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Autore: shotmedown    27/01/2012    2 recensioni
No, lei non ci credeva più. Inutile negarlo, c'era qualcosa che non andava nella sua vita, e non poteva far altro che crogiolarsi nella sua ignoranza; un giorno, forse, qualcuno le avrebbe fatto capire quanto contasse, e le avrebbe donato un mondo fatto di sicurezza e passione, ma per ora, si limitava a partire, ad andare lontano. Boston le stava stretta, Montréal era la libertà.
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Cinque amici e un paio di chitarre.'
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~Perché aspettiamo per qualsiasi cosa? Perché non afferriamo immediatamente il piacere?
Quante volte la felicità viene distrutta dalla preparazione, stupida preparazione.

 

Jane Austen 











Chiamai Ben per farmi dire il nome dell’albergo, dove avrei potuto liberamente parlare con lui e chiarire ogni cosa. Sempre che qualcosa fosse rimasto. Quando raggiunsi la sua camera, lo trovai in accappatoio, alle quattro del pomeriggio. Non per infangare la sua reputazione o cose simili, ma non era mai stato quello che si soleva definire “un gran lavoratore”. Viveva di rendite da parte dei ricchi genitori; era viziato, e davvero non sapevo come avessi potuto innamorarmi di lui in quel modo. Non si trattava di inesperienza, o cose simili: era riuscito a comprare mia madre e vedendola così felice non avevo potuto pensare altro che un uomo così non potesse che far bene sia a me che ai miei cari. E man mano avevo costretto il mio cuore a battere di più in sua presenza, fino a prenderci l’abitudine.
“Hai deciso?” Si mise a sedere sul letto, aspettando che dessi una risposta.
“Da circa tre anni, Ben. Puoi tornartene a Boston.”
“E’ per quel tizio, vero? Un cantante da strapazzo che crede di potersi prendere la mia donna!”
“Io non sono mai stata tua! Neanche se fossimo stati sposati lo sarei stata. E poi Pierre non c’entra niente.” Mi fissò torvo, continuando a inspirare ed espirare per poter mantenere la calma. “Stammi lontano, Ben. Addio.” Feci per andar via, quando si alzò per bloccare la porta. Nei suoi occhi c’era rabbia e rancore; non pentimento. Mi sentii debole fino al momento in cui non posò le sue labbra sulle mie, con una forza che mi costrinse a voltarmi di lato per riprendere fiato. Lo allontanai e passai una mano sulla bocca per pulirla: non avrebbe dovuto farlo, ma essendo effettivamente l’ultimo, mi limitai a disprezzarlo in silenzio. Uscii di tutta fretta dalla porta, lasciandolo seduto lì, con i pugni chiusi. Ora ero ufficialmente libera: tutti i lati oscuri erano stati illuminati. Solo una cosa non comprendevo: il perché avesse definito Pierre un cantante da strapazzo. Lo aveva soltanto visto una volta, e non poteva sapere che cantasse bene. Sarei potuta tornare dentro a chiederglielo, ma non volevo riaprire alcun argomento. Chi se ne importava di quello che diceva? Era solo un bastardo a cui non dare ascolto. Guidai fino a casa, dove ad aspettarmi c’erano Leah e Jack, con la nostra vicina di casa, Daria. Bevevano del caffé, chiacchierando del più e del meno. Vedendomi arrivare, Leah si alzò e mi venne incontro per chiedermi come fosse andata. Un semplice “bene” avrebbe chiuso la questione. Tornai in cucina con lei, salutando la giovane ragazza che sedeva a capotavola. Quando mi accorsi che i suoi discorsi, o meglio, i suoi pettegolezzi sui nostri condomini mi annoiavano e infastidivano allo stesso tempo, mi alzai e mi chiusi in camera mia a leggere. Qualche poesia non avrebbe potuto che rendere migliore quella giornata. Dopo quindici componimenti, decisi di chiudere: troppo amore in poche pagine. Inoltre, avevo la nausea; ogni poesia mi ricordava Pierre, e tutto ciò per colpa di Leah. Lei e le sue stupide supposizioni sulla vita sentimentale altrui. Gettai il libro sul letto e iniziai ad osservare il soffitto. Si, forse il ragazzo era diventato indispensabile per me, ma tutto ciò per il semplice fatto che passavamo il cinquanta per cento della settimana insieme, e lui faceva ormai parte di quasi tutte le mie azioni. Mi sentivo bene con lui, ma ciò non implicava il fatto che ne fossi innamorata. Eppure...Oh, no. Basta, non pensarci. Su, su... Iniziai a provare una strana sensazione. Devo distrarmi. Okay, ehm...Dovrei ridipingere la mia stanza. Tutto inutile. Leah me l’avrebbe pagata stavolta.
