Film > The Phantom of the Opera
Segui la storia  |       
Autore: Sylphs    21/01/2012    2 recensioni
Sei mesi dopo la notte del don Juan, una giovane pianista un po' inopportuna arriva al teatro dell'Opera per seguire delle lezioni...ma un misterioso e ambiguo incidente capitato durante una rappresentazione la porterà ben presto a indagare sull'esistenza del temibile Fantasma dell'Opera e una domanda opprime l'animo di tutta la compagnia: è realmente scomparso, oppure la loro era solo una speranza vana?
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

La prova della Sfinge
 

 
 
 
 
“Forse mademoiselle è disposta a giungere ad un compromesso?” chiese Erik con inflessione ironica, uno scintillio inquietante nelle iridi azzurro scuro: “Forse mademoiselle se la sente di affrontare una prova?”
L’accento con cui venne pronunciata tale proposta, e soprattutto il ghigno luciferino che l’accompagnava suscitarono in Vivian un brivido di timore. L’uomo mascherato era pieno di un nuovo trionfo adesso che aveva trovato la maniera di liberarsi di lei, e la contemplava da dietro il foro di quel pezzo di cuoio bianco con l’ingordigia del gatto che ha appena chiuso in un angolo un topolino indifeso. Nondimeno la ragazza, stretta nel lungo mantello nero che le aveva prestato, nuda sotto di esso e reduce da avvenimenti di potente calibro, era pallida e tremante e lasciava scorrere uno sguardo paurosamente interrogativo sulla figura del suo interlocutore, soffermandosi sui bottoni della sua giacca scura per non essere costretta a precipitare nelle sue iridi.
“Che…che genere di prova?” bisbigliò infine con chiara inquietudine, arretrando di un passo per mettere una maggiore distanza tra sé e il Fantasma dell’Opera. Il sogghigno di lui divenne ancora più ampio, mentre osservava il pesce che girava intorno al suo amo: “Una prova delle più semplici, mademoiselle” spiegò vivacemente: “Talmente banale che ne rimarrete perfino delusa. Voglio che voi troviate il modo di uscire da una stanza”.
Lei batté le palpebre. Uscire…da una stanza? Non lo trovava un compito difficile, ma aveva la sensazione terribile che in realtà le stesse tenendo nascosto qualcosa di importante, e che quella frase apparentemente volta a rassicurarla fosse un pericoloso raggiro. Non aveva certo dimenticato le disperate manovre che era stata obbligata a mettere in atto per uscire dalla trappola in cui era caduta nel tentativo di raggiungere la Dimora sul Lago; sospettava che ciò che lui le avrebbe chiesto in cambio della sua ospitalità fosse simile, se non analogo a quella tipologia di impresa. E se allora l’ingegno e la buona sorte l’avevano favorita, era molto probabile che adesso non sarebbe stata altrettanto beneficata da essi.
“Tutto qui?” tirò fuori le parole a stento, sforzandosi di suonare scettica: “Debbo uscire da una stanza chiusa a chiave?”
L’uomo ridacchiò piano: “Oh, beh, naturalmente dovrete fare qualcosa per riuscire in quest’intento. Le cose non capitano certo così, dal nulla!”
Lei affilò lo sguardo: “Cosa, nello specifico?”
“Come siete curiosa!” la rimbeccò con allegria, ancor più inquietante sotto l’influsso di questo brusco cambiamento d’umore: “Ma d’altronde è normale, siete una donna! Però dovreste fare attenzione a ciò che succede alle donne troppo curiose…vi basta pensare a Barbablù!”
“Non voglio giocare con voi, monsieur Fantòme” rianimata dallo sdegno e dal dispetto, lo afferrò per il bordo della manica e gli diede una lieve scrollata: “Il mio era un discorso serio!”
Lui si divincolò con fastidio, respingendo la sua mano come se fosse stata un immondo parassita: “Anche il mio lo è, mademoiselle” sibilò, di nuovo glaciale e impassibile: “La mia ospitalità ve la dovete guadagnare. Perciò fate una scelta, e in fretta: affrontate la prova, o ve ne andate adesso. Basterà che voi diciate no, e non vedrete questo luogo finché avrete vita. Ma al contrario, un sì vi condurrà subito nel fulcro della vostra impresa, e se ne uscirete vittoriosa, potrete rimanere presso la mia dimora per…” non dedicò alla cosa troppe fatiche, dal momento che quella era un’eventualità che non si sarebbe mai verificata: “…dieci giorni. Allora, cosa rispondete? Prendere o lasciare!”
Vivian iniziò a torturarsi nervosamente le dita, gli occhi indecisi e spaventati che guizzavano da un punto all’altro dell’ampio salone sotterraneo. Era stata messa con le spalle al muro e non vedeva alcuna via d’uscita, alcun modo di ottenere ciò che voleva in circostanze meno definitive: non dubitava, infatti, che il Fantasma dell’Opera imponesse condizioni sicure e inossidabili, e che fosse assai poco insito alla sua natura ritrattarle. Perciò era costretta a scegliere tra una sicura e codarda ritirata e un totale abbandono dei suoi propositi, e un salto nel vuoto che avrebbe potuto condurla alla realizzazione del suo piano, o ad una completa disfatta. Senza dubbio una decisione ardua da prendere. La scelta più saggia, glielo avrebbero detto tutti, sarebbe stata rispondere no e chiudere la faccenda una volta per tutte.
Però un simile atto di vigliaccheria avrebbe potuto condannare decine di innocenti che sarebbero morti per mano di quel mostro. Doveva agire per se stessa o per loro? E poi, insomma, cosa le sarebbe potuto accadere di male? Se anche non fosse riuscita a portare a termine la prova, la cosa si sarebbe risolta con una semplice ammissione di impotenza. Bruciante per l’orgoglio, ma indolore per il fisico. Non aveva niente da perdere…o no?
