Angela conduceva una vita normale. Una
vita normale piena della solita normale, banale routine.
Ogni domenica si svegliava tardi, prima
di pranzo. Di solito era sua madre a svegliarla, tornata dalla messa, che le
alzava la tapparella senza troppi complimenti. Assolutamente consapevole
dell’orario di rientro della notte precedente.
Assopita, mai così affamata, Angela si
trascinava in pigiama in giro per casa, fino a raggiungere il divano, dove si
circondava del rumore confortante di uno dei soliti film fantasy della domenica
pomeriggio e del suo adorato portatile, con cui si connetteva al resto del
mondo, più per abitudine che per vera voglia di farlo. Passava così almeno un
paio di ore, magari guardando un telefilm oppure giocando a solitario.
Veniva poi l’ora in cui doveva privarsi
del suo adorato pigiama e mettersi qualcosa di decisamente meno comodo. Si
vestiva, preparava la valigia, sempre di fretta, sempre troppo piena, sempre
con poca voglia di partire e una malcelata tristezza all’idea che il weekend fosse
già giunto al termine.
Con la fretta che solo una mamma,
abituata ad essere sempre di corsa e a lottare contro il tempo ma a farcela
ugualmente, poteva avere, veniva accompagnata in stazione, per salire su un
treno puzzolente, spesso in ritardo, dove si muoveva goffa con la sua valigia
pesante e a fatica trovava da sedere. Era una faccenda abbastanza complicata
anche sistemare la valigia; il più delle volte infatti doveva farsi aiutare da
qualcuno per posizionarla nel vano bagagli sopra la sua testa, e questo la
infastidiva ancora di più. Non che nella valigia ci fossero cose di gran peso –
a parte il suo computer e l’accappatoio, aveva solo alcuni abiti di ricambio –
ma era soprattutto il cibo a pesare ingombrante. Infatti, Angela non capiva come
sua madre, ogni volta, le preparasse tutto l’occorrente per sopravvivere quei
quattro giorni lontana da casa. Come se la ragazza partisse per un luogo
sprovveduto e distante, dove nemmeno esisteva un supermercato. Ciò nonostante,
Angela non aveva mai aperto bocca a riguardo, aveva sempre trascinato la sua
valigia piena di cibarie senza fare commenti, soprattutto perché sapeva quanto
per la madre fosse difficile averla lontana da casa, e se questo era il suo
modo per preoccuparsi per lei – essere certa che mangiasse quello che le dava –
allora, era ben felice di accontentarla.
Sul treno, Angela si faceva distrarre
dalle persone con cui viaggiava. Si immaginava per loro storie affascinanti,
colme di dolore e rimpianti, ma anche piene d’amore, di un amore impossibile a
volte, oppure così grande che solo l’idea le scaldava il cuore. Si immaginava
le loro vite, finché il treno non la portava a destinazione.
Passava la settimana in modo indolente,
pigro, con le lezioni all’università, un film che guardava sul suo computer,
un’uscita con un paio di coinquiline dello studentato dove abitava, le idee che
si affollavano nella sua mente e si ingarbugliavano, le domande che cercavano
risposte e lei che aspettava, fremente, il giovedì.
Angela non era mai stata una di quelle
ragazze sicure e decise. Non aveva mai saputo cosa fare da grande, non aveva
mai saputo dove l’avrebbe condotta il suo destino. Non sapeva nemmeno se era
quella la sua strada, per cui si impegnava il minimo indispensabile, aspettando
un segno, un qualcosa, che le dicesse qual era il suo posto.
Se c’era una cosa che lei sapeva, di se
stessa, oltre al fatto che del suo futuro non aveva idee precise, era che
voleva vedere il mondo. Vedere la vita, conoscerla, vedere posti e persone,
viverle. Rubare un pezzetto delle loro felicità.