“Leah!” La mia amica si precipitò da me, allarmata.
“Che c’è? Aspetta, chiamo i pompieri!” La bloccai per un polso e la trascinai in camera mia, costringendola a sedersi sul letto. Iniziai a girare avanti e indietro per la stanza.
“Ieri sera...quando io e Pierre abbiamo risolto il problema del “tu-sai-cosa”, abbiamo parlato...”
“Lo so. Me lo hai già detto.”
“Ci siamo abbracciati e gli ho detto di volergli bene.”
“E fin qui tutto okay. Quindi?” sembrava impaziente di sapere a cosa stessi cercando di tendere.
“Io...non lo so...Ho provato una strana sensazione. Mi dava la nausea. Ma certo!” Sobbalzò a causa del mio improvviso grido.
“Hai scoperto di che si trattava?”
“Avevo bevuto. Ecco perché.” Scoppiò in una fragorosa risata.
“Ma se non ci credi neanche tu! Basta, Sam. Io resto del parere che tu ti sia innamorata. Punto.” Sentimmo il campanello suonare, e subito il mio cuore partì a mille. Calmati!, gli ordinai. All’entrata, Pierre teneva tra le mani un pacchetto. Lo osservai da più punti, ma non riuscii a capire o a immaginare ciò che conteneva. Leah e Jack finsero di non mostrare interesse e uscirono, chiudendosi lentamente la porta alle spalle. Pierre, invece, mi fissa-va. Quando si accorse che lo avevo notato, distolse lo sguardo e mi porse il pacchetto. Era pesantoccio.
“ Cos’è?” Chiesi, iniziando ad aprirlo. Quando sollevai il coperchio della scatola, mi resi conto che si trattava di qualcosa da mangiare. “Una torta!”
“E’ stata la donna della pasticceria a impacchettarla, in realtà. Io l’avevo solo ordinata per mangiarla durante il film.”
“ Hai rovinato un bel momento, sai?” Dissi, torva.
“Spiacente.” Posai il dolce sul tavolino dinanzi al televisore e cercai il DVD de “Il corvo”. Jack doveva averlo messo lì, da qualche parte. Al solito, Pierre si dedicò alla preparazione della nostra postazione da film, e nell’esatto istante in cui parve volermi chiedere qualcosa, il film saltò fuori. Lo inserii nel lettore e mi misi a sedere accanto a lui; mi sentivo un’ipocrita. Se fino a qualche minuto prima avevo ordinato al mio cuore di smetterla di scalpitare, ora stare accanto a lui mi faceva sentire peggio. Era inutile dare la colpa a Leah, era solo una sorta di alibi che mi ero creata per non accettare il fatto che forse Pierre stava diventando troppo. Troppo importante. Sollevai lo sguardo e lo guardai di sottecchi; i suoi occhi riflettevano le luci dello schermo. Pensai al fatto che non conoscevo molto della sua vita privata. Ma se avesse avuto qualcosa di interessante da raccontarmi lo avrebbe fatto, o non sarei mai potuta essere la sua migliore amica. A quel pensiero, risi. Era un concetto così infantile, così adolescenziale, proprio come lui. Alle volte, mi dava l’impressione di essere un ragazzino di quindici anni, alle prese con le prime esperienze, sebbene avesse passato i trenta. Quando si accorse che lo stavo osservando, mi sorrise, e si alzò, mettendo il film in pausa. Sparì qualche istante e quando tornò teneva tra le mani la torta che lui stesso aveva portato; mi porse una forchetta e mi concesse il primo assaggio.
“Tutto okay con Ben?” Domandò, fissando lo schermo del televisore.
“Adesso sì.” Sapevo non avrebbe avuto il coraggio di chiedermi cosa fosse realmente successo in quella camera, ma qualcosa mi spinse a raccontargli la verità: infondo, eravamo amici. “Ho chiuso. E credo che anche per lui sia così. Quel bacio, infondo, ha sancito la fine.”
“Bacio?” Non mi piacque affatto il tono con cui pronunciò quella domanda. Sembrava deluso e amareggiato, sebbene io sapessi che si trattava solo di una mia impressione.
“Ci...” Ripensai all’accaduto e riformulai la risposta. “Mi ha baciata.” Perché mi sentivo come se mi fossi appena tolta un peso dallo stomaco?
“Capisco.” Si impossessò del telecomando e riavviò il film, continuando a mangiare il dolce come se nulla fosse accaduto. Per tutto il tempo, regnò una tensione tale da farmi venire i brividi ad ogni suo contatto.
Quando andò via non era lo stesso; il suo saluto fu un semplice e alquanto banale “ciao”, seguito da passi pesanti volti all’uscita.
 