“Monsieur” alzò lo sguardo su di lui con un’esitazione, poco abituata a conversare con un volto celato per metà da quella liscia maschera bianca: “Quali saranno le conseguenze di una mia eventuale sconfitta?”
Lui sollevò il mento con fare sprezzante, i lineamenti che non le concedevano di intravedere nulla: “Le conseguenze non si possono mai sapere” proclamò, con freddezza mortifera: “Ma ovviamente ve ne saranno”.
La ragazza rabbrividì. Soppesò le proprie possibilità per qualche silenzioso minuto, le mani che non smettevano di torcersi sul mantello e il capo girato di lato perché egli non potesse indovinare il suo sconforto, e si disse che se era stata capace di raggiungere la sua dimora, un’impresa reputata impossibile da molti, allora doveva pur avere i requisiti necessari a farcela anche stavolta. E poi, la sua ricompensa sarebbe stata veramente enorme, se l’avesse ottenuta. Dieci giorni a contatto con il Fantasma dell’Opera e con i suoi preziosi averi! Sicuramente avrebbe appreso una quantità di informazioni tale da permetterle quantomeno di offrire alla giustizia una buona pista da seguire. Sì, occorreva rischiare.
“Affronterò la prova” la sua voce, malgrado la determinazione con cui si era decisa, suonò tremante.
Erik nascose a fatica un’ondata di delusione. Aveva sperato vivamente di poter risolvere lì la questione, con un rifiuto da parte della fanciulla e una sua rapida uscita di scena, invece lei aveva dannatamente accettato (si poteva essere più stupidi?) ed era costretto a ritardare ulteriormente i suoi impegni e a dedicarle ulteriore attenzione. Quell’essere umano era veramente fastidioso e ostinato! Le offriva la libertà su un piatto d’argento, le faceva capire che le conseguenze di una sua sconfitta sarebbero state terribili, e che cosa faceva? Diceva di sì! Che cosa ci trovava di rassicurante in lui e nella sua dimora? Cosa la induceva a pensare che lì sarebbe stata al sicuro? Qualsiasi altra persona avrebbe preferito affidarsi ad un avanzo di galera piuttosto che a lui, il Fantasma dell’Opera! Senza dubbio, aveva a che fare con un soggetto assai singolare.
Che però lo stava tenendo lontano dai suoi progetti. Sarebbe stata una gioia assistere alla sua prevedibile disfatta, ai suoi tentativi disperati di venire a capo del guaio in cui si era cacciata con le sue stesse mani e all’attimo finale, in cui sarebbe stata punita per la sua presunzione. Perlomeno avrebbe ricavato qualcosa, da quell’inutile perdita di tempo.
“Bene” disse con un falso sorriso accondiscendente: “Non si dica mai che non sono un uomo di parola. Avete fatto la vostra scelta, e adesso ne affronterete il prezzo. Seguitemi”.
Senza darle il tempo di ribattere o di procedere al suo fianco come si conveniva, si voltò in direzione delle scure acque del lago e le fece un cenno brusco e superiore della mano guantata, come se stesse ordinando al suo lacché di andargli dietro ad una debita distanza, affinché la differenza fra di loro si vedesse in ogni momento. Vivian si indignò di un trattamento così scortese e insensibile, ma ingoiò la sua protesta e si costrinse a seguirlo, dicendosi che stava agendo per una giusta causa, e che se voleva conquistarsi la sua fiducia avrebbe fatto meglio a non contrariarlo per qualsiasi cosa.
Però, restava comunque il fatto che aveva a che fare con un soggetto rozzo, narcisista e totalmente privo di sensibilità umana, il quale, per giunta, si serviva di una maschera patetica per, lei supponeva, rendere ancora più inquietante e misteriosa la sua immagine.
Giunsero sulle rive dell’immenso lago che circondava il rifugio sotterraneo e lì egli si fermò, tanto improvvisamente che la ragazza rischiò di rovinargli addosso. Si arrestò in tempo, confusa, e gli rivolse un’occhiata interrogativa che lui parve non notare. Guardava dritto in direzione del lago, e seguendo la direzione dei suoi occhi, Vivian si trovò a contemplare l’elegante gondola in legno scuro che avrebbe dovuto ricondurla in superficie. Un tremendo sospetto si insinuò all’improvviso in lei: e se il fantasma la stava ingannando, e intendeva portarla fuori dai sotterranei senza una sua opposizione? Se tutta quella storia della prova non era altro che una beffa crudele?
Ma perché avrebbe dovuto esserlo, in fondo? L’uomo era perfettamente in grado di caricarsela sulle spalle e costringerla a seguirlo con la forza, e per fare ciò avrebbe impiegato assai meno tempo che proponendole quell’ambiguo compromesso. Sarebbe stato totalmente illogico dilungarsi così tanto per poi limitarsi a condurla a casa. No, sicuramente non era andata così.
“Salite” ordinò Erik seccamente, senza accennare la mossa di aiutarla.
Stavolta Vivian non riuscì a trattenersi, e si girò a guardarlo con un lampo d’ira negli occhi: “Non c’è alcun bisogno di rivolgersi a me con quel tono!”
Il volto di lui si adombrò pericolosamente: “Prego?”
“Non sono una vostra serva!” soggiunse la ragazza con fervore: “Mi avrete anche salvato la vita, ma questo non vi da alcun diritto di trattarmi in maniera così ignobile, tanto più che mi sto prestando a questo vostro giochetto…”
“…questo mio giochetto?!” le fece eco Erik, senza fiato per la definizione che era stata data al suo geniale escamotage. Lei continuò come se non avesse parlato: “E un per favore non ha mai fatto male a nessuno!”
