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Autore: Shu    09/09/2006    16 recensioni
E dietro i mille riflessi di cui tirava i fili, c’era il suo vero io.
C’era Kira.
E c’era un frammento di Kira in ognuno di quei differenti riflessi.
Per questo…
Avrebbe vinto lui.
Yagami Raito, ventitrè anni.

Attenzione: ambientata intorno al vol.11, quindi SPOILER! almeno dal vol.7.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Light/Raito
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Nello specchio, si annodava la cravatta.

Ne aveva scelta una di una seta blu scuro, morbida sotto le dita, che si illuminava in elegante contrasto con la camicia bianca, anonima, e il completo grigio perla che metteva spesso. Un buon compromesso. Non troppo ricercato, perché non sembrasse che si preoccupava più del dovuto di quel che aveva addosso quando erano in un momento così intricato del caso di Kira, ma con quel tocco in più che lo rendeva… lui.

Lui.

Yagami Raito, ventitrè anni.

Fece scorrere il nodo, passò un dito nel colletto. Alzò lo sguardo a controllare l’effetto, e improvvisamente i suoi occhi furono catturati da altri occhi, i suoi stessi riflessi nello specchio. Lasciò scivolare uno sguardo di distratta soddisfazione sul taglio obliquo e fine delle palpebre, le ciocche sulla fronte, la muscolatura appena intuibile sotto la camicia, sull’immagine della sua bellezza che contemplava se stessa nello specchio. Fu solo questione di un attimo, non avrebbe dedicato di più al suo aspetto. Sapeva perfettamente di essere attraente, e probabilmente, sì, doveva essere grato di aver ricevuto in dono, oltre ad una mente ben al di sopra della media, un fisico assolutamente adeguato. Ma la cosa finiva lì. La sua bellezza era solo uno strumento in più, e solo in funzione di questo se ne curava, come un assassino deve tenere sempre pulita e perfettamente oliata l’arma dei suoi delitti.

Sollevò una mano per ravviarsi i capelli, e senza nessun motivo particolare la sua mente fu attraversata da un ricordo. Lo stesso suo gesto, riflesso in uno specchio… e dietro le sue spalle, quella figura un po’ storta e dall’aria stralunata che lo osservava, con l’immancabile dito in bocca…

L.

Doveva trattarsi di quel periodo in cui il detective aveva voluto tenersi ammanettato con lui ventiquattr’ore su ventiquattro, per controllarlo. Che idiozia… A pensarci adesso, il ricordo appariva sfocato, poco chiaro, ma non tanto per la lontananza nel tempo. Era come fosse una memoria appartenente ad un’altra persona.

E in un certo senso, era così.

Quel Raito dai ricordi parziali, senza consapevolezza, senza il potere di Kira, non poteva dirsi lui.

Yagami Raito non esisteva senza il Death Note.

Gli pareva ancora di poter vedere, in quello specchio, gli occhi assurdamente spalancati di Ryuuzaki, le spalle cascanti, la sua solita maglietta bianca.

"Raito-kun… sei ancora lì a pettinarti?"

“Ogni tanto dovresti provarci anche tu, sai, Ryuuzaki?”

Non riusciva a richiamare alla mente il sorriso che doveva aver rivolto al detective, ma ricordava bene la faccia imbambolata dell’altro, la mano che saliva tra i capelli già scompigliati all’inverosimile.

“Tu dici?...”

Quell’espressione… ancora dietro le sue spalle, nel suo specchio…

Ma no. Il riflesso mostrava soltanto, nell’angolo, il suo letto disfatto, e tra le lenzuola, distesa bocconi, la figura di Misa, il biondo dei capelli sparso sul cuscino.

Aveva fatto piano apposta mentre si vestiva per non svegliarla, per potersene andare di là a lavorare in pace, senza spiegazioni da dare e smancerie per il buongiorno da ricevere.

Si voltò a guardarla; sì, dormiva ancora. Tra i capelli tinti si scorgeva lo scintillio di qualcuno dei suoi orecchini stravaganti, e aveva ancora addosso la sottoveste di pizzo nero che non si era curato di toglierle quando la sera prima aveva fatto l’amore con lei.

Matsuda-san e probabilmente anche gli altri suoi uomini avrebbero fatto carte false per vedere Misa così, il visetto da angelo addormentato, le gambe lasciate scoperte dalla sottoveste cortissima, così carina, così provocante…

Così inutile.

Sì, era carina, non c’era niente da obiettare. E poi? E poi… non c’era niente.

Pensò per un attimo a Takada-san. Anche lei… quanti giornali pubblicavano le sue foto tutti i giorni, quanti settimanali scandalistici osannavano la sua bellezza, quante lettere di fans riceveva? Pensò al pomeriggio di ieri, quando era dovuto stare con lei, rivide le sue unghie laccate, i gesti accurati nel riassettarsi i vestiti, nel rifarsi il trucco, la rivide sistemarsi un bracciale e controllare la pettinatura nello specchietto del portacipria.

E in quest’altro specchio, il fascino disordinato e capriccioso di Misa.

Non gli importava niente di nessuna delle due.

