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Autore: Mocaccino_    28/01/2012    1 recensioni
Io faccio l’attore, ma nella vita non so fingere, fingere che tutto vada bene, che le decisioni degli altri non mi facciano male, che io non la ami. Un mese e una settimana da quella stupida telefonata che mi costrinse a fingere con l’unica persona con la quale non avrei voluto farlo.
Genere: Generale, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Kristen Stewart, Robert Pattinson
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Fortunatamente per i miei nervi la risposta non si fece attendere e fu migliore del previsto.
Due colpi secchi rianimarono la porta che a lungo avevo fissato.
Girai la maniglia e accolsi tra le mie braccia una Kristen con il viso intriso di lacrime.
Alzò per una frazione di secondo il volto, fissò i miei occhi e poi mi scansò. Avrei voluto asciugare quelle lacrime, stringerla così tanto da scaldarle il cuore con il fuoco della mia passione per lei, ma era semplicemente sfuggita alla mia presa per dirigersi verso la finestra.
Adesso era lì, aggrappata con le mani al davanzale interno e guardava attraverso il vetro a testa bassa, quasi cercando di seppellirsi tra i suoi capelli. Perché sua madre non riusciva ad avvedersi di quanta sofferenza stava arrecando anche a lei, quella dolce ed indifesa ragazza che adesso cercava di celarmi il suo pianto?
Non avevo paura di soffrire a causa sua, ci ero già passato e pur di averla nella mia vita non mi sarei lamentato, quel che mi infastidiva era che dovessimo affliggerci entrambi per causa di Jules.
Avevo timore di avvicinarmi ed infastidirla, al contempo non dovevo lasciarla crogiolarsi nelle sue stesse lacrime, quindi in silenzio coprì con i mie passi lo spazio che ci separava e mi bloccai alle sue spalle. Rimasi lì in piedi senza intimarle fretta, sicuramente si era accorta della mia presenza, ma l’avrei lasciata libera di scegliere il momento giusto per guardarmi e parlarmi, per ora io ero lì.
Il tempo scorreva, Kristen continuava a fissare il vetro della finestra della mia camera mentre io osservavo lei e nessuno sembrava voler modificare quell’equilibrio; avevamo trascorso quasi un’ora in quel modo, ad un certo punto non lo sopportai più. Se si era precipitata da me una ragione doveva esserci e non poteva ignorarmi. Decisi di parlare per primo.
«Parlami» quasi la implorai sfiorandole una spalla e sperando che si girasse in modo da incontrare i miei occhi.
La mia preghiera fu esaudita in parte: si mise di fronte a me, ma non accennò parola. Era il momento del mio monologo. Peccato che con le parole non ci sapessi fare, ecco perché durante le interviste sparavo perlopiù cretinate.
«Non … non dobbiamo prenderla così, questa situazione non è tanto tragica come potrebbe apparire. Certo, adesso è come se ti fosse piombato improvvisamente il sole addosso, senza preannuncio, senza possibilità di spostarti e sfuggire all’impatto. Credimi Kristen, ce la fai a credermi e basta almeno per stasera? Domani mattina aprirai gli occhi e realizzerai che non c’è nessun macigno su di te o perlomeno che sei in grado di spostarlo e rivedere la luce»
«Fottiti. Tu, questo tuo essere sempre così tranquillo e disinvolto e mia madre. Con la poesia non risolvi niente Robert. Niente»
Sbraitò e corse via dalla stanza.
Tranquillo e disinvolto? Era lei quella a non sapere un bel niente di me. E pensare che credevo fosse l’unica in grado di leggermi l’anima, ero quasi certo di non poterle mentire. Io non stavo facendo il poeta e se era quel che lei riteneva perlomeno stavo facendo uno sforzo per lei. Solo ed esclusivamente per lei. Era così da quel fottuto provino. Ormai tutto quello che facevo, dicevo, decidevo lo facevo, dicevo, decidevo per lei.