Gli passò accanto a testa alta, lieta di essersi ribellata a quella palese ingiustizia, e si accomodò all’interno della gondola disponendo i lembi del mantello intorno a sé in modo che le coprissero le gambe raccolte. Erik restò ancora qualche secondo immobile sulla riva del lago, paralizzato da un’incandescente mescolarsi di rabbia e di stupore, e si trastullò per un folle attimo con l’idea di rinchiuderla nella più terribile delle sue invenzioni, la Camera dei Supplizi (che, a dir la verità, aveva evitato poiché riteneva che la ragazza ne fosse indegna), per farle vedere di cosa fossero capaci i suoi “giochetti”. La sola parola lo spingeva a contrarre la mascella. Ma tu guarda cosa era costretto ad udire…una ragazzina povera e ignorante, forte di una falsa supponenza, che liquidava le sue mirabili creazioni con quel termine infantile e diffamante…oh, ma se ne sarebbe pentita subito, e allora sì che avrebbe compreso il proprio errore!
Ricacciò nell’animo tutta la sua indignazione e si issò sulla gondola con volto nuovamente impassibile, impadronendosi del remo e sistemandosi a prua, nella posizione che più gli era congeniale per quell’attività. Prima di far ciò, aveva avuto l’accortezza di sciogliere la corda che assicurava l’imbarcazione alla riva, e si allontanarono dal salone principale della sua dimora oscillando leggeri sul pelo di quell’acqua nebbiosa e infernale, avvolti in una foschia sempre più densa e in un’oscurità che si rafforzava via via che le fiammelle delle candele venivano distanziate. Ben presto, a Vivian fu impossibile distinguere ogni cosa del paesaggio che aveva intorno, a parte la nebbia e il lugubre sciabordio dei flutti su cui la gondola scivolava incerta, e si avvolse più stretta nel mantello, come se quel semplice indumento avesse potuto difenderla dall’atmosfera isolata e inquietante in cui erano precipitati. La presenza di Erik ritto a prua nei suoi abiti scuri e con la sua mezza maschera bianca, silenzioso come una tomba e intento ad affondare il remo nell’acqua recalcitrante, non la rassicurava affatto, anzi, il suo animo era oppresso pari a quello di un dannato che viene traghettato nella “città dolente” (non a caso il lago aveva nome Averno), e la figura nera del suo accompagnatore ricordava in maniera inquietante quella del terribile nocchiero, Caron dimonio dagli occhi di brace.
“In quale abisso mi sono cacciata?” pensò con la rassegnazione quieta del condannato a morte: “Se avessi dato retta al buonsenso, adesso sarei già tornata da Madame Lefevre, al sicuro!”
Erik si era accorto fin dall’inizio, poiché nulla sfuggiva ai suoi occhi acuti, del repentino accrescimento delle paure che assalivano la mente provata della ragazza, e con sadico compiacimento l’aveva vista deporre tutta la sua aria di altezzosa sicurezza e rannicchiarsi sulla gondola come un gatto impaurito, le dita aggrappate spasmodicamente ai bordi in un patologico timore di cadere in acqua. Forse aveva compreso, finalmente l’entità del pericolo in cui si era cacciata, e stava iniziando a pentirsi d’averlo sfidato e disturbato! Non le chiese, tuttavia, se aveva cambiato idea e se desiderava essere ricondotta a casa. Una decisione, per lui, era unica e irrevocabile, e oramai era troppo tardi per tornare indietro e rimangiarsela. La risposta era stata “sì”. Quindi, la signorina avrebbe dovuto affrontare le conseguenze di quel “sì”.
Incapace di sopportare oltre quel silenzio tenebroso e soffocante, Vivian abbassò lo sguardo sulla panca sulla quale sedeva, e disse la prima cosa che le veniva in mente: “Non ho mai visto una barca come questa”.
L’uomo le rispose senza staccare lo sguardo da un percorso che solo lui poteva distinguere: “Si chiama gondola. Mi sono ispirato a queste imbarcazioni dopo averle vedute a Venezia, una città italiana che di certo conoscerete”.
“È…bella” sussurrò lei, non trovando nulla di meglio da dire.
A questo, il Fantasma dell’Opera scelse di non rispondere.
In lontananza, al di là della fitta cortina di nebbia, si incominciò a intravedere la luce rossastra di una torcia, un unico punto saldo in quel mondo di ombre e di nulla. Vivian si sentì vagamente rassicurata, poiché non amava affatto essere totalmente all’oscuro del luogo in cui si trovava, e notò con sollievo che il suo accompagnatore remava proprio in direzione di quella luce e che la loro inquietante traversata sembrava giungere a termine. Scivolò istintivamente accanto all’uomo, sulla prua della gondola, e si sporse con viva ansia in avanti, verso quella che, ora non aveva più dubbi, era proprio una torcia assicurata ad un muro di pietra da un gancio in metallo. Erano prossimi ad approdare su un molo sotterraneo di dimensioni assai scarse, che conduceva soltanto ad una piccola porta chiusa da un lucchetto.
Erik, ritrattosi leggermente per far spazio alla ragazza, piegò all’insù un angolo della bocca vedendola che si sporgeva così incautamente sul bordo della gondola. Confidava così tanto nella sacralità della sua parola? Se egli fosse stato un comune furfante, non avrebbe esitato un attimo a spingerla in acqua, e lei non avrebbe potuto fare nulla per impedirglielo. Sotto quel contegno sicuro e vissuto, mademoiselle Carré era ingenua proprio come tante altre fanciulle e questa sarebbe stata la sua rovina.
Non appena la barca giunse accanto al molo, il Fantasma dell’Opera saltò agilmente a riva e fece passare la fune che aveva precedentemente sciolto intorno ad un anello di ferro, in modo che la gondola restasse ferma dove l’aveva lasciata. A quel punto, con un gesto assai sprezzante, tese la mano guantata alla sua ospite, e non fu senza riluttanza che lei la accettò, raggiungendolo a fatica sul terreno solido. Si guardò intorno con nervosismo, consapevole che il suo senso di isolamento, in quella sezione dei sotterranei, si era decuplicato: “Dove siamo?”
