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Autore: My Pride    25/01/2012    4 recensioni
Ho veduto più di quanto io stesso abbia mai voluto vedere.
Desideri, sogni, promesse ed incubi: per quanto apparisse orribile, tutto ciò era meraviglioso.

Sorrise e si accucciò contro il bancone di legno del bar, apparendo ai miei occhi come un grosso felino compiaciuto. E quegli occhi che possedeva accentuarono quel paragone. «Piuttosto, ti piacerebbe riuscire a dar vita a ciò che immagini, scrittore?» mi domandò, lasciando cadere le formalità iniziali.
Non fu quello ad accigliarmi, bensì le sue parole. Sbattei dunque le palpebre, incredulo. «Ti sembra forse che io abbia scritto fesso in faccia, amico?»
[ Prima classificata al contest «Origami di carta» indetto da Fe85 ]
[ Vincitrice del Premio grammatica al contest «Voglie estive di gustose letture» indetto da aturiel ]
Genere: Drammatico, Sovrannaturale, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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ATTO II: ST. LOUIS › LUGLIO 2008
AVVENIMENTI IMPENSABILI E STRANE FANTASIE
 
    Il sole che batteva contro la finestra della camera da letto fu un vero e proprio pugno nello stomaco, il mattino dopo. La notte addietro avevo bevuto così tanto che a stento ricordavo chi ero, figurarsi quindi in che condizioni mi trovavo in quell’esatto momento.
    Girando la testa sul cuscino, mi accorsi che Butch non era lì con me, dunque le cose erano due: o era già andato a lavoro, oppure era in doccia a prepararsi. Non sentivo, però, lo scrosciare dell’acqua, allora fui propenso a prendere per valida la prima opzione. Con un po’ di fatica, mi drizzai a sedere e mi tenni il capo con entrambe le mani, mugolando a causa del rimbombare che sentivo nella mia testa. Mi sembrava di avere un’intera orchestra che si divertiva a suonare il mio cervello anziché gli strumenti, e non era una gran bella sensazione. Il lato positivo era che non mi veniva da vomitare. Un gran bel passo avanti, dovevo ammetterlo. Avevo però bisogno di un caffè forte, così mi alzai e mi diressi con cautela in cucina a piedi nudi, prendendomela comoda. In fondo non c’era fretta, no?
    Sbadigliai e mi sgranchii collo e spalle, sciogliendo i muscoli delle braccia. Avevo la schiena a pezzi e non riuscivo a capirne il motivo, a meno che Butch non mi avesse caricato sulle spalle a mo’ di sacco di patate per riportarmi a casa. Beh, conoscendolo, era più che probabile. Passando dinanzi al mobiletto, gettai un’occhiata alle medicine che avevo abbandonato su di esso qualche sera addietro. Per quanto Butch continuasse a ripetermi che dovevo pensare alla mia salute e prendere dunque quelle medicine, io non lo facevo quasi mai; sapevo bene anche da me che quegli antipiretici facevano parte della mia terapia contro la laringite da cui ero affetto da un po’ di tempo, però ero davvero troppo stanco per quella maledetta situazione.
    Allungai una mano per afferrare il flacone con un certo disappunto, portandomele dietro anche quando mi diressi in cucina; lì mi preparai alla svelta un caffè, consumandolo in fretta per andare a prepararmi. Non avevo intenzione di starmene con le mani in mano, bensì avrei fatto un salto in biblioteca per prendere in prestito qualche libro di psicologia e medicina forense che avrebbe potuto essermi utile per il mio libro. Odiavo scrivere senza sapere di cosa parlavo. E una quindicina di minuti dopo, in macchina nonostante il caldo asfissiante che aveva imperlato già la mia fronte, guidai ininterrottamente fino alla Rock Hill Public Library‎, la biblioteca in cui mi rifornivo abitualmente. Era un gran bell’edificio dall’architettura moderna, d’un bel colore azzurro che si riusciva a vedere anche al di là della strada. Non era esattamente grande, come biblioteca, però era sempre meglio che sfacchinare in auto per due ore per raggiungere l’altro lato della città. E poi, beh... finché trovavo ciò che mi occorreva, per me andava più che bene.