Pierre p.o.v
Avrei voluto sferrare un pugno in faccia a quel tipo. Sapevo, sapevo benissimo che la cosa non era partita da lei, e il pensarla indifesa di fronte ad un energumeno come quello mi faceva solo venire voglia di spezzare in due qualcosa. Controllai il cellulare, e notai un sms di Seb; un’uscita era ciò che ci voleva. Passai a prendere Lachelle e mi diressi in centro, dove ad aspettarci c’erano i ragazzi. Parcheggiai l’auto e presi per mano la ragazza bionda che da un po’ di tempo a quella parte diceva di sentirsi trascurata: non potevo darle torto.
“Finalmente!” Esclamò Jeff. “Che hai? Ti è morto il gatto?”
“Io ho un cane, e quello che in realtà sembra essere appena tornato da un funerale sei tu. Cos’è, avevano finito i capi colorati?” Domandai, ironico, notando il suo abbigliamento.
“Esatto! Ma è anche vero che il nero fa figo.”
“Ragazzi, attenti a Jeff. Potrebbe portarci via le donne.” Intervenne David. Entrammo nel locale che Sebastien aveva scelto, nel quale si stava tenendo uno degli eventi mondani organizzati dalle band emergenti della città. Ordinai da bere e lasciai che Lachelle si divertisse.
“Tra cinque giorni suoneremo al porto, non vedo l’ora!” Chuck era sempre il più eccitato quando si trattava di concerti. Alle volte mi veniva da pensare che se la band non fosse esistita, Chuck non sarebbe esistito. “Pierre, non bere troppo che domani ci serve la tua voce.”
“Quanto sei noioso, Comeau.” Bevvi un sorso di birra e guardai la mia fidanzata dimenarsi sulla pista da ballo. Forse avrei dovuto pensare al matrimonio, una buona volta, al luogo, a tutto quello su cui si rifletteva prima di compiere il grande passo. Ma mai prima di allora ero stato così confuso e disorientato; non capivo perché mi sentissi così quando ero solo. Ma chi volevo prendere in giro? Lo sentivo, sentivo di stare già tradendo Lachelle. La proposta di trasferirci per un po’ era ancora valida, sebbene non ne fossi più così convinto come quando l’avevo formulata. Avevo considerato che il pensiero di quella fuga fosse nato solo ed esclusivamente dalla rabbia, dalla necessità di stare lontano dall’unica persona che in quel momento mi stava facendo uscire di senno; ma una forza maggiore mi spingeva a starle accanto, anche a costo di rinnegare me stesso e i miei ideali.
“Ora sono serio. Si può sapere che hai?” Sobbalzai, udendo la voce di David, un flebile sussurro, anche con quel frastuono. Scossi il capo, sorridendo, ma proprio a lui non potevo mentire. Non ci riuscivo, era più forte di me.
“Dave, ho bisogno di cantare.”       
  
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