Se non lo aveva inteso oggi forse non lo aveva inteso neanche prima. Ma infondo perché mi importava tanto che lo capisse? Facevo i salti mortali per lei non perché se ne avvedesse e mi consegnasse un premio, bensì perché l’amavo e quindi che se ne fosse accorta o meno non avrebbe dovuto avere alcuna importanza. O forse no?
Mi domandai se forse non avesse percepito quanto vero fosse il mio amore: io non stavo giocando, fosse dipeso da me l’avrei sposata già da tempo. Mi parve strano che forse non avevo mai fatto abbastanza perché se ne avvedesse. Io ero sicuro di amarla come si ama una sola volta nella vita, lei era quel vero amore che per quanto si dica ti piomba nel cuore esclusivamente una volta, forse ne ero fin troppo sicuro da non vedere altro che il mio amore per lei e non accorgermi dei suoi dubbi.
Stavamo insieme da circa un anno, durante il quale avevo visto il nostro rapporto come un qualcosa di consolidato e impeccabile, avevo dato quasi per scontato che prima o poi avremmo costruito insieme una famiglia, perché spesso avvertivo che ci amavamo come due cinquantenni. Nella vita è sbagliato dare per scontato qualsiasi cosa. La vita è imprevedibile, non concede sconti e il destino lo plasmiamo noi, che di immutabile e perfetto abbiamo solo … solo … niente, nemmeno l’amore.
Da due fottutissimi anni la mia esistenza ruotava attorno a lei. Non eravamo mica la luna e la terra, non ero mica un licantropo con l’imprinting. E poi che ci avevo ricavato? L’essere mandato a quel paese con l’accusa di essere troppo ‘sereno’ di fronte a questa situazione. Io che temevo di perderla da un mese, ma che nonostante tutto avevo taciuto per evitare che soffrisse, che incolpasse di tutto sua madre.
E se le avessi sbattuto io la porta in faccia anziché tormentarmi pur di consolarla?
Fanculo. Avevo perso del tempo e continuavo a perderlo.
La amavo, questo non poteva mutare per una stupida porta sbattutami in faccia urlando, però non ero più sicuro che lei mi amasse nello stesso modo. Cuore e cervello avevano organizzato un’incontro di pugilato, i cui colpi ero io a riceverli, inerme, distratto, incapace di pararli. Mancava poco al KO, se avessi continuato a torturarmi, a pensare a tutti i problemi che si erano accumulati, di lì a poco ne sarei rimasto schiacciato.
Avrei voluto chiamare Tom e andare un po’ in giro con lui, magari in qualche pub dove avrei atterrito i miei pensieri con l’alcool, ero consapevole che questa non era una soluzione, ma ero altrettanto stanco di trovare soluzioni. Io, però, ero a Los Angeles e Tom era a Londra. Non gli avrei telefonato, noi due non eravamo delle ragazzine e io non avevo affatto bisogno di raccontargli tutti i miei problemi, solo di uscire un po’.
Mi sarei messo a cantare a squarciagola pur di evitare di sentire i miei pensieri, tuttavia non era una buona idea, considerato che ero in una camera d’albergo. L’essere lì mi frustrava più di qualsiasi altra cosa, perché se ci ero finito era per stringere tra le braccia la mia Kristen, eppure ora ero lì da sola a fissare quelle pareti che non mi appartenevano, così come non mi apparteneva Los Angeles, dove non avevo niente se non lei.
Quando ero triste, depresso o incazzato col mondo usavo suonare la mia chitarra: la consideravo quasi la mia fidanzata - certo non mi avrebbe mai potuto sbattere la porta in faccia – , quindi provai a cercare consolazione nelle sue corde anche in quella situazione. Aprii la custodia, la presi, la poggiai sulle mie gambe e mi posizionai come dovuto, ma quella volta anziché pizzicare le corde per produrre dei suoni familiari che mi avrebbero tranquillizzato, avrei desiderato spezzarle, nello stesso modo in cui si stava spezzando il mio cuore. Mi costrinsi a lasciar perdere la chitarra e mi risolvetti ad uscire: essere solo tra la gente sarebbe stato meglio che essere solo in quella odiosa stanza.