    Era stato proprio quello il luogo in cui avevo scoperto le mie prime letture. Da ragazzi, io e Butch ci eravamo trovati da quelle parti quasi per caso, sfuggendo all’occhio attento delle suore per poter godere di qualche attimo di libertà fuori dall’orfanotrofio. Sarebbe stato più giusto dire che alla fine ci eravamo persi e che avevamo trovato rifugio in quella biblioteca, giacché quel lontano giorno aveva cominciato a piovere a dirotto. Per passare il tempo, avevamo iniziato a vagare fra gli scaffali lì presenti, stupendoci della varietà di libri che quella piccola biblioteca possedeva; era stato proprio in quell’occasione che mi ero innamorato dei racconti di Hemingway, delle meravigliose atmosfere dei romanzi di Scott e delle trame spaventose che caratterizzavano i romanzi di King, abbeverandomi delle loro parole come un assetato in un'oasi nel deserto. Era stato anche grazie a quegli scrittori se avevo deciso di coltivare la mia passione. Non ero per niente al loro livello - anzi, probabilmente “Blood and Gunfire” non ci si avvicinava nemmeno, non peccavo di tale presunzione -, ma sapere che il mio nome fosse comunque conosciuto e che una buona fetta di persone mi riconoscesse, beh, era lo stesso una gran bella soddisfazione.
    Rincorrendo quei pensieri, nemmeno mi accorsi di essere arrivato nei pressi della biblioteca. Dal finestrino, gettai appena uno sguardo a quella costruzione, spegnendo il motore dopo aver accostato vicino al marciapiede; sfilate le chiavi dal quadro e chiusa l’auto una volta uscito, mi assicurai di aver parcheggiato bene prima di entrare nell’edificio. Giacché il più delle volte era Butch quello che guidava - anche perché, a dirla tutta, l’auto era sua e guai se avesse trovato qualche graffio sulla sua figliola -, io dovevo ancora prenderci la mano. Da quando avevo preso la patente, avevo guidato relativamente poco, e le volte si potevano letteralmente contare sulla punta delle dita. Mi stavo apprestando ad aprire la porta della biblioteca quando avvertii come la sgradevole sensazione di uno sguardo penetrante alla nuca, e volsi immediatamente gli occhi nella direzione in cui mi era sembrato di sentire quella bizzarra occhiata; non c’era però nessuno, lì fuori, e la sola cosa che vidi fu un’infinita distesa di asfalto e i bassi edifici che si innalzavano dall’altro lato della strada, intermezzati da file di alberi dalle foglie verdi.
    Scossi il capo, dando la colpa di tutto alla stanchezza e al caldo. Probabilmente era stata solo una mia impressione, tutto qui. Però un basso ringhio richiamò nuovamente la mia attenzione: a poca distanza da me, fermo esattamente accanto ad una vecchia berlina blu, vidi distintamente la figura di un grosso cane nero che sembrava fissarmi con aria famelica con i suoi occhi rossastri, effetto probabilmente dovuto dal riflesso del sole in essi. Deglutii e indietreggiai, ma lui non diede segno di volersi muovere; restò semplicemente seduto lì, con le enormi zampe scure unite fra loro, quasi mi stesse tenendo d’occhio. Non persi un solo minuto di tempo in più: mi affrettai ad entrare in biblioteca, chiudendomi quasi violentemente la porta di vetro alle spalle prima di gettare un’occhiata fuori; il cane sembrava ormai scomparso, e fu umettando le labbra che mi ritrovai a scuotere ancora una volta la testa, cercando di scacciare quelle sensazioni di terrore che stavo cominciando a provare. Era soltanto uno stupido cane, accidenti! Non potevo spaventarmi persino per un grosso cane nero, per quanto esso mi avesse orribilmente ricordato quello presente nel romanzo di Arthur Conan Doyle
 [1].
    Marge, la vecchia bibliotecaria che stanziava sempre nei pressi del bancone, si trovava stavolta seduta ad uno dei tavoli poco distanti con un libro fra le mani; sollevando un sopracciglio, mi lanciò un’occhiata severa attraverso gli spessi occhiali che indossava, portandosi un dito ossuto alle labbra per impormi silenzio. Mi scusai frettolosamente con lei con un cenno del capo, allontanandomi il più in fretta possibile dalla vetrata per addentrarmi fra gli scaffali; lanciai giusto uno sguardo a Marge solo per vederla sistemare qualche ciocca bianca nella crocchia ordinata in cui portava legati i capelli, e trassi poi un lungo sospiro per cercare di calmarmi il più possibile. Tutte quelle scenate per un cane... diamine, dovevo essere davvero stressato se anche una cosa così semplice mi faceva un effetto del genere.
    Avevo programmato di passare la maggior parte della giornata lì dentro, però fu quasi in fretta e furia che presi in prestito i libri che mi servivano e scappai via, fiondandomi in macchina come se avessi il Diavolo alle calcagna. Sia Marge sia alcuni clienti che conoscevo solo a vista mi avevano guardato storto - e non li avrei biasimati, visto il modo in cui ero fuggito -, però avevo davvero poco tempo per preoccuparmi di idiozie del genere. Mi era già bastata la strana sensazione che mi aveva provocato quel grosso sacco di pulci.
    Fortunatamente non me lo ritrovai in attesa che uscissi, e la cosa riuscì a rasserenarmi non poco. Ma potei dirmi realmente tranquillo solo quando, una volta parcheggiato nel vialetto, mi fiondai immediatamente dentro casa, chiudendo la porta con una doppia mandata. Okay, okay, paranoia inutile... ma non me ne importava un accidenti di niente. Però per calmarmi avevo bisogno di una doccia, dunque non persi ulteriormente tempo; quando entrai in camera arraffai tutto ciò che mi serviva e mi diressi in bagno, accostando soltanto la porta senza pensare a chiuderla. Tanto in casa c’ero soltanto io, e anche se fosse tornato Butch - cosa di cui dubitavo non poco, giacché il suo turno non si sarebbe concluso se non a serata inoltrata - non ci sarebbero stati problemi. Del mio corpo aveva visto praticamente tutto.
    Fu una vera e propria delizia starsene a mollo sotto il getto d’acqua fredda, qualche minuto dopo. Vi passai una buona mezz’ora senza che me ne rendessi conto, venendo richiamato solo da un rumore proveniente al di là della porta socchiusa. Accigliato, visto che in casa avrei dovuto essere solo, aprii piano un occhio e sbirciai attraverso la tenda dopo aver chiuso l’acqua, sbattendo le palpebre nel vedere che non c’era assolutamente niente. Uscii dalla doccia e mi coprii con l’accappatoio, per quanto fossi ancora all’erta. Con gli occhi fissi sulla soglia mi passai poi una mano fra i capelli bagnati, sospirando pesantemente. Ero un vero e proprio stupido. Dovevo piantarla con quella storia, dannazione.
    Non seppi esattamente quanto tempo me ne restai chiuso in bagno seduto sulla tazza del water, con un solo asciugamano a coprirmi in vita e con la consapevolezza di essere stato, tanto per cambiare, un vero e proprio idiota. Mi stavo facendo prendere dal nervosismo e la cosa non giovava né alla mia salute né tanto meno al mio lavoro, che stentava già di suo ad ingranare la marcia. Se poi contavamo anche la mia vita privata ormai praticamente nulla, beh... avevo decisamente fatto tombola, in quanto pessime esperienze. Una volta vestitomi, uscii dal bagno e feci per dirigermi in soggiorno quando il telefono squillò, facendomi accigliare e trasalire. Lo guardai per un lungo istante, quasi mi stessi rendendo conto solo in quel momento della sua esistenza, arraffando la cornetta solo all’ottavo squillo. «Pronto?» domandai, udendo di sottofondo solo un crepitio prima che qualcuno dall’altro capo del telefono espirasse rumorosamente.
    «
È giunta l’ora, scrittore», sussurrò subito dopo una voce. Era bassa e roca, piuttosto simile a quella di un sociopatico. E io ne avevo ascoltati tanti, mentre studiavo per il mio racconto. «È giunta l’ora».
    Sentii un brivido corrermi lungo la spina dorsale, e dovetti deglutire un paio di volte prima di riuscire a spiccicare qualche parola. «Pronto?» ripetei con una vaga nota isterica, lasciandomi sfuggire un altro colpo di tosse prima di continuare. «Chi è che parla?»
    In risposta, sentii unicamente lo scatto del ricevitore e poi il fastidioso suono del segnale perduto, e fu quindi con un po’ di paura che riagganciai come quel misterioso individuo, facendo qualche passo indietro. Mi umettavo le labbra in gesti nervosi mentre continuavo a guardare il telefono, senza riuscire a capire che cosa fosse successo con l’esattezza. Qualcuno aveva forse voluto farmi uno scherzo telefonico? Magari uno dei ragazzi? Dio, speravo vivamente che fosse così.
    Mi trascinai nel mio studio con un po’ di fatica, e solo dopo che furono passati ben altri cinque minuti. Quella telefonata mi aveva scosso profondamente, e avrei preferito che con me ci fosse Butch, in quel momento. Una volta chiusa la porta, cominciai a far vagare lo sguardo in giro, osservando i vari fogli appallottolati e i libri gettati a terra come se potessero fornirmi un punto d’appoggio in quel caos che era ormai diventata la mia vita. Peccato che non vedessi altro che un mucchio di cartastraccia. Mi sedetti alla scrivania e scansai penne e matite per tenerla sgombra, spostando anche il portatile sulla destra. Usare quello mi avrebbe facilitato il lavoro, certo, però ero della vecchia scuola e non ero neanche sicuro che sarei riuscito a scrivere davvero qualcosa dopo quella strana telefonata. Stavo diventando paranoico, maledizione. Guardai il foglio che Butch aveva poggiato su quelli bianchi con il naso arricciato, non avendo alcuna intenzione di riprendere da lì. Forse avrei fatto meglio a lasciar perdere e ad aspettare Butch, parlandogli magari della telefonata che avevo avuto e aspettandomi che dicesse che era stato uno dei nostri amici. Lì per lì mi sarei arrabbiato, però alla fine mi sarei fatto una gran bella risata e avrei archiviato il tutto per rimettermi tranquillamente a lavoro.