Angela diventava un’altra persona il
giovedì. Si svegliava come da un incantesimo. Il giovedì era il suo giorno
tanto atteso. Era il suo giorno preferito, forse quanto la domenica ormai le
era diventata alquanto insopportabile. Il giovedì tornava a casa. Ma non era
quello, no. Angela fremeva, allegra ed euforica come non mai, perché finalmente
rivedeva il suo gruppo di amici più intimi e cari, che sapevano tutto di lei,
che la facevano ridere e le mostravano sempre qualcosa di diverso, ogni volta.
La facevano sentire bene, in pace, nel posto giusto, semplicemente se stessa,
semplicemente con un sorriso. Angela non sapeva esattamente cosa stesse
cercando, nel mondo, ma sapeva, sentiva, che ovunque fosse andata, con loro
sarebbe stata a casa. Non aveva grandi aspettative riguardo il suo futuro,
solo, si ripeteva, voleva che loro ci fossero.
Era bello passare quei giorni piacevoli
con loro, che le facevano dimenticare i suoi problemi, la sua età, i suoi
impegni, e la facevano tornare bambina. Era bello perché in quei momenti non
riusciva a desiderare niente di meglio, non riusciva a pensare che potesse
esserci qualcosa di più.
Angela non era una persona particolare.
Era ordinaria. Era esattamente come tutti gli altri. Da piccola, era una
sognatrice provetta, agguerrita, sicura che un giorno avrebbe vissuto una
fantastica avventura, come quelle delle sue storie che s’inventava, come le
fiabe, con le principesse che poi vivevano felici.
Adesso Angela aveva quasi vent’anni,
non sapeva cosa voleva fare della sua vita ma sapeva che quello che aveva non
era abbastanza, nonostante non sapesse cosa cercare. Si lasciava trasportare
dalla vita, per il momento, che le aveva dato molto ma altrettanto si era già
preso.
Angela era una gran sognatrice, sì.
Guardava gli altri negli occhi, leggeva la loro forza, la loro voglia di
vivere, e si immaginava il loro passato burrascoso, e la loro vita entro una
decina d’anni.
Angela sognava, ma con i piedi stava
molto ancorata alla terra. Osservava i suoi amici e rideva felice. Poi vedeva
delle coppiette tenersi per mano e il dubbio si insinuava nella sua mente.
Angela, per quanto ci provasse, non riusciva a credere nell’Amore. Credeva
nell’Amicizia, nella Famiglia, ma l’Amore.. Angela non sapeva spiegarselo, non
sapeva perché ogni volta che vedeva due giovani abbracciarsi o tenersi per mano
il dubbio che quel sentimento fosse davvero reale si insinuava nella sua testa.
Una vocina nella sua testa le ripeteva
che aveva smesso di crederci molto tempo fa, quando aveva capito che i ragazzi
cercavano solo una cosa e certo non era l’amore vero. La vocina tornava
insistente quando vedeva amici che conosceva lasciarsi con i rispettivi
fidanzati storici e soffrire, oppure lanciarsi in una nuova relazione
nell’immediata settimana successiva. Quella vocina si insinuava anche tra le
pieghe della sua mente, assopita, per disturbarla nei sogni. Quella vocina la
disturbava rabbiosa ogni volta che pensava a sua madre e suo padre, con il loro
matrimonio finito alle spalle.
O forse Angela non capiva,
semplicemente perché non si era mai innamorata davvero.
All’età di vent’anni, non era più
sicura esistesse davvero l’anima gemella. Era forse diventata cinica riguardo
queste cose, e aveva chiuso i suoi sentimenti in una scatola, riservandoli solo
agli amici più cari e alla sua famiglia. Con i ragazzi aveva imparato a
divertirsi, a farsi guidare dall’istinto. Non era una brutta ragazza, Angela.
Non era nemmeno bellissima, ma col passare dell’adolescenza aveva trovato
alcuni ragazzi attratti da lei, e con cui aveva trovato il coraggio di
lasciarsi andare.
