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Autore: BBambi    27/01/2012    7 recensioni
La neve si adagiava su di loro, sui loro abiti, sui loro capelli.
A separarli solo il braccio teso di lei.
Gli occhi dell’uno si riflettevano in quelli dell’altra, mentre infondo a quel braccio si trovava una pistola che tremava nella mano incerta della donna.
La vita dell’uno dipendeva da quella dell’altro e non era solo quell’arma a fare la differenza.
Lui afferrò la canna della colt e se l’appoggiò sul petto.
«Spara Lisbon!».
Genere: Dark, Introspettivo, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti | Coppie: Jane/Lisbon
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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28 Giorni. Dopo.
 



 

Si era risvegliato 48 ore dopo la scomparsa di Lisbon.
Mentre l’elettrocardiogramma perse un battito del suo povero cuore ormai sfilacciato, Rigsby estrasse una busta trasparente per gli indizi dalla tasca interna della sua giacca.
« Abbiamo trovato questo accanto al tuo corpo» mormorò l’agente, mentre il bisturi all’interno della plastica tintinnò sulla superficie del comodino accanto al letto.
Jane rimase in silenzio, riconoscendo l’utensile che aveva visto nel lavandino del seminterrato in casa di Turn.
Aveva una particolare scanalatura nel manico, come un difetto di fabbrica. La lama inoltre aveva una piccola sbeccatura nella parte inferiore che disegnava una minuscola v nella mezzaluna di metallo.
« Pensiamo che sia una firma…o un qualche messaggio...escludiamo che lo abbia lasciato distrattamente.»
Jane rabbrividì, sapeva cosa intendeva dire il collega.
Stava centellinando a piccole gocce l’amaro siero della verità, indizio per indizio, dato per dato, portando per mano la sua mente verso un’irreparabile realtà.
« Chiunque vi abbia aggredito»  riprese Rigsby « è stato furbo! Abbiamo trovato anche il cellulare di Lisbon…in una delle tue tasche!»
Il rapitore era davvero abile, pensò Jane.
Il chirurgo mutilava ogni sua vittima, senza lasciare tracce dietro di sé, nessun oggetto, nessun marchio, se non quella bizzarra geografia di fili da sutura sui corpi delle giovani donne che uccideva.
Se William Turn era davvero il chirurgo, o lo avevano preso di sorpresa o aveva iniziato ad agire secondo un nuovo schema teatrale.
Alla luce dei fatti, sembrava più probabile la seconda opzione.
La cosa davvero preoccupante era che Lisbon mancava già da 48 ore. Non era normale.
Sapeva benissimo cosa significava.
Patrick rammentò con un sussulto un dettaglio essenziale, ma esitò qualche istante.
Il serial killer aggrediva le vittime perlopiù nelle proprie abitazioni, lasciandole in bizzarre pose, adagiate su qualche elemento d’arredo della casa.
Deglutì.
« Avete perlustrato la casa di Lisbon? »
Rigsby si toccò la base della nuca.
Jane si sollevò dai cuscini che accoglievano il suo dorso teso e si posizionò dritto nel letto, con le dita ferocemente strette sui lembi del lenzuolo.
Non riuscì a decifrare l’espressione di Rigsby.
O forse semplicemente non desiderò farlo per paura di scoprire cosa aveva da dirgli.
« E’ il primo posto dove l’abbiamo cercata» confessò l’uomo dinanzi a lui, straziato da una visibile angoscia « Ma la casa era vuota, perfettamente in ordine, nessun segno di scasso.»
Jane tornò ad adagiarsi contro i guanciali soffici, senza rilassarsi.
Doveva mantenere calma e lucidità se voleva trovare l’aggressore.
Il fatto che fossero passate 48 ore senza notizie di Lisbon  non era comunque un buon segno.