Feci tutto molto in fretta in modo da riflettere il meno possibile, poi varcai la soglia dell’hotel e nello stesso istante in cui mi ricordai che con me avevo portato Dean – che ora forse dormiva ignaro di tutto nella sua stanza – fui investito dai quei maledetti flash.
Merda. I paparazzi. Me ne ero completamente dimenticato. Ovviamente quegli avvoltoi avevano subito scoperto il luogo in cui mi trovavo e prontamente si erano appostati lì, come se fossero in guerra, per assalirmi appena fossi uscito. Chissà da quanto se ne stavano qua fuori, se fossero stati qui fin da quando Kristen era andata via l’indomani sarebbe esploso lo scoop della conferma della nostra relazione. Sorrisi tra me rendendomi conto della comicità della situazione: noi forse ci saremmo lasciati e per gli altri sarebbe arrivata la prova del nostro rapporto.
Fingere un sorriso era tutto ciò che sarebbe convenuto fare, invece non fui capace di modificare per la felicità del resto del mondo la smorfia che avevo sul viso. A quel mondo non dovevo niente d’altra parte e colto dal rancore e dall’esasperazione strinsi la mano destra in un pugno mentre alzai la sinistra e mostrai il medio. Recitare era il mio lavoro ed era un impiego come quello di un dottore, di un contadino, di un avvocato o di un operaio. In quale dizionario alla voce “attore” corrispondeva la definizione “persona a cui non è permesso avere una vita privata, né essere se stessa, triste e arrabbiata, tenuta ad accettare con un sorriso di essere perseguitato peggio di un criminale latitante”?
Quella sera non avrei accettato niente che non avessi deciso io e quel che avevo deciso era che volevo camminare, da persona normale qual’ero. “Che mi seguissero”, mi dissi.
Non conoscevo Los Angeles molto bene, perciò in quella città non avevo un pub in particolare dove rifugiarmi come facevo a Londra, inoltre lì l’atmosfera dei pub era diversa, quindi entrai nel primo che vidi.
L’esercito di paparazzi non si era ancora totalmente dileguato, ero consapevole che alcuni di loro sarebbero entrati senza scrupoli nel bar con me, infatti arrivato al bancone, domandai se ci fosse un posto appartato in cui mi sarei potuto accomodare. La ragazza mi squadrò da testa a piedi basita, poi realizzò chi fossi e per poco non dovetti raccogliere la sua bava con un bicchiere: il fascino di Edward Cullen le mandava ancora tutte in visibilio; come fosse possibile che non si rendessero conto di avere davanti Robert e non il vampiro perfetto non mi era ancora chiaro. Fortunatamente mi scortò fino al mio tavolo senza scenate, bensì cercando di contenersi ed ignorarmi. Ordinai una birra grande, una Heinken, che subito mi fu consegnata ed inizia a sorseggiarla.
Ero seduto ad un tavolo posizionato nell'angolo sinistro della saletta del pub, non era propriamente una stanza privata, ma era quanto di più isolato disponessero. Il locale era affollato, le voci e le risate sguainate si sovrapponevano le une alle altre, la musica era martellante, non il genere che a me piaceva ascoltare e la luce da cui tutto era illuminato mi stordiva. Niente a che vedere con i pub della mia Londra: luci soffuse, che erano carezze per gli occhi, musica rilassante, spesso qualche cantautore che si esibiva con la sua chitarra e cullava le chiacchiere della gente.
Questo più che un pub appariva una discoteca, nonostante tutto me ne restavo lì seduto a consumare una birra dopo l’altra. Erano trascorsi soli tre quarti d’ora e ne avevo già terminate sei, ma non ne avevo abbastanza.
