttamente e, postosi di fronte a lui con sguardo becero, sibilò: “Prendi le distanze, eh? Molto bene, figlio, farò lo stesso. Visto e considerato che siamo qui riuniti, ti butterò ufficialmente fuori da questo Concilio!”

“Negato” intervenne con voce piana il generale Sedarr.

Voltandosi di scatto non appena la sua voce stentorea si dissolse tra le mura lignee della stanza, Arkan lo fissò con autentico stupore prima di irritarsi e ringhiare: “Come vi permettete?!”

“In quanto membro del Concilio a tutti gli effetti, ho il diritto di votare come meglio credo, e il mio voto è no” ingiunse con aria serafica Sedarr, intrecciando le braccia nerborute sul petto.

“Negato” disse a quel punto il Conte Visteritz, volgendo a mezzo il capo per fissare in viso il re, per nulla intimorito dal suo fiero cipiglio.

Uno dopo l’altro, i membri del Concilio votarono contro Arkan che, sempre più paonazzo in viso per la rabbia, li squadrò a turno con furore cieco.

Man mano che i voti aumentavano, dichiarando a chiare lettere su chi fosse riposta la loro fiducia, l’atmosfera nella sala cambiò.

Quando anche il Colonnello Yriacon votò a favore di Ruak, Arkan si mosse con insospettata velocità sui piedi.

Levato alto il bastone fin sopra la testa, si scagliò furente contro il figlio, urlando: “Tu sia maledetto!”

Lesto, Ruak si scansò in tempo utile per evitare di essere colpito mentre il Sergente Kirua – il più vicino di tutti al Re – si levava dal suo scranno per bloccarlo alla vita e impedirgli di andare oltre con l’attacco.

Anladi, a sua volta alzatasi in gran fretta quando vide il marito attaccare il figlio, avanzò veloce verso la porta e, apertala senza esitazione, ordinò con voce secca e dura: “Guardie, presto, entrate!”

Trattenuto dal Sergente Kirua e il Colonnello Yriacon per le braccia, mentre la sua bocca sputava insulti a tutti i membri del Concilio e maledizioni al figlio, Arkan fissò i soldati appena entrati nella sala ed esclamò: “Presto! Toglietemeli di torno!”

Ignorato completamente dai due alabardieri – che fissarono la loro regina in attesa di ordini – Arkan iniziò a strillare con sempre maggiore rabbia.

Gli occhi fuori dalle orbite, e l’aspetto di un vecchio folle scriteriato, il re continuò a urlare e dimenarsi, distruggendo un pezzo alla volta la figura che era stata un tempo.

Un re valido e capace, in grado di guidare un intero regno.

Pur sentendosi morire dentro, Anladi strinse le mani a pugno sul ventre e disse, stentorea: “Prendetelo e rinchiudetelo nelle sue stanze. Io giungerò a breve.”

“Sì, Vostra Maestà” dissero in coro i due alabardieri, muovendosi verso il loro Re senza tema alcuna.

Lasciatolo alle cure dei due soldati, gli ufficiali lo lasciarono andare non senza qualche difficoltà.

Mentre altri uomini giungevano in aiuto dei due già presenti nella sala, Ruak sospirò affranto prima di allungare una mano verso la madre per averla vicino a sé.

Le urla si intensificarono, quando Arkan venne condotto fuori a forza dai soldati, e solo quando le porte della sala vennero chiuse, Ruak ebbe il coraggio di tornare a parlare.

Lappandosi nervosamente le labbra, il viso pallido e le mani leggermente tremanti, dichiarò con voce il più possibile controllata: “Voto per l’abdicazione di Arkan di Rajana, figlio di Erecton di Midana e di Yulea di Seriken, a favore dell’Erede al trono.”

“Approvato” esclamò stentoreo il Concilio, senza alcuna inflessione nella voce.

Reclinando infine il capo, mentre col braccio destro cingeva la vita sottile della madre per sostenerla, e sostenersi, Ruak mormorò con voce ora sommessa: “Vi chiedo una cortesia. Non facciamo parola con il popolo di ciò che è successo qui. Che non si sappia che il loro buon re ha perso il senno; lasciamo che lo vedano ancora come il sovrano buono che ha a cuore la sua gente.”

Avvicinandosi allo scranno reale, il generale Sedarr gli batté calorosamente una mano sulla spalla, asserendo con un mesto sorriso: “Così sarà fatto, Vostra Maestà. Non ha senso turbare le genti con argomenti simili. Chiederemo alla Maestà Vostra di consigliare a vostro padre di ritirarsi nel palazzo estivo di Elion, cosicché possa curarsi e vivere in pace il tempo che gli resta.”

“Saggio consiglio” annuì Ruak, cercando di abbozzare un sorriso in risposta.

“Non è necessario apparire lieto, mio re, perché sappiamo quanto questo vi sia costato” replicò gentilmente Sedarr prima di osservare la regina e aggiungere: “Così come deve essere costato a voi, mia Signora. Avete tutto il mio rispetto e la mia comprensione.”

Annuendo garbata, Anladi disse sommessamente: “Me ne compiaccio, Generale. Un simile complimento, detto da un uomo così coraggioso, non può che suonare doppiamente gradito.”

“Esistono molti tipi di coraggio, Regina Madre, e voi avete dimostrato a noi tutti quanto voi ne possediate” asserì sinceramente Sedarr, chinandosi a baciarle la mano, ossequioso.

“Potete pensare voi a tutto?” chiese a quel punto Ruak, cominciando a sentirsi vagamente fuori fase. “Desidero sapere come sta mio padre, ora. Mi recherò nel mio studio più tardi per firmare tutte le carte del caso. So che posso fidarmi di voi, per tutto.”

Il nobile Gavin, sorridendogli benevolo, disse: “Vai, ragazzo, e riposati. Occupati di tua madre e di tuo padre. Alle scartoffie penseremo noi.”

“Grazie, zio” sussurrò Ruak, annuendo debolmente prima di uscire dalla Sala del Concilio assieme alla madre.

Non appena le porte del salone vennero chiuse alle loro spalle, il principe sospirò affranto e sussurrò: “Cos’ho fatto, madre? Cosa? L’ho ucciso!”

Scostandosi da lui per afferrarlo alle spalle, Anladi lo scrollò con forza e dichiarò perentoria: “Hai salvato il regno, tuo fratello e tuo padre. Se fosse andato avanti così, qualcuno avrebbe potuto decidere di ucciderlo, figliolo, mentre ora può uscire a testa alta da Rajana senza che nessuno sappia il reale motivo della sua abdicazione. Gli hai fornito un lascia condotto che non meritava, ed è più di quanto avrei fatto io, se fossi stata al tuo posto. Non biasimarti di nulla, mai!”

Ruak trovò la forza di sorridere e, fissando con nuovo rispetto la madre, piccola in confronto a lui ma forte al pari di un soldato, disse: “Sedarr ha ragione, esistono molti tipi di coraggio. E tu ne hai più di tanti uomini di mia conoscenza.”

Con un mesto sorriso, Anladi commentò: “Ci costringete a essere coraggiose, visto che sapete perdervi anche sul più semplice dei sentieri.”

“Come darti torto?” chiosò Ruak, prima di abbracciarla e sussurrare: “Andiamo da lui.”

“Sì” annuì lei, prendendolo sottobraccio prima di incamminarsi silenziosi lungo la scalinata di pietra che  conduceva ai piani superiori.

 

 

 

  
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