“In una zona della mia dimora che visito assai di rado” rispose lui con l’aria del padrone di casa intento ad elogiare il mobilio del salone da pranzo: “Io la chiamo la Stanza della Sfinge”.
“La Stanza…della Sfinge?” ripeté lei stupidamente. Erik esibì una smorfia di superiore sarcasmo: “Sapete che cos’è una sfinge, mademoiselle?”
Vivian gli lanciò un’occhiataccia: “Non sono così ignorante, monsieur”.
“Perdonatemi” dal tono, non sembrava affatto rammaricato: “Il fatto è che se ne sente parlare assai di rado in Francia, e credevo che…”
“Credevate male” la ragazza distolse rabbiosamente il viso, facendo sì che i capelli lo nascondessero, umiliata di essere trattata con condiscendenza perfino da lui: “So leggere e scrivere fin da quando ero piccola, e m’è capitato di incontrare il termine varie volte. Se non ricordo male, ha a che fare con l’Egitto e le piramidi, e si riferisce ad un monumento che ha corpo leonino e testa di donna”.
“Molto brava” il commento dell’uomo fu alquanto acido, quasi fosse stato un professore che assiste alla prima interrogazione positiva della sua allieva peggiore: “Ma si racconta una leggenda circa questa figura mitica che vive da migliaia di anni. Secondo la tradizione egiziana e greca, la sfinge si metteva a difesa dell’ingresso di città, fortezze e regni e a chi desiderava passare proponeva un indovinello. Se la persona interrogata dava la risposta giusta, la sfinge la lasciava passare, ma in caso contrario la uccideva”.
A quest’ultima uscita, la ragazza si sentì la gola secca. Proprio come Erik aveva predetto, stava iniziando  pentirsi di aver accettato il suo gioco sadico ed era finalmente consapevole che per lei le conseguenze sarebbero state assai più drastiche di un’ammissione di sconfitta. Se non avesse portato a termine la prova, sarebbe morta. Il solo pensiero la fece vacillare.
“Vi sentite bene, mademoiselle?” il tono di Erik non era privo di una certa dose di sadismo. Vivian lo odiò con forza terribile, esattamente come l’aveva odiato quando le era scivolato alle spalle il giorno prima e l’aveva vincolata con il suo cappio, e dovette compiere un titanico sforzo di volontà per impedirsi di avventarsi su di lui con un urlo. Egli era dunque un vero mostro, e dei più crudeli! In fin dei conti, gli aveva chiesto soltanto ospitalità per qualche tempo…meritava di morire per questo?
Ingoiò tutta la sua disperazione e annuì seccamente: “Sto benissimo”.
“Meglio così, perché dovrete mostrare carattere nel corso della prova che vi attende” indicò la porta collocata innanzi a loro con un gesto vago. Vivian la fissò con timore muto: “Che cosa devo fare?”
“Oh, il vostro obiettivo è semplicissimo. Adesso voi entrerete in questa stanza e verrete educatamente chiusa dentro. Non avrete modo di utilizzare la stessa porta per uscirne, perché io la sbarrerò con una delle chiavi di cui dispongo. Tuttavia non disperate: dall’altra parte della camera c’è un altro ingresso, che vi condurrà direttamente al salone principale della Dimora sul Lago”.
Questa semplicistica spiegazione non aveva rassicurato affatto la ragazza, anzi, la sua inquietudine era addirittura cresciuta. Nel mezzo di quelle parole suadenti si nascondeva la trappola mortale, l’impedimento che non le avrebbe permesso di utilizzare l’ingresso secondario, e se quella camera era stata chiamata Stanza della Sfinge, un motivo doveva pur esserci!
“Non abbiate quell’espressione atterrita, mademoiselle Carré” il suo tremendo accompagnatore le portò dietro l’orecchio un ricciolo ribelle che le era caduto sulla fronte, provocandole un sussulto di sorpresa, e le fece un sorriso da lupo: “Non vi accadrà nulla di male, se saprete agire con saggezza e senso pratico”.
“Siete un bugiardo” bisbigliò, furiosa e sull’orlo delle lacrime, ritraendosi bruscamente dal suo tocco: “Mi avete portata qui sapendo dal principio che avrei perso”.
Gli occhi di lui brillarono: “Vi arrendete?”
“Niente affatto” fronteggiò la porta con i pugni stretti e le labbra distorte in una smorfia: “Non è nella mia natura, monsieur”.
 
La Stanza della Sfinge era di pianta quadrata ed aveva un soffitto molto alto e una pavimentazione accidentata, che costrinse Vivian a rimboccare l’orlo del mantello e a procedere a fatica. Tutto era in pietra nuda e disadorna, senza un solo drappo a coprire quelle pareti pregne di umidità e quel suolo pieno di sfaccettature, e i rumori, compresi i suoi passi, ne uscivano amplificati, echeggiando ovunque come ruggiti. Il tonfo della porta che veniva richiusa alle sue spalle, accompagnato subito dopo dallo scatto secco di una chiave che girava nella serratura, si ripercossero dolorosamente nel suo cuore e si fece avanti timorosa, cercando con frenesia di racimolare il suo sangue freddo.
Si trovava lì perché l’aveva scelto, non perché il Fantasma dell’Opera l’aveva costretta. E stava per affrontare una prova grazie alla quale si sarebbe conquistata un biglietto d’ingresso per la Dimora sul Lago, della durata di dieci giorni e compreso di una discreta possibilità di mettere nel sacco il suo avversario.