Mi alzai dal mio posto per recarmi al bancone e chiederne un’altra, però fui travolto dalla folla che si muoveva nello spazio striminzito cercando di ballare e improvvisamente mi ritrovai a farlo anche io. Mi agitavo a tempo di quella terribile musica o molto probabilmente a casaccio, dato che non ero mai stato in grado di ballare. Le ragazze iniziarono ad avvicinarsi, desiderose di ballare con me. Ridevo come un cretino, ma assieme ad ogni ballo perdevo un pezzo del mio cuore. Per qualche istante soffrivo, poi l’alcool prendeva il sopravvento e di razionalità non ne restava neanche un briciolo.
I paparazzi facevano parte di quella folla e di questo ne ero al corrente quando afferrai i fianchi di quella ragazza e la avvicinai a me per racchiudere le sue labbra tra le mie. Clic. Non era il suono dello macchinetta fotografica ma dei due cuori che quello scatto avevano frammentato.

Le mie labbra erano sfuggite a quelle della sconosciuta nell’esatto istante in cui le avevano incontrate, erano scappate per mettersi alla ricerca di quel sapore che agognavano e che lì non avevano trovato ed io stesso mi ero precipitato fuori dal luogo che aveva provocato il KO di cuore e cervello.
Uscì in strada e grazie al cielo non c’era nessun paparazzo, avevo il respiro affannato e desideravo sferrare pugni contro qualunque cosa, ma principalmente contro me stesso.
Vidi la ragazza che avevo quasi baciato accostarsi alla porta fuori dalla quale mi trovavo e un secondo dopo allontanarsi da lì nello stesso modo, forse aveva notato l’espressione dipinta sul mio volto.
Mi sedetti sul marciapiede, poggia la testa tra le ginocchia e strinsi i pungi, sbattendoli sull’asfalto. Volevo piangere e urlare.
Tra poco quelle foto sarebbero comparse su una miriade di siti internet ed il giorno dopo sui giornali, Kristen le avrebbe inevitabilmente viste ed anche Jules. Avevo complicato una situazione già di per sé complicata, tuttavia quel che più mi affliggeva e mi squarciava il petto era l’aver dubitato dell’amore di Kristen per me e soprattutto della sua importanza nella mia vita. Lei avrebbe potuto sbattermi diecimila porte in faccia, ma io l’avrei amata sempre allo stesso modo e non avrei considerato niente che la riguardasse una perdita di tempo, mai più mi sarei lasciato in balia della rabbia come in queste ore, mai più avrei dovuto pensare cose che adesso mi sembravano addirittura inconcepibili.
Io la amavo e avevo bisogno di vederla. Un bisogno pungente.
Le foto erano diventato il mio ultimo problema, quel che contava adesso era capire dove fosse.
Non avevo il permesso di andare a casa sua e d’altra parte non conoscevo nemmeno l’esito dell’ultima conversazione che aveva avuto con sua madre, quindi non sapevo se lei fosse lì o se fosse furibonda anche nei confronti della sua famiglia.
Quando mi avvidi di non sapere dove sarebbe potuta essere fui soggiogato dal panico. E se non fosse tornata a casa sua dopo essere scappata da me? Aveva diciannove anni ed era una ragazza, per di più era Kristen Stewart e non le era assolutamente concesso di andarsene in giro per Los Angeles a quell’ora tutta sola. Riuscii quasi a sorridere accorgendomi che era la stessa cosa che avevo deciso di fare io, ma tornai serio e ansioso quando mi ricordai che me lo sarei aspettato anche da lei.
Mi sollevai dal ciglio ghiacciato della strada e optai per una telefonata.
Quattro squilli vuoti e nessuna risposta.
Provai ancora ed ottenni lo stesso risultato.
Ritentai per altre dieci volte e poi quasi risvegliandomi da uno stato di coma mi ricordai di come mi aveva mandato a quel paese e che fosse comprensibile che non mi rispondesse.
Testardamente continuai lo stesso a chiamare quel fottutissimo numero.
La diciassettesima chiamata si interruppe prima del quarto squillo: era stata rifiutata.


Non uccidetemi per quello che succede in questo capitolo
(:
  
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