Quando aprì gli occhi un’intensa luce artificiale colpì le sue retine più sensibili del solito.
Sbatté ripetutamente le palpebre per proteggere i suoi occhi doloranti.
Si chiese da quanto tempo avesse perso i sensi e non seppe darsi una risposta.
La vista era alterata dal riflettore circolare appeso proprio sopra la sua testa e puntato dritto sulla sua faccia.
Si sentiva stordita, probabilmente le era stato somministrato qualche sedativo.
Riusciva solo a vedere il lenzuolo bianco adagiato sopra di lei nel cono di luce artificiale.
Fuori dalla campana luminosa era tutto buio e silenzioso.
Tentò di sollevarsi, facendo leva sui gomiti, ma si trovò a rimbalzare sulla superficie metallica sulla quale era adagiata.
I  polsi erano costretti da resistente fibbie di cuoio e così anche le caviglie.
Il suo respiro divenne ansante, aprì la bocca per prendere più aria, avidamente.
Il suo petto si alzava e abbassava a ritmo frenetico.
Mentre cercava di ritrovare la calma, un rumore alle sue spalle la fece trasalire.
Una mano pallida si posò sulla sua bocca, mentre la faccia mefistofelica di William Turn compariva come una maschera galleggiante nella luce abbacinante.
Era ancora più pallido sotto quel faretto.
I suoi occhi erano cerchiati di rosso, risaltando l’azzurro spento di quelle iridi folli.
« Shhh» le intimò posandosi l’indice sulle labbra « Se non griderai potrò evitare di tapparti la bocca con nastro adesivo!».
Un nuovo rumore mise in allarme Lisbon, un ritmico ticchettio di passi si avvicinava al suo letto di acciaio.
Turn le levò la mano dalla bocca e con le braccia mollemente abbandonate lungo i fianchi assunse un’espressione servile « Ecco, le ho portato la donna che voleva signore» disse rivolto ad un ombra fuori dalla loro gabbia di luce alabastrina.
L’uomo avanzò nel cono luminoso e Lisbon lo vide, il camice bianco, la mascherina chirurgica indossata grazie agli elastici auricolari, la montatura scura degli occhiali che rimpiccioliva quegli occhi dal colore indefinibile.
Non poteva vedergli le labbra, ma era certa che sotto quel ritaglio di stoffa bianca c’era un sorriso compiaciuto e folle.
« Ottimo lavoro Greg» la voce dell’uomo col camice arrivò ovattata da dietro la protezione.
Lisbon lo guardò atterrita e non ebbe il tempo di realizzare quello che stava per consumarsi in quel tugurio sotterraneo.
Le ultime cose che percepì, prima di perdere i sensi, furono il bisturi che si conficcava in mezzo al suo petto e il suo stesso grido disumano.


Erano passate 4 settimane.
28 giorni.
672 ore.
40320 minuti.
2419200 secondi.
E di lei nessuna traccia.
Era tornato alla proprietà di Santa Barbara, perlustrandola da cima a fondo, forzando personalmente col piede di porco le persiane inchiodate e inondando di luce il salone centrale.
La polvere ricopriva tutto e si faceva silenziosa testimone dei loro movimenti.
Accanto ad un comodino rovesciato a terra, una lunga scia senza polvere nel pavimento disegnava il profilo di un corpo.
Ecco che voleva dire "ho sbattuto", pensò Jane sentendo una forte stretta all’altezza del petto.
Il pavimento era una mappa dei loro spostamenti, con le orme impresse come stampi sulla neve in quel tappeto di corpuscoli grigiastri.
Oltrepassò la sagoma del proprio corpo sul parquet impolverato e si introdusse nella stanza che lui stesso aveva aperto tre giorni prima.
Scese con la scientifica e col resto della squadra nel laboratorio sotterraneo.
Dei  guanti nessuna traccia, erano stati rimossi dal lavandino, mentre il bisturi, abbandonato nel corridoio e accuratamente ripulito dall’assassino, era già stato archiviato come prova.
Nessuna impronta digitale, solo un paio di orme in più rispetto a quelle sue e di Lisbon, calpestate dagli uomini del coroner.
Un uomo della scientifica le stava misurando e fotografando, nella speranza che potessero giovare alle indagini.
Non riusciva a capire, non riusciva a ragionare, la sua mente era chiusa in un barattolo e non poteva sentirne i pensieri con quel dolore  che lo faceva tremare fisicamente.
Era tutto così dannatamente perfetto, tutto così dannatamente ben escogitato che non era riuscito a trovare neanche uno straccio di indizio che lo avvicinasse alla collega e al suo rapitore.
In ufficio lavoravano giorno e notte, senza sosta, valutando tutte le possibili piste, ma William Turn si era dematerializzato dalla realtà.
Non esisteva.
Il decimo giorno la polizia di Santa Barbara rivenne un cadavere nel bacino di Laguna Bianca, proprio sulla sponda che lambiva i campi da golf del La Cumbre Country Club, a pochi chilometri da Hidden Valley.
Una coppia di giocatori aveva avvistato il corpo che galleggiava nei pressi dell’argine erboso e aveva subito allertato le forze dell’ordine.
Nel momento in cui la donna, tumefatta e irriconoscibile a causa della prolungata permanenza in acqua, si presentò di carnagione bianca e con lunghi capelli corvini il CBI venne subito coinvolto.
Il coroner richiese due membri della squadra per il riconoscimento,  prima di effettuare l’autopsia.
Non solo i colleghi, ma anche Wainwrigh cercò di dissuaderlo.
« Jane, non penso sia una buona idea, possiamo mandare qualcun altro!» gli aveva semplicemente detto e lui non si era di certo fatto intimidire dalla postura autoritaria del suo superiore.
Venne designato Cho  per accompagnarlo e ne Van Pelt, ne Rigsby obbiettarono.