Non voleva mai farsi coinvolgere
troppo, non voleva mai fidarsi del tutto di quei ragazzi tutti sorrisi e mani
lunghe. Forse una parte di lei ancora sognava, ancora credeva nel principe azzurro.
Anche adesso, che all’università sembrava aver trovato qualcuno, non riusciva a
fidarsi completamente. Aveva seguito il suo istinto, e si era lasciata andare.
Con lui si trovava bene, era anche una compagnia socievole ma non avrebbe
saputo dire se quello che facevano era amore o sesso. Sesso no, ne era certa,
perché non si credeva una così brutta persona, non si credeva capace di fare
solo sesso. Infatti, a malincuore e piena di paura, sapeva che si stava
affezionando a quel ragazzo cinico come lei, che non credeva nelle relazioni in
cui si dovesse pensare al futuro. Non stavano insieme, no, ma avevano un
rapporto privilegiato: stavano insieme senza impegno, ridendo tranquilli e
parlando del più e del meno, senza sentirsi schiacciati da impegni e oneri. Ma
non era neanche amore, e questo Angela non sapeva spiegarselo del tutto.
Ma Angela era una ragazza che odiava le
etichette: avevano quindi deciso di non definirsi, di vivere alla giornata, e
di questo, Angela gli era grata. Non sapeva cosa voleva, ma aveva paura
all’idea di infilarsi in un rapporto così ben definito. Angela era una
vigliacca, e aveva sempre avuto bisogno di una via di fuga: così, quando da
piccola aveva paura, si rifugiava nella sua stanza e urlava nel cuscino una
rabbia muta, così con i ragazzi, se aveva una strana sensazione, li aveva
sempre allontanati prima di ingarbugliarsi troppo.
Con questo nuovo ragazzo ormai andava
avanti già da qualche mese, e questo era un record, per lei, ma non si faceva
troppe illusioni: aspettava il momento in cui si sarebbe stancata, e sperava di
stancarsi prima di lui; non le piaceva l’idea che fosse lui a lasciarla andare,
orgogliosa com’era.
Angela, da sempre, aveva avuto un
rapporto difficile con i ragazzi dell’altro sesso: prima suo fratello, poi i
suoi compagni di scuola, quindi suo padre e infine tutti i ragazzi in generale,
che facevano gli amiconi e poi abbassavano lo sguardo verso le sue tette. Ma
Angela non se l’era mai presa: sapeva che gli uomini l’avrebbero sempre vista
per quello che aveva e non per quello che era. Forse era anche per questa
particolare sfiducia nei loro confronti che non credeva più nell’amore. Non era
come sua madre o suo fratello, non credeva più che esistesse, quel sentimento..
e che avesse qualcosa di così radicale e profondo, una forza sovrumana.
Angela credeva nelle risate che le
procuravano i suoi amici, nel forte sole estivo e nella neve che scendeva.
Credeva nelle stelle che brillavano in cielo nelle rigide notti d’inverno e in
alcune limpide notti d’estate; credeva nella musica, quella che scaldava il
cuore e le smuoveva l’animo, e le faceva venire voglia di ballare e cantare
anche per strada. Credeva nei libri, forse l’unico posto in cui tutto era
possibile, anche un amore impossibile. Un suo piccolo sogno che aveva chiuso in
un cassetto era quello di diventare scrittrice, per questo cercava sempre di
immaginare la vita delle persone intorno a lei. Credeva che un giorno, ognuna
delle persone che aveva incontrato nella sua vita sarebbe finita a diventare un
particolare di una sua storia.
E mentre aspettava di vivere
un’avventura, viveva nella sua solita routine, a volte noiosa, a volte
spassosa, che a volte la lasciava piacevolmente stupita e senza fiato.
Federico era tutto, fuorché normale.
Normale era un aggettivo che odiava,
infatti cercava sempre di essere fuori dalla norma e completamente bizzarro.
Non amava passare inosservato e se qualcosa non gli andava, o non gli piaceva,
la cambiava.