Ma se avesse fallito, se non fosse riuscita a portarla a termine, l’attendeva la morte. E non aveva alcun dubbio sul fatto che sarebbe stata lenta e dolorosa. Il suo ospite non era tipo da lasciare niente di intentato. Chiuse gli occhi, poiché le era quasi impossibile distinguere alcunché di quella stanza avvolta dalla più completa oscurità, e si appoggiò pesantemente al muro, posando la fronte sudata sulla pietra gelida e liscia e imponendosi dei profondi respiri. Forse era troppo, per lei. Forse si era sopravvalutata. In fondo, aveva subito un’aggressione appena qualche ora prima e non aveva chiesto di meglio che cacciarsi in un’altra situazione pericolosa. Cosa avrebbero pensato quelle poche persone che avevano a cuore la sua sorte, se non fosse più tornata? Madame Lefevre non si sarebbe addolorata troppo…non si era fatta il minimo problema a mostrarle quanto la considerasse strana e inopportuna. Ma Emma… la sua dolce, piccola Emma…la sua amica…come si sarebbe sentita?
“Dio, mi dispiace” sussurrò al nulla con voce rotta, nascondendosi il volto fra le mani: “Mi dispiace…devo farlo!”
“Ascolta attentamente, ragazza”.
La voce che risuonò con potenza inaudita nel profondo silenzio provocò alla poverina un autentico soprassalto di terrore, spingendola a saltare sul posto con un piccolo strillo e ad inciampare nell’orlo del mantello troppo lungo. Cadde sul didietro sul pavimento irregolare e le sue mani si abbatterono dolorosamente nel mezzo dei lastroni frastagliati, graffiandosi. Tuttavia non avvertì quasi il dolore della caduta, presa com’era da quel nuovo e terribile pericolo, e alzò immediatamente gli occhi sbarrati sul punto da cui era scaturita la voce tonante e gutturale. Si fece ancor più pallida di quanto già non fosse e la mano corse a coprire la bocca, in un moto di orrore e di meraviglia insieme.
Dinnanzi a lei, piazzata a difesa di una porticina del tutto uguale a quella che aveva appena oltrepassato, c’era l’impressionante riproduzione di una sfinge egiziana.
Il monumento, in pietra chiara e dell’altezza di circa dieci metri, occupava l’intera parete di fronte all’ingresso principale e la ostruiva con la sua mole, le possenti zampe leonine piantate con risolutezza ai lati dell’uscio che custodiva. Il corpo da leonessa, accovacciato in una posizione di languido riposo, sosteneva la grossa testa di una donna umana dalle labbra tese in un sorriso enigmatico e dai capelli raccolti sotto uno splendente copricapo. Due rubini erano stati incastonati laddove erano collocati i suoi occhi  e uno smeraldo di dimensioni più piccole le faceva da naso, facendo sì che il suo volto scintillasse vivacemente nell’oscurità. La bocca era spalancata, come se la creatura stesse per divorare qualcosa, e la voce ne era uscita amplificata e innaturale, ma riconoscibile perfino così deformata.
Il geniale e terribile Fantasma dell’Opera, attraverso un gioco di suoni che Vivian non riusciva a comprendere, prestava la propria mutevole voce all’enorme sfinge e tutta la stanza vibrava sotto la potenza di quelle tonanti parole, intensificandone la gravità.
Superato il primo istante di assoluto stupore, la ragazza s’accorse che a destra e a sinistra del monumento erano stati collocati due piccoli piedistalli sui quali erano poggiati dei morbidi cuscini di velluto rosso. Il particolare curioso, notò con spaventato interesse, era che sopra questi cuscini risaltavano due statuette in ebano veramente ben costruite, che ritraevano, con precisione inquietante, uno scorpione e una cavalletta. Le bestiole, tanto innocue all’apparenza, parevano ammiccarle con malignità dai loro piedistalli di marmo, e se non fossero state così vicine alla tremenda sfinge, probabilmente Vivian si sarebbe arrischiata a toccarle.
Sapeva d’avere davanti un semplice monumento, sapeva che era stato il suo ospite a parlare attraverso la sua bocca, ma la visione dell’enorme leonessa dalla testa umana l’aveva paralizzata completamente e la vedeva ormai come una vera figura mitica, al punto che non avrebbe osato accostarsi alla porta che custodiva, ovviamente sbarrata. Che però costituiva la sua unica via di uscita da quella stanza: se non avesse trovato il modo di aprirla, avrebbe perso la prova, e le conseguenze non avrebbero tardato troppo a verificarsi. Ma come…
“Ascolta attentamente” ripeté la voce tonante e amplificata che scaturiva dalla bocca spalancata della sfinge, tanto alta da portarla a turarsi le orecchie con le mani: “Hai già avuto modo di vedere che accanto a me sono state collocate due graziose statuette fabbricate in Giappone, due imitazioni che ai miei occhi corrispondono, lo scorpione ad un sì, la cavalletta ad un no”.
Non c’erano dubbi, a parlare era proprio il Fantasma dell’Opera. Doveva essersi recato in un punto segreto a lei ignoto e da lì, tramite un’apparecchiatura complessa, discorreva attraverso la bocca della sfinge. Quei toni possenti e innaturali dovevano esser stati progettati sia per terrorizzare la vittima che cadeva preda del Gioco della Sfinge, sia per conferire al monumento un’aura ulteriormente mitica, particolare, quello, che evidenziava ancora di più l’innata passione per la pompa del folle musicista. Vivian, atterrita dinnanzi al suo genio sorprendente e ineguagliabile, fissava la gargantuesca sfinge con gli occhi sbarrati nel viso livido e le mani convulsamente congiunte sul seno, come se si stesse appellando ad una divinità chiedendo salvezza, e gemeva ogni volta che quei potenti suoni emergevano dalle fauci spalancate. Solo adesso comprendeva davvero in che guaio si era cacciata, solo adesso si rendeva conto d’aver superato, definitivamente e senza possibilità di tornare indietro, il punto di non ritorno. E tutto per un puerile capriccio, per una maledetta ossessione!