Kimball fu irremovibile sulla questione dei trasporti, muoversi con la Citroën DS color carta da zucchero era fuori discussione.
La berlina dell’asiatico si arrestò nei parcheggi antistanti il complesso.
Fuori dall’obitorio c’era un gran via vai di uomini con la divisa da paramedici.
Mentre attraversavano  il cortile che conduceva all’ingresso, un’ambulanza tagliò loro la strada, andandosi a fermare davanti all’entrata dell’edificio.
Due giovani con una tuta ermetica uscirono dal retro del veicolo, trasportavano faticosamente una barella sulla quale era adagiato un lungo sacco nero.
Jane e Cho li seguirono silenziosamente negli asettici corridoi del fabbricato, fino a che non raggiunsero la porta con l’insegna rossa.
La situazione era ai limiti dell’assurdo, erano abituati a vedere cadaveri ogni giorno, ma lì, in quella sala d’attesa dell’obitorio, la tensione si tagliava col coltello.
Dopo una breve attesa, il dottor Fansworth accolse Jane e Cho nella stanza completamente dipinta di bianco.
La parete posta frontalmente all’ingresso era una lamiera metallica costellata di celle mortuarie.
« Siete pronti?».
Annuirono senza lasciar trapelare alcuna emozione.
Il medico legale si avvicinò a quello che sembrava un immenso schedario, contenete corpi esanimi, anziché documenti amministrativi.
La cella che aprì si trovava sul lato destro della parete, si sentì uno schiocco metallico quando il lettino di lamina lucida uscì dal loculo
Il corpo, ancora tumido, era livido e la pelle sembrava quasi trasparente.
Il viso era distorto dal gonfiore, mentre i capelli sudici erano stati ordinatamente raccolti a lato della testa.
Un panno bianco copriva le intimità della donna, le cui braccia lattee si allungavano elegantemente accanto ai fianchi stretti.
Alcun tatuaggio o cicatrice marchiava quella pelle diafana dilata.
Nessuno parlò.
Il corpo era irriconoscibile.
Cho scosse debolmente la testa.
« Non è lei?» domandò incerto Fansworth.
« Allo stato attuale» rispose l’uomo dai tratti asiatici « è addirittura difficile dire che si tratti di una donna».
Il dottore sospirò « Allora non resta che eseguire l’autopsia per esserne certi» fece una breve pausa, facendo loro cenno di seguirlo verso la porta « Prego, potete accomodarvi fuori, vi comunicherò….».
Proprio sulla soglia, Jane eluse l’imponente figura del medico legale, lo superò e si appressò alla barella metallica.
Fansworth allungò le braccia verso di lui come a dissuaderlo, agitando le mani guantate di lattice bianco « Signor Jane non la tocchi…»
« Jane…» sospirò Cho.
Ma il mentalista era già sopra quel viso, congelato dalla morte in un espressione neutra.
Le posò l’indice sulla palpebra destra e lentamente alzò il molle lembo di carne, scoprendo il bulbo oculare.
Gli bastò un secondo.
Lasciò andare la pelle e si voltò verso Fansworth e Cho, ormai immobili e rassegnati alle sue spalle.
« Non è lei, le iridi sono marroni» sentenziò con voce piatta.
Uscì dalla camera mortuaria, nessuno lo seguì.
Il bagno era vuoto quando vi entrò, si chiuse alle spalle la porta della toilette prima di inginocchiarsi davanti alla tavoletta smaltata del cesso in preda ai conati.
I succhi gastrici risalivano il suo esofago incendiandogli la gola.
Era davvero troppo da sopportare.
Si rialzò in piedi e andò a sciacquarsi il viso nell’antibagno.
Lo specchio rimandava l’immagine di un uomo pallido, i capelli d’oro spento, gli occhi svuotati di ogni qualsivoglia colore.
Affondò la mano nella tasca della giacca e le sue dita incontrarono immediatamente la plastica liscia del piccolo contenitore.
Lo estrasse e lo agitò facendo ticchettare le capsule bicolori al suo interno.
Aprì l’astuccio e lasciò cadere tre pillole sul palmo della mano.
Le buttò giù senz’acqua.
Era davvero troppo da sopportare.