    Nemmeno mi resi conto di essermi incantato a fissare il foglio stropicciato per chissà quanto tempo, in seguito. Avevo poggiato i piedi sul bordo della sedia e mi ero portato le gambe al petto, il mento poggiato sulle ginocchia e gli occhi puntati sulla scrivania, come se in realtà non avessi visto niente fino a quel momento. Mi risvegliò solo un bussare leggero alla porta, e sbattendo le palpebre velocemente, quasi mi fossi appena destato da un sogno, mi voltai nella sua direzione, ritrovandomi ad osservare il viso ancora un po’ sporco di cenere di Butch. Se ne stava poggiato contro lo stipite della porta a braccia conserte, apparendo quasi bizzarro con quella sua tuta ignifuga nera e gialla che indossava ancora. Non ero abituato a vederlo così. «Ero sicuro di trovarti qui», asserì poi a mezza voce. «Potresti almeno andare a letto, quando ti stanchi».
    Prima ancora che il mio cervello potesse mandare qualunque segnale ai muscoli, mi ritrovai a scattare in piedi e a correre verso di lui, abbracciandolo stretto in vita senza proferir parola nonostante odorasse ancora del vago sentore della cenere. Sentii distintamente l’incertezza che si impadronì di tutto il suo corpo, certo, ma anziché allontanarsi o scansarmi da sé mi cinse a sua volta i fianchi con un braccio, passandomi una mano fra i capelli come se si stesse occupando di un bambino. «Ehi, Jake, che diamine hai? Mi sembri un moccioso che ha appena visto un mostro sotto al letto», ironizzò con un mezzo sorriso, e se si fosse trattato di un altro momento gli avrei di sicuro scoccato un’occhiataccia. Ma ero scosso, frustrato e anche un po’ impaurito - e forse stupidamente, c’era da aggiungere -, dunque per quella volta l’avrebbe scampata. Anche perché, beh, forse un fondo di verità c’era, nelle sue parole.
    Mi limitai semplicemente a sussurrare, «Razza di idiota», lasciandolo finalmente andare. Lui, dopo uno sbuffo vagamente divertito, mi diede una pacca su una spalla e mi fece cenno di seguirlo, diretto probabilmente in camera nostra. Prima di farlo aprii la bocca per raccontargli anche di quella strana telefonata che avevo ricevuto, ma decisi ben presto di lasciar perdere. Magari quello era stato davvero un semplice scherzo e, se ne avessi parlato, Butch si sarebbe preoccupato inutilmente e mi avrebbe detto per l’ennesima volta che era colpa del mio non prendere quelle benedette medicine. Come se potesse realmente centrare qualcosa, poi. Mentre uscivo nel corridoio, però, notai con la coda dell’occhio un’ombra fuori dalla finestra, o almeno mi sembrò che fosse così. Diedi la colpa alla stanchezza e alla strana sensazione che mi aveva trasmesso nel pomeriggio quella telefonata, e fu dunque scuotendo il capo che mi diressi a mia volta in camera, trovando Butch intento a spogliarsi per andare a farsi una doccia. Lo imitai ben presto, coricandomi prima di lui e augurandogli la buona notte una decina di minuti dopo non appena ritornò.
    Non ero sicuro che sarei riuscito a chiudere occhio, ma di una cosa ero certo: dormire avrebbe di sicuro portato ad una nottata popolata da incubi e deliri
.



   

[1] Riferimento al “Black Dog” presente nel romanzo “Il mastino dei Baskerville” citato dal protagonista tramite l’utilizzo del nome dell’autore.
Il Cane nero è una creatura notturna presente nel folklore della Gran Bretagna, e le storie relative a questi fantasmi mostruosi sono diffuse in tutto il territorio, dalla Scozia al Galles, dall’Inghilterra alle Isole.
I Cani Neri sono descritti come esseri soprannaturali dalla forma di grossi cani, con occhi fiammeggianti e pelo irsuto, dal colore nero o verde fosforescente. Sono fantasmi ritenuti messaggeri dell’oltretomba, quindi di cattivo augurio. Secondo le descrizioni, si muovono compiendo lunghi balzi sui sentieri di campagna, durante la notte. Gli occhi, che rosseggiano nel buio, indicano la ferocia della bestia. Chi incontra questa creatura anche solo di sfuggita, o sente l’odioso scalpiccio delle sue zampe, sa che la sua fine è vicina.
La scelta di tale animale sarà spiegata meglio nel corso della storia.


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