Intanto la sfinge proseguiva: “La porta che custodisco è chiusa e invalicabile, ma se risponderai correttamente ad un semplice indovinello e girerai la statuetta che corrisponde alla soluzione giusta, il meccanismo cesserà di funzionare ed essa si aprirà per te”.
La poverina ansimò, indietreggiando lontano dal mastodonte per cercare rifugio dall’altra parte della spoglia stanza. La sua schiena scossa da tremiti incontrò la superficie solida della porticina da cui era entrata e la sua mano si avvolse istintivamente intorno alla maniglia, provando a girarla. Ma ovviamente non si aspettava davvero di poter uscire da quella trappola mortale in maniera tanto semplice, e infatti le rispose solo lo scatto sadico della serratura sbarrata. Gemette, ripiegandosi sotto il peso del più nero sconforto e chinando la testa in modo che i capelli le ricadessero sul viso come una cortina. In quella posizione di profonda prostrazione, con la schiena curva e il collo piegato in avanti, la si sarebbe potuta scambiare per la personificazione della Paura, atterrita dinnanzi a quella dell’Orrido.
I due scintillanti rubini che costituivano gli occhi della sfinge parevano studiarla con altezzosa superiorità, simili a quelli di una bestia immensa ed enorme che, accovacciata nella sua tana, s’accorgeva con placido fastidio dell’ingresso incauto di una pulce sciocca e cieca, e che consapevole delle proprie infinite risorse non si preoccupava di abbatterla subito con una zampata ma si dilettava a torturarla con false speranze di salvezza: “Tuttavia non devi sbagliare” continuò, roboante: “Perché se toccherai la statuetta sbagliata, saranno guai per te e per parecchi membri della razza umana”.
Quella postilla, più di tutte, fece sì che una scossa di sorpresa la portasse a riprendersi e si drizzò come un toro punto da un tafano, gli occhi castano scuri illuminati da un bagliore di orrore sconcertato e rabbioso: “Che cosa?!” la voce le uscì orribilmente deformata dalla suprema forma di terrore, gutturale quasi quanto quella della sfinge: “Non erano questi i patti! Avevate detto che ci avrei rimesso soltanto io, se avessi perso la prova! Non potete condannare degli innocenti accollandone a me la colpa!”
Nessuno le rispose, né il Fantasma dell’Opera che senz’altro assisteva ad ogni fase della sua impresa disperata e rischiosa, né il monumento che la sovrastava in tutta la sua mole. L’inganno, la presa in giro di cui era stata fatta oggetto era tanto ingiusto ed orrendo da lasciarla priva di fiato…egli aveva fatto in modo di mettere nelle sue mani la vita di altri esseri umani e di renderla colpevole di una loro eventuale morte, annunciandoglielo quando era troppo tardi per tornare indietro. Era sì pronta a mettere a repentaglio la propria vita nel tentativo di liberare Parigi dalla nefasta presenza di quell’essere, ma non quella di Emma, non quella di Meg e Madame Giry! Adesso che sapeva quanto gravi sarebbero state le conseguenze di una sua sconfitta, sarebbe stata capace di non muovere un muscolo e di rimanere lì per l’eternità, fino a divenire scheletro decomposto e verminoso. Sarebbe stato sempre migliore di provocare la distruzione delle persone che aveva conosciuto e stimato.
“Un’ultima cosa” era una fortuna che la “voce” della sfinge avesse toni tanto disumanizzati, almeno le era impossibile indovinare il divertimento sadico dell’uomo che parlava attraverso di lei: “Hai a disposizione un tempo limitato per dare la tua risposta”.
Un fascio di luce proveniente dal soffitto si accese all’improvviso, ferendole gli occhi abituati dall’oscurità come una lama e portandola a schermarseli con un braccio, e cadde su un tavolinetto celato in un angolo buio, rivelando una splendida clessidra di onice appoggiata sul piano di legno e percorsa da eleganti incisioni, la bolla di vetro superiore piena di una fine sabbia rossa bloccata da una patina impalpabile piazzata nel mezzo. Sarebbe stato un oggetto da ammirare con meraviglia e piacere, ma il cuore di Vivian, nel vederlo, cessò quasi di battere, intuendo il suo significato.
“Quando la sabbia sarà passata tutta nella bolla inferiore, si verificheranno le stesse conseguenze di una tua risposta errata” la informò la sfinge con tranquillità: “Perciò non perdere un solo minuto di tempo, e ascolta con attenzione il quesito che ti pongo”.
La ragazza scosse con violenza il capo, rifiutandosi di accettare le condizioni di quella prova mostruosa e avvampando dentro di una rabbia ustionante e terribile che, purtroppo, non poteva riversare sull’artefice di quel gioco sadico. Si volse verso la porta oltrepassata in precedenza e incominciò a picchiarci contro i pugni chiusi, gridando a squarciagola: “Ho cambiato idea, fatemi uscire di qui!! Non avevate il diritto di propormi una cosa del genere, maledetto assassino, ignobile individuo senz’anima, aprite questa dannata porta! So che siete lì, so che mi state ascoltando! Vi ucciderò! Giuro che vi ucciderò!”
Per quanto stesse mettendo il cuore e l’anima in quelle frasi concitate e in quei colpi che disperatamente abbatteva sull’uscio inamovibile, non convinse il suo aguzzino ad esaudire le sue suppliche minacciose e non ottenne di rinunciare alla prova, anzi, era sicura che lui, ovunque si trovasse, stesse gongolando di piacere nel vedere quanto adesso si pentiva di aver accettato il suo compromesso e che nulla di ciò che avrebbe potuto fare sarebbe stato in grado di muoverlo a compassione. Era ormai troppo lontano dall’umanità per comprendere l’orrore di ciò che le aveva proposto. Eppure era lui stesso un uomo, in fondo! Doveva pur esserci un barlume di ragione, una scintilla di pietà nel suo cuore indurito e insensibile!
“Vi prego, fatemi uscire!” lo sconforto e la disperazione della poverina erano giunti ad un livello tale che sembrò sgonfiarsi di tutto l’ardore e la rabbia e le percosse che vibrava al legno si ridussero a delle lievi carezze, mentre le lacrime prendevano a gonfiarsi nei suoi occhi e si lasciava scivolare a terra, sconfitta e arresa, disposta a tutto pur di non dover decidere della vita degli abitanti del teatro: “Farò tutto quello che volete…me ne andrò…partirò da Parigi…potrei…addirittura…” ebbe un’esitazione, sconvolta da ciò che le era balenato alla mente, ma il pensiero di Emma abbatté l’ultima barriera di resistenza: “…fare delle cose…per voi…concedervi…di toccarmi…”
Il suo volto si arroventò a fronte di quell’umiliazione terrificante, di quell’affronto alla sua dignità di donna, ma ancora il fantasma non si fece sentire, e questo silenzio da parte sua, addirittura dopo che gli aveva concesso una cosa del genere, le fece ancor più male della rivoltante prova che aveva architettato. Si era infangata per lui, e non l’avrebbe mai dimenticato.
Non aveva alternative. Doveva affrontare la prova.
Si alzò sulle gambe che quasi non la sorreggevano, un sapore di bile in bocca e negli occhi lo sguardo spento e rassegnato di chi ha perduto ogni speranza, del naufrago che affonda lentamente nel gelido oceano, e si disfece del mantello che il Fantasma dell’Opera le aveva prestato con disgusto, gettandolo sul pavimento e rimanendo con quei pochi brandelli di vestito che a malapena la coprivano. Le sembrò più dignitoso del continuare a tenere addosso un indumento che apparteneva a quel mostro. Annuì in direzione della sfinge, un impercettibile moto del capo, e si passò le mani tra i ricci come se desiderasse schiarirsi le idee, allontanandoli dal viso pallido.
Subito l’enorme fiera, con tono roco e cadenzato, a guisa di una bambina che recita una filastrocca, fece risuonare la stanza dell’indovinello scelto per lei:
 
La mia stagione preferita è senz’altro l’estate,
il mio cuore è di pietra ma non disperate,
se mi taglio piango lacrime rosse come il sangue
e alla lunga se non m’ami divengo esangue.
Dimmi, ragazza, dolce io sono?
Sì o no; se sbagli non perdono!

 
“Sì o no?” Vivian si ripeté nella mente quelle due parole con istupidita isteria, al punto che persero pian piano il loro significato e si limitarono a martellarle il cranio con la ferocia dei becchi dei corvi mangiatori di carogne. La sua mente sconvolta dallo choc le tramutò rispettivamente nello scorpione e nella cavalletta e le parve di averceli davanti in carne ed ossa, non sotto forma di statuette d’ebano, e che saltellassero malignamente intorno a lei canticchiando il primo la risposta corrispondente a sé medesimo, il secondo l’altra. Era troppo sconvolta, troppo consapevole delle conseguenze della sua scelta per ragionare come si deve, le veniva da ridere e da piangere e da rotolarsi sul pavimento e sul palato avvertiva il gusto salato delle lacrime. Allo stesso tempo, però, percepiva ogni accadimento all’intorno, e colse subito un lieve clac dalle parti della clessidra e la sabbia rossa che iniziava, granello per granello, a scivolare nel ripiano inferiore, scandendo il tempo che le era stato concesso.
I suoi occhi fecero la spola tra essa e le due riproduzioni appoggiate sui piedistalli varie volte, le pupille dilatate al punto che le iridi erano divenute invisibili e gli zigomi cosparsi di grosse gocce di sudore che le colavano con lentezza esasperante dalle tempie al mento, e poi dal mento ai seni semiscoperti. Il suo cuore batteva a tempo con la sabbia nella clessidra, pompandole sangue nelle orecchie con violenza forsennata, e il cervello le ronzava come un’ape, oscillando tra la follia e la disperazione. Aveva paura per se stessa, per Emma, per il modo in cui sarebbero tutti morti, a lei sconosciuto, ed era sicura che, se ciò si fosse verificato, avrebbe trovato aperte le porte dell’inferno. Un’assassina, seppure involontaria, non meritava di finire in paradiso.
“Calmati, calmati. Non è ancora detta l’ultima parola. L’indovinello deve portare ad una soluzione semplice, una sola parola, che poi ti condurrà a decidere se è dolce o meno. Sono tutti così. Devi solo concentrarti e vedrai che ci arrivi”.
“No, non ci arriverò. Il tempo è troppo poco. Non sono brava a risolvere gli indovinelli. Per le faccende pratiche sono portata, ma quando si tratta di impiegare il ragionamento intuitivo cado miseramente. Moriremo tutti”.
“No, invece! Non gli darai questa soddisfazione, non gli permetterai di farti questo! Ne va della tua dignità!”
“La mia dignità l’ho persa nel momento esatto in cui ho accettato di partecipare a questa follia”.
Il suo monologo interiore stava divenendo sempre più sconclusionato e privo di senso. La sabbia rossa, nel frattempo, proseguiva la sua discesa senza tener conto dell’angoscia che la divorava, e la bolla inferiore ne era piena ormai per metà. La sfinge taceva, le zampe ancorate accanto alla porta della sua salvezza, e le statuette parevano attendere lei, ammiccandole dai cuscini.