Cho e Risgby lo riaccompagnarono al CBI, barcollante.
Forse aveva esagerato con quelle pilloline.
Probabilmente per farsi una bella dormita ne sarebbe bastata una.
« Jane, sei sicuro di voler restare qui? Ho un divano a casa mia…» propose timidamente il collega più alto.
« Rigsby» Jane- un sorriso ebbro appeso nel centro della faccia, aperto come una ferita sanguinante - lo prese per il bavero della giacca  e gli sussurrò allegramente all’orecchio  « Devo aspettare Lisbon!».
I due agenti si scambiarono uno sguardo rassegnato.
Lo lasciarono solo, all’ultimo piano della centrale, nella sua stanza improvvisata con un cuscino e un materasso.
Sprofondò in un sonno artificiale, senza sogni, senza pensieri.
Quando Si risvegliò stava ancora peggio.
Sentiva che la sua testa stava per esplodere.
La luce bianca filtrava dalla finestra sulla parete dinanzi a lui, disteso supino sul pavimento.
Portò una mano davanti agli occhi per proteggersi da quel bagliore soffuso e si alzò faticosamente dalla superficie di cemento freddo.
Massaggiandosi le tempie si accostò alla finestra e guardò fuori.
Juanita  stava arrivando, il cielo era bianco, una lastra marmorea senza confini, coperchio di madreperla compatto.
La neve sarebbe arrivata, per quanto assurdo potesse sembrare.
Avrebbe voluto che quel gelo gli entrasse dentro ibernando tutte quelle sensazioni, tutte quelle scomode verità a cui aveva tante volte voltato le spalle.
Nel cortile gli agenti brulicavano come insetti ammantati di soprabiti neri e calzati di scarpe lucide.
Si sentiva immobile in quel mondo in movimento.
Non sapeva veramente più che fare.
Si guardò: gli abiti stropicciati, la camicia che spuntava scompostamente dai pantaloni, la sensazione da dopo sbornia.
Nonostante le innegabili apparenze non riusciva ancora ad ammettere a se stesso il perché.
Era davvero un omuncolo  patetico.