Odiava stare fermo, infatti ogni
settimana cambiava città, grazie anche al suo lavoro che gli permetteva di
spostarsi di continuo. Tornava a casa ogni tanto, per appendere nel suo
appartamento qualcosa di nuovo, e poi ripartiva.
Il suo armadio era così vasto e
variopinto da far invidia a quello di una donna: aveva qualsiasi tipo di abito,
dalle giacche casual ai jeans sportivi alle camicie stravaganti e i gilet
fluorescenti. Nemmeno i suoi accessori erano da meno: collane stravaganti,
braccialetti eleganti oppure pieni di borchie. Adorava cambiare se stesso,
inventandosi ogni giorno, riconoscendosi sempre ogni volta che si guardava allo
specchio. Ciò nonostante, una cosa che mai era cambiata, era il suo orologio da
polso, che gli aveva regalato il padre quando aveva finito le scuole superiori.
Federico lo adorava perché scandiva il
tempo, il suo tempo, e per lui non esisteva cosa più preziosa. Federico non era
mai in ritardo, anzi se poteva era in anticipo, per poter godere con calma di
ogni cosa.
La settimana di Federico non era mai
abitudinaria, anche se seguiva un certo ritmo: di giorno lavorava, metteva
tutto se stesso perché gli piaceva dare sempre il meglio, pranzava con i
colleghi e i clienti in ristoranti di classe, si riempiva di parole sul lavoro
e chiacchiere sul tempo e le notizie scandalistiche, passava il tempo libero a
visitare la città in cui si trovava momentaneamente, e finiva la sera a fare
aperitivo in qualche piccolo bar, dove con un po’ di fortuna, con il suo
carisma e la sua aria da straniero bizzarro, riusciva a conquistare una bella
ragazza, che, se aveva fortuna, diventava la sua compagna per l’intera
settimana. E questo non spesso succedeva: spesso, catturava l’attenzione di
ragazze che, di interessante, avevano soltanto il loro corpo. Poteva passarci
una sera, una giornata, a volte due, ma poi si stufava perché sapeva che non
era abbastanza, e quindi entrava in un altro bar e ne trovava un’altra.
Nonostante il suo abbigliamento
stravagante, nessuno lo aveva mai rifiutato, anzi era sempre stato ben voluto
fin da subito soprattutto dalle persone con cui doveva concludere i suoi
affari, grazie anche alla sua abile parlantina, e questo lo aveva sempre
lusingato, dimostrandogli che le persone, per quanti pregiudizi potessero
avere, erano in grado di andare oltre. Così, in un modo o nell’altro, Federico
non aveva mai tempo per stare da solo con i suoi pensieri, per pensare a
qualcosa che non fosse il lavoro o come intrattenere una giovane donna.
Federico, a dispetto della sua estesa
rubrica che portava nomi sparsi in tutto lo stato e, a volte, anche fuori da
esso, non aveva affatto molti amici o legami così forti. Erano tutti labili,
scremati dal tempo passato che lo aveva portato lontano e distante, chiudendolo
in un manto di mistero a cui nessuno sapeva rispondere, nemmeno i colleghi con
cui aveva lavorato di più.
Federico nemmeno se lo ricordava, un
prima, in cui non era stato così: così instabile, eccentrico nel vestire,
disinvolto nel parlare di tutto tranne che di se stesso. Col passare del tempo
aveva confuso l’immagine che vedeva allo specchio con quello che era, era
arrivato a pensare che era davvero così che voleva essere, che non voleva fare
altro che esprimersi in quel modo.