E, se ci pensava fino in fondo, non gli importava niente di nessuno.

Quella era la chiave.

Lui sapeva guardare il mondo con occhi distaccati, freddi, più freddi di quelli degli Shinigami. Non aveva alcun sentimento che gli offuscasse la vista, che guidasse i suoi pensieri e le sue azioni, aveva solo se stesso con cui confrontarsi.

Come adesso, che era solo con la perfezione della sua immagine sul vetro.

Sorrise.

Non poteva fare a meno di irritarsi per le stupidaggini di Misa, per la gelosia e l’aria da primadonna di Kiyomi, oppure per gli entusiasmi di Matsuda-san, così come in passato gli avevano dato sui nervi tutte le assurdità di Ryuuzaki e la cieca rigidità di suo padre. Ma aveva sempre saputo passare sopra a tutto questo, senza troppo sforzo. Sapeva osservare le persone con obiettività, senza che la sua visuale venisse deformata da qualsiasi affetto, né tremasse sotto il calore dell’odio o della semplice insofferenza.

Sorrideva ancora, immobile.

Perché era in grado di studiare il mondo con gli occhi di una macchina perfetta, ma in tutte le finezze che solo gli esseri umani possono possedere. Per questo aveva la padronanza di sfruttare ciascuna delle persone che aveva intorno, individuando le loro capacità e gli aspetti per cui potevano essere utili, soppesando ogni cosa su una bilancia assoluta.

Divina.

E così, era capace di impiegare e rivolgere a suo favore la prontezza di mente di Takada-san e la lealtà di Matsuda, allo stesso modo in cui teneva in conto che Misa non era poi una stupida e alcune volte poteva addirittura trovare piacevole qualcuno dei suoi gesti d’affetto. Così come aveva apprezzato l’integrità, il coraggio di suo padre, e anche l’intelligenza sfrenata di L, che era stata all’altezza della sua.

Quasi all’altezza della sua.

Perché, alla fine, L aveva perso.

Il sorriso di Raito si fece più largo, raggiunse lo scintillio obliquo delle sue iridi.

Sorrideva al volto inerte del detective che gli sembrava di vedere ancora alle sue spalle nello specchio, con quegli occhi perennemente smarriti che lui aveva visto vuoti di sguardo e di vita e poi chiusi per sempre. Sorrideva a quell’espressione stranita capace di tirare fuori conclusioni geniali nei momenti più inaspettati, a quell’insignificante, trascurabile ossessione che rimaneva sullo sfondo, stampata nel vetro.

Lui era stato il suo nemico. Lui e nessun altro.

L.

Adesso, L era ancora in gioco, sotto altri nomi e altre sembianze. Un ragazzino dall’altra parte di un computer, con la stessa acutezza del suo predecessore, e un altro da poco uscito dall’adolescenza, imprevedibile come solo Ryuuzaki sapeva esserlo.

La lotta con L continuava. Sin dall’inizio, tutta la storia era stata un confronto tra lui e L.

Eppure…

Quando guardava gli unici ritratti in loro possesso dei suoi due oppositori, poche linee che fermavano i volti ma nessuno sguardo, sentiva l’adrenalina salire, e ognuno di quei tratti incidersi a fuoco nei suoi pensieri, per poi incendiarsi nella fiamma della sfida. Venite a prendermi.

Eppure…

Eppure quando pensava “L”, la prima immagine che gli veniva alla mente era sempre quella dello strano detective seduto in pose improbabili, con le solite occhiaie e qualche dolce da sgranocchiare sottomano. Era quello, il suo nemico.

Forse perché allora il duello era stato anche qualcosa di immediato, di fisico. Nascondere i pensieri, le soddisfazioni e le imprecazioni, fingere in ogni istante. Il serial killer e l’investigatore che lavoravano fianco a fianco. Era un’idea troppo elettrizzante, una situazione che richiedeva ogni briciolo delle sue capacità e metteva alla prova al grado più estremo il suo ingegno. Era quello che voleva.

Adesso, invece, la partita si giocava sul filo del rasoio, nel sospetto, aumentavano a dismisura le variabili tra cui lui si doveva districare. Questo lo esaltava. Ma il non vedere il suo nemico, il confrontarsi soltanto dietro gli schermi di computer, dall’altra parte della Terra, senza poter spiare le reazioni l’uno dell’altro, senza il fiato sul collo in senso vero e proprio… Sì, era più sicuro, forse in qualche modo anche più semplice.

Ma…

Di Ryuuzaki conosceva tutti gli strambi modi di fare e la precisa sensazione del suo sguardo addosso, poteva sentire la sua voce quando esponeva le sue congetture o colpiva nei punti giusti, conosceva l’intonazione delle parole, i suoi gesti. Poteva ripercorrerli uno ad uno, e in qualche modo indovinare le sue seppur imprevedibili contromosse.

Adesso, lottava con fantasmi, fantasma lui stesso. Non riusciva ad immaginare il volto dall’altra parte del computer, i lampi di quello sguardo, il guizzo dei pensieri. Adesso, era libero di sogghignare beffardo quando tutto andava secondo i suoi piani, ma forse aveva provato più soddisfazione nel sorridere dentro di sé, nell’unico posto solo suo che nessuna telecamera avrebbe mai potuto spiare.

Nello specchio, non poteva vedere i volti di Near e di Mello, ma solo quello di Ryuuzaki.

E Ryuuzaki era morto.

Kira aveva vinto.

Ed era per salire al vertice della sua vittoria che avrebbe sconfitto i due ragazzini. Sarebbe giunto al colmo del suo bicchiere d’ambrosia, per sorseggiarlo lentamente, in tutta l’eternità di un mondo perfetto, da lui plasmato, di cui lui era l’unica, assoluta divinità.

Una divinità dagli occhi di uomo, affacciati sul mondo mortale nella luce del sole e nell’ordinario prodigio di uno specchio.

E andava bene così.

Perché se non poteva vedere i suoi avversari, allora significava che anche lui era inafferrabile come loro, e si sarebbe servito di quello specchio che non gli rivelava alcuna verità per riprodurre e deformare la sua stessa immagine, nascondersi negli angoli ciechi delle successioni di piani lucidi, capovolgersi, apparire per poi scivolare via di nuovo, nell’ingannevole gioco dei riflessi.

Era quello che aveva sempre fatto. Riflettere, speculare. Non c’era stato momento della sua vita che fosse stato vuoto di pensieri, ma tutto era stato disegno su disegno, attacco, parata e contrattacco, un assedio infinito a un castello di illusioni.

Aveva moltiplicato se stesso in inesauribili prospettive. Lo studente modello, il figlio devoto, il ragazzo-prodigio, il sospettato numero uno per il caso di Kira, l’innocente, il fidanzato di Misa, l’amico di L, L stesso, il capo dell’indagine, il dio di un mondo nuovo. E ogni volta giocava con quella al momento più adatta, indossando l’identità che ogni suo diverso interlocutore si aspettava di vedere, così come chi si avvicina ad uno specchio sa già quale volto incontrerà nel vetro.

E dietro i mille riflessi di cui tirava i fili, c’era il suo vero io.

C’era Kira.

E c’era un frammento di Kira in ognuno di quei differenti riflessi.

Per questo tutti lo cercavano senza trovarlo pur avendolo sotto gli occhi, perché sbattevano l’uno contro l’altro traditi e delusi dal gioco di rifrazioni. Si fidavano troppo della realtà, non sapendo di trovarsi dentro ad un immenso caleidoscopio, nell’imponderabile effetto di centomila angolature divergenti.

Per questo…

Avrebbe vinto lui.

Yagami Raito osservò la sua figura dare l’ultimo tocco alla cravatta e infilare la giacca, con i gesti solenni e impassibili di un cavaliere che indossi l’armatura per il giorno della battaglia.

Lontano, nelle stanze vuote, squillò il campanello.

Era Aizawa-san che si presentava per primo al lavoro, probabilmente insonne dopo una notte di sospetti, ed ecco, Misa si era svegliata, ora lo chiamava con la voce ancora addormentata e lui sarebbe dovuto passare a darle un saluto frettoloso, e poi sarebbero arrivati Mogi-san con qualcosa per la colazione, e Matsuda-san e il suo sorriso che chiedevano di Misa.

Iniziava un altro giorno, con la sua ordinaria routine.

Un altro giorno della battaglia.

Superò il letto, si districò dalle mani della ragazza che si erano aggrappate alla sua giacca, aprì la porta e uscì.

Lo specchio, adesso, non mostrava più nulla.

Lo specchio non poteva riflettere la figura dello Shinigami che, con passo tranquillo, attraversava la porta per seguire, come sempre, Yagami Raito.

 

 

 

 

 

 

[Le varie riflessioni (^__^) di questa “storia” sono quelle che mi sono sempre girate nella testa durante e dopo la lettura di “Death Note”, ma l’idea di inserirle tutte insieme in un’unica cornice, quella dello specchio, mi è venuta principalmente in questi giorni che ho riletto “Se una notte d’inverno un viaggiatore” di I.Calvino –in cui, vi ricorderete, uno dei dieci racconti inseriti nella trama, “In una rete di linee che s’intersecano”, è proprio il romanzo geometrico degli specchi.

Poi, che altro c’è da dire… poco o niente. Spero che vi troverete d’accordo con le mie valutazioni, ma se così non fosse, una bella discussione su “DN” è sempre la benvenuta!!

Considero i numerosi accenni al grande L una parte importante di questa fic perché in vari punti della parte più avanzata della trama mi sembra che Raito abbia la tendenza a continuare a pensare a Ryuuzaki, quasi considerasse lui il suo nemico per eccellenza (e così sottovaluta, in un certo senso, Near…). Oddio, ora mi auguro che gli amanti dello shonen-ai non interpretino la cosa a modo loro! Allora lo dico chiaramente: NON FRAINTENDETE!! La coppia Raito-L mi fa veramente andare su tutte le furie, quindi…

Vi ringrazio moltissimo di avere letto -anche perchè questa è una delle poche fic a cui tengo davvero.

Shu]

 

 

 

 

   
 
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