“Maledizione, devo pensare!” si afferrò la testa tra le mani, esercitando una pressione tale sulle tempie che il sangue prese a colarle sulle dita, e richiamò alla mente le parole dell’indovinello, astruse e malevole, che facevano il girotondo dentro di lei prendendola in giro.
“La sua stagione preferita è l’estate…ha il cuore di pietra…piange lacrime rosse come il sangue…se non lo ami diventa esangue…che cosa sei, piccolo bastardo?!”
“Io sono io”.
Niente, il suo sconvolgimento era troppo profondo.
“Ha il cuore…piange…una persona? La Madonna, forse?”
“Lei non ha il cuore di pietra”.
“Oh, sì…giusto”.
“E poi, il Fantasma dell’Opera non ti proporrebbe mai un indovinello che ha come soluzione qualcosa legato alla religione”.
“È vero…ma allora…la regina delle nevi? Nella favola che mi raccontava mio padre, aveva il cuore di ghiaccio ma poi, quando condannava a morte l’uomo di cui era innamorata, le usciva una lacrima che lo scioglieva…”
“Buona idea, ma non c’entra nulla con l’estate. Lei viveva in un regno in cui c’era un inverno perenne, non avrebbe mai potuto prediligere una stagione in netto contrasto con quella a cui era abituata”.
Ansimò come una bestia in trappola. Tutto intorno a lei era sospeso, in bilico su un filo di spago pronto a rompersi da un momento all’altro, e la sfinge, il Fantasma dell’Opera, le stesse statuette aspettavano pazientemente che si decidesse a fare la sua scelta, mentre la clessidra adempiva alacre al suo compito, rendendola frenetica e incauta. Lei, da parte sua, era in un bagno di sudore ed aveva raggiunto uno stadio in cui non si è più esseri umani, ma creature avide e bestiali pronte a qualsiasi cosa pur di sopravvivere.
“Non è una persona, sto seguendo la pista sbagliata! Se solo quella dannata clessidra andasse più piano! Mettiamo il caso che la risposta sia sì, che è dolce…cosa può essere dolce? Un bacio? Una carezza? Una morte gloriosa?”
“No, stupida. Un cibo”.
Negli occhi apatici della giovane si accese un vago barlume di speranza e le sue membra contratte parvero espandersi leggermente, trarre energia dal risultato del suo frenetico ragionamento. I granelli cadevano in uno stillicidio di secondi sadici nella bolla inferiore, ne rimanevano pochi, il tempo correva, non la aspettava…
“Il cuore di pietra…non è veramente ciò che sembra, ha senso figurato. È il nocciolo di un frutto. Un frutto dal succo rosso come il sangue…che, se non viene colto, avvizzisce e perde tutta la sua bellezza. Sì! Forse ci sono! Ma che frutto è? Ce ne sono così tanti di questo colore…una fragola? Una prugna? Però, aspetta…la sua stagione preferita è l’estate, quindi matura durante quel periodo”.
Il suo cervello girò intorno all’interrogativo per una manciata di secondi, lo analizzò, poi completò il puzzle in un ultimo sforzo.
“Una ciliegia! Una ciliegia è dolce!”
Si lanciò in avanti con l’impeto del naufrago che ha appena visto una corda lanciatagli da una nave e, mentre ciò che rimaneva della sabbia rossa passava da sopra in giù e si domandava febbrilmente se “ciliegia” fosse l’effettiva soluzione all’indovinello, e se avrebbe salvato se stessa e parecchi membri della razza umana, afferrò lo scorpione e lo girò sul suo asse con un colpo secco, pregando che la porta si aprisse, che avesse portato a termine la prova, che da ora in poi sarebbe venuto il suo turno di far soffrire il maledetto Fantasma dell’Opera…
Per un piccolissimo, interminabile istante, non successe nulla, e si udirono solamente i rumori lontani delle altre alee dei sotterranei e gli ansiti di Vivian. La sfinge la fissava con i suoi occhi scarlatti, immobile e maestosa, lasciandola in trepida attesa.
Poi, reagendo al meccanismo che, ruotando lo scorpione, aveva innescato, accadde ciò che doveva accadere.
 
Erik, nel salone principale della Dimora sul Lago, dal punto in cui era stato in grado di prestare la propria voce al monumento della sfinge, era totalmente sopraffatto dallo stupore e dallo sgomento, e le sue mani guantate, appoggiate sulle ginocchia immobili, erano strette in due pugni talmente violenti che le nocche avevano perduto tutto il sangue.
La ragazza…la ragazza era riuscita a…
Il rumore di una porta che si apriva lo indusse a girarsi con un sussulto quasi, sì, quasi di timore.
Lei entrò dall’ingresso che si era guadagnata con le sue sole forze e si fermò ad una certa distanza da lui. Non superava il metro e settanta ed era in condizioni pietose, tra l’abito ridotto a brandelli, i capelli aggrovigliati e il viso congestionato e lucido di sudore, tuttavia aveva un aspetto talmente imponente, talmente vittorioso che pareva altissima, gonfia del suo trionfo e della prova portata a termine, terribile con quegli scintillanti occhi scuri e quel sorriso feroce e rabbioso, simile a quello di una Valchiria o di una guerriera senza scrupoli. Il suo stato disordinato, in quel momento, non faceva altro che conferire ulteriore magnificenza alla sua figura, e per pochi secondi Erik la rispettò, la rispettò davvero, e non fu capace di articolare un suono.
Fu lei a parlare per prima, scandendo ogni parola con quella sua bocca rossa e feroce: “Ho vinto, monsieur Fantòme. Vi ho battuto. E adesso, se non vi dispiace, gradirei che procuraste immediatamente degli abiti decenti e un buon bagno caldo, se non è di troppo disturbo”.

 
  
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Film > The Phantom of the Opera / Vai alla pagina dell'autore: Sylphs