Federico non si fermava mai, e quando
voleva una cosa, se la prendeva. Era andata così quando, già a quattordici
anni, si era impuntato su un particolare motorino, e dopo molte insistenze era
ciò che aveva ottenuto. Era andata così anche quando aveva intrapreso quel
lavoro, che lo portava a girare sempre con la valigia in mano, valigia che spesso
e volentieri cambiava contenuto, ogni volta che trovava qualcosa che catturava
la sua attenzione in una particolare vetrina. Era andata così anche quando si
era portato a letto una ragazza sconosciuta, la prima da quando aveva iniziato
a lavorare, la prima di una grande lista di donne a cui aveva fatto tante
promesse, che non aveva mantenuto.
Perché si, Federico era un gran
bugiardo. Mentiva sul lavoro, con gli uomini d’affari tutti vestiti eleganti
che si trovava di fronte, mentre lui sprezzante e irriverente magari si
presentava con un paio di baffi finti e una camicia hawaiana. Mentiva alle
donne che conosceva in ogni città, promettendo di chiamarle, di tornare, della
possibilità di un futuro insieme, mentre poi spariva con un sorriso beffardo
senza lasciare di sé nemmeno un ricordo. Mentiva a quel paio di amici che gli
erano rimasti, che ogni tanto, testardi, ancora lo cercavano, promettendo di
tornare presto per uscire a farsi una birra, appena quel periodo stressante sul
lavoro sarebbe finito, sì, sarebbe tornato a casa, e sarebbero usciti. Col
tempo, poi, erano sempre meno quelli che tornavano a cercarlo, e sempre più di
rado. In ultimo, mentiva a sua madre, dicendole che sarebbe tornato presto e
che, soprattutto, stava bene.
E ora, Federico, che aveva quasi
ventisei anni, un futuro che gli appariva radioso sul campo lavorativo, un
ottimo ingaggio da bugiardo a tempo perso, una fossa che si scavava sempre più
profonda ai suoi piedi, sbuffava imperterrito girando a vuoto nel suo
appartamento pieno di cianfrusaglie provenienti da ogni città che aveva visto.
Non era tornato per piacere, anzi, ma
aveva ricevuto degli elogi e il capo gli aveva dato un paio di settimane di
ferie. Aveva cercato di rifiutarle, ma il capo aveva insistito e si era
ritrovato in quell’appartamento così pieno e vuoto allo stesso tempo che gli
faceva venire la nausea.
Non aveva detto a nessuno che era
tornato, nemmeno a sua madre che avrebbe tanto voluto vederlo, nemmeno a quel
paio di amici che ogni tanto ancora lo pensavano, infatti si era prenotato un
volo, deciso a passare un po’ di tempo a Londra, capitale che non aveva mai
visto.
Federico aveva smesso di credere nei
legami molto tempo fa. Non era mai stato capace di instaurare un rapporto con i
suoi coetanei, e forse era proprio questo che gli permetteva di mentire così
abilmente a tutti in modo ingiustificato e di non sentirsi affatto in colpa. O
forse un tempo lo era stato, solo che adesso non lo ricordava più. Gli sembrava
di essere sempre stato così, anche se era certo che, un prima, c’era stato.
Federico credeva solo in se stesso e nella sua forza di volontà, che sapeva
l’avrebbe portato ovunque avesse voluto.
I legami sono per le persone deboli e
fragili, si ripeteva, guardando con disprezzo le famiglie che incontrava nei
ristoranti, e cercando sui volti di ogni persona una falsità così ben costruita
che permetteva loro di recitare quelle farse. L’amore, l’amicizia.. La gente li
aveva creati per sentirsi più al sicuro. Era certo che chiunque avesse un prezzo,
che tutto si potesse comprare e che la fedeltà venisse venduta al miglior
acquirente.
E chi sembrava perso in quel vano
sentimento altro non era che un ottimo attore. Un attore migliore di lui, che
in realtà mentiva per rifuggire la compagnia di persone che non voleva e che
non sopportava.
Adorava cambiare città per poter
conoscere il rumore nuovo e assordante che faceva di giorno e di notte. Non
sognava nient’altro che stare in mezzo alla confusione del traffico, o in un
negozio molto affollato, o in un bar dove una band suonava a tutto volume.