Il ventottesimo giorno non era ancora riuscito a trovare alcun indizio che li conducesse a Turn e l’inchiesta stava lentamente passando in secondo piano.
Santa Barbara li aveva ormai abbandonati per dedicarsi al caso di una sedicenne scomparsa e lo stesso CBI, benché non avesse ancora ritirato alcuna risorsa dall’indagine, doveva fare i conti con una lunga lista di omicidi.
La squadra più brillante del distretto non risolveva casi da almeno ventotto giorni, erano tutti completamente assorbiti dalla ricerca del capo Lisbon.
Gli accertamenti sugli atti di proprietà dell’abitazione di Palomino Road non stavano portando da nessuna parte.
L’ex proprietario, un pensionato di settant’anni di nome Calton Fox, aveva descritto il signor Turn come un uomo maturo, sulla quarantina probabilmente, capelli neri ravviati ordinatamente e occhi scuri.
Dall’identikit fornito dal signor Fox, William Turn poteva essere un californiano qualunque, ma non era di certo l’uomo della foto segnaletica che avevano ricevuto.
L’anziano aggiunse che non avevano mai comunicato telefonicamente - ci aveva pensato un’agenzia immobiliare a stabilire i rapporti tra le parti - e che si erano incontrati un'unica volta, il giorno in cui avvennero il pagamento – rigorosamente in contanti - e la firma del contratto.
Era sempre meno chiaro chi si celasse dietro Mr. Turn, due persone o un abile trasformista?
Van Pelt si dedicò alla ricerca della Rich&Sons Agency, ma scoprì avvilita che il numero era stato disattivato mesi prima e che non risultava alcuna agenzia immobiliare registrata a quel nome.
Il chirurgo, intanto, sembrava aver interrotto la scia sanguinaria che si lasciava alle spalle, azzerando il conto delle proprie vittime.
Gennaio era quasi terminato.
Juanita era arrivata sul cuore pulsante della California, il suo entroterra, lasciando che un'impetuosa bufera di neve seppellisse le case di lusso sotto la coltre candida.
Era già buio.
« Jane» Grace gli toccò la spalla e lui sussultò, colto alla sprovvista come ormai gli capitava da tempo « C’è una bufera in corso, non puoi restare qui…accetta l’invito di Rigsby per favore».
In realtà l’invito erano gli inviti, dal momento che Wayne continuava a pregare Jane di lasciare quel dannato ufficio adibito a stanza nell’ala abbandonata del CBI.
« Almeno per stanotte» lo esortò la giovane.
Nessuno di loro lo aveva mai visto in quelle condizioni.
I capelli arruffati, una spruzzata di barba bionda sul mento sempre liscio e gli occhi profondamente esausti.
Il consulente si arrovellava giorno e notte il cervello, alla ricerca di un dettaglio, di un minuscolo elemento che lo portasse al colpevole.
Quello con cui non aveva fatto i conti era la sua incapacità di estraniarsi dalla vicenda, come faceva sempre.
Non riusciva ad ammettere a se stesso di esserci dentro fino al collo e di avere la mente offuscata dalle emozioni.
No, non lui.
Lui aveva ormai lasciato dietro di sé quelle sensazioni, si era ripromesso che avrebbe vissuto la sua vita distaccato dai legami, per  dedicarla solo alla sua vendetta.
Ma ormai neanche i sonniferi lo aiutavano più, lei si introduceva nei suoi sonni artefatti dai medicinali, morta, bianca e insanguinata, gli occhi aperti che lo inchiodavano, come una pistola alla tempia.
« Va bene» cedette e raccolse la giacca adagiata sul bracciolo del suo amato divano.
Scesero nel cortile, ormai tutte le vetture erano state rimosse, solo qualche dipendente si trovava ancora nell’edificio.
« Aspettami qui!» disse Rigsby correndo verso la propria vettura.
Jane rimase fuori dall’ingresso del CBI, Il vento sferzava sul suo viso, i fitti fiocchi ghiacciati sembravano graffiare la sua pelle.
Lasciò vagare gli occhi nell’oscurità e nel turbinio di bianchi cristalli la vide, una piccola ombra scura.
Fece un passo in avanti e il miraggio sparì nella nevicata, mentre i fari dell’auto di Wayne lo illuminarono improvvisamente.
Si passò una mano sul volto sciupato e salì in auto, silenziosamente.

Quando la vettura fu fuori dal cancello, la donna uscì dal suo nascondiglio nell’ombra.
Estrasse il cellulare dalla tasca e premette il tasto di chiamata rapida.
Dopo alcuni squilli il suo interlocutore rispose.
« L’ho trovato».




Più procedo nella mia idea...più si sta presentando l'impossibilità di racchiuderla in soli due capitoli :S opssssss......

Un grazie per aver letto la mia storia e aver speso un pò del vostro tempo.
Con la speranza di mantenere vivo il vostro interesse
un saluto

BB

  
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