In realtà, Federico, quasi ventisei
anni, un armadio pieno di cose strane e che magari nemmeno si potevano vedere,
odiava se stesso e la sua immagine. Aveva cambiato look così tanto in quegli
ultimi anni che aveva attraversato probabilmente tutti gli ultimi cinquant’anni
di moda maschile. Si era rasato, tinto, vestito, svestito, strappato tessuti,
convincendosi sempre allo specchio di essere la persona giusta, quando in
realtà ogni volta cercava di coprire la sua faccia, di nasconderla. Voleva che
gli altri notassero i suoi vestiti, e non il suo volto. Che la gente vedesse
quella persona costruita, e non quello che era davvero, non i suoi occhi bui e
persi. Continuava a cambiare città, fuggendo da se stesso, senza trovare pace e
un attimo di silenzio.
Nella sua testa ingarbugliata si
affollavano così tanti pensieri a cui non riusciva e non voleva dare voce.
Dormiva poco e ogni notte si rigirava nel letto una miriade di volte, prima di
addormentarsi. Stava bene, continuava a ripetersi. Però ora, guardandosi allo
specchio, riconosceva che quello non era Federico, ma era qualcuno che aveva
preso il sopravvento. Ed era una persona vuota, meschina e bugiarda. E con un
sospiro si era accorto che quella persona, ora come non mai, si era confusa con
lui quanto lui aveva voluto ma non abbastanza da soffocarlo del tutto, prima di
accorgersi che non era questo che voleva.
Federico, quasi ventisei anni, un
lavoro che gli rendeva bene e una vita che non sentiva sua, non sapeva più dove
andarsi a cercare. Si era perso da così tanto tempo che tutto quel girare lo
aveva solo fatto confondere ancora di più.
C’era una cosa, che Federico, quello
vecchio, quello vero, adorava forse più di qualsiasi altra cosa. Il gelato.
D’estate o d’inverno non aveva importanza. E poi adorava i film Disney, quelli
che commuovono sempre, che ti fanno tornare bambino. E le sere d’estate, quelle
in campagna, dove senti i grilli cantare forte in tutto quel silenzio.
Federico forse non sapeva più dove
trovarsi, però, per una volta in vita sua, non gli importò di che ore fossero:
voleva solo perdere tempo.
Questa storia inizia un mercoledì di
febbraio. Un mercoledì noioso e troppo lungo per essere ricordato.
Angela aveva passato la giornata a
leggere, anche se in realtà avrebbe dovuto studiare. Era ormai sceso il buio,
quando si era alzata e aveva dato uno sguardo fuori dalla finestra. Si era
dovuta concentrare, per esserne sicura. Lenta, piccola, ma aveva iniziato a
scendere. La neve, finalmente, era arrivata anche in quella città.
Erano infatti ormai un paio di giorni
che la neve aveva iniziato ad imbiancare gran parte delle zone limitrofe, ma
lei non l’aveva ancora vista. Aprì la porta finestra e uscì in balcone,
assaporando l’aria gelida. Era felice. Rimase lì cinque minuti buoni, lasciando
ghiacciare piano piano il naso e i piedi scalzi, per poi rientrare.
Si vestì in fretta e furia –
pantofolaia com’era, era in pigiama dalla mattina – e uscì dalla sua stanza.
Non sapeva perché, ma si era decisa a
fare una passeggiata sotto la neve.
Si lasciava guidare dall’istinto, dalla
neve che scendeva sempre più fitta, dal sorriso che aleggiava sul suo volto e
dalle mani che si allungavano per cercare di afferrarla.
Non le importava del naso che le si
stava congelando, nemmeno dei pochi passanti che la guardavano male, ancor meno
delle auto che, ferme, la facevano attraversare. E a lei veniva voglia di
danzare, saltellare, come se fosse di nuovo bambina.
La neve le era sempre piaciuta, le era
sempre sembrata così affascinante e magica, misteriosa e dolce allo stesso
tempo. Le sembrava un abbraccio del cielo, per come cadeva lenta e si posava
delicata a terra. Silenziosa, non voleva quasi far del male a nessuno. Non
voleva disturbare, pronta a sciogliersi e sparire in men che non si dica.
Arrivò in un parco e prese a camminare
sul terreno imbiancato. Ad un certo punto si fermò, alzando la testa ed
osservando il cielo.
-Ecco, tra un po’ fioriranno le viole.-
sussurrò allegra. Non vedeva quasi niente, solo fiocchi cadere e un manto
grigio che la sovrastava. Fu allora che le sembrò di notare un bagliore, tenue,
e le sue gambe si mossero da sole. Il naso all’insù, le braccia leggermente
sollevate. Non sapeva dove stava andando, si muoveva incerta, quando
all’improvviso inciampò in qualcosa. Qualcosa che, inaspettatamente, si lamentò
con voce umana.
Angela, mezza distesa sulla neve,
individuò la figura che si stava massaggiando la spalla. Era un uomo, un uomo
giovane e che sembrava anche bello, non fosse stato per la berretta viola, la
sciarpa rossa, il bomber multicolore e le scarpe blu elettriche. Ah, e i
pantaloni verde pisello, ovviamente. In silenzio, si domandava dove avesse la
testa per non aver notato prima una persona tanto appariscente, per poi tornare
di colpo a fissare il cielo: ma qualsiasi cosa avesse visto, ormai l’aveva
persa.
Tornò quindi a concentrarsi sull’uomo
davanti a lei, che la guardava con un’aria confusa.
-Beh?- disse infatti Federico, stupito
dal suo silenzio. Sapeva di essere bello, sapeva di essere vestito in un modo
assurdo, ma non ricordava di essere stato capace di aver zittito una ragazza.
-Ah, si, scusami, scusami, ma non ti
avevo visto.- esclamò tutto d’un fiato Angela, le guance rosse per il freddo e
l’imbarazzo. Tornò in silenzio, ma non si mosse. Non riusciva a non guardalo,
c’era qualcosa di strano in lui, e non riusciva a capirlo. Strinse gli occhi
per concentrarsi ma nulla, non riusciva ad inquadrarlo. Quindi, usò la
fantasia.
Lo immaginò artista, un artista
maledetto, che suonava il sax e scriveva poesie per il suo amore finito. Il suo
dolore non era più capace di fargli vedere il mondo a colori, per questo non
sapeva più abbinare i suoi vestiti, non gli importava più quello che potevano
pensare gli altri. Viveva in un film in bianco e nero, e tutto sembrava non
avere fine, come se la pellicola si fosse inceppata. Non trovava una via
d’uscita e quel dolore soffocante lo stava lacerando. Sì, sarebbe stato un
ottimo soggetto per un libro, pensava, chiedendosi quale sarebbe potuto essere
il volto della sua lei.
-Ti sei incantata?- chiese stupito. Quella
ragazza lo stava guardando fisso già da un po’, come se lo stesse studiando, o
come se stesse cercando di riconoscerlo. Ma non l’aveva mai vista, ne era
sicuro. –Non si siamo mai incontrati, giusto?- continuò, per destare la sua
attenzione.
-Oh.. no, no. Non ci conosciamo.-
sussurrò lei alzandosi in piedi, togliendo la neve dai pantaloni. -Scusa per
prima, ma stavo guardando il cielo e.. beh, non sapevo dove stavo andando.-
sorrise imbarazzata, scostando i capelli dal viso, che si erano gonfiati per la
forte umidità nell’aria anche se stavano sotto il cappuccio.
Federico alzò le spalle, tornando a
riprendere la vaschetta che aveva poggiato a terra. Dentro, oltre ad un
cucchiaino, del gelato faceva la sua bella figura.
-Stai.. Stai mangiando del gelato?- chiese
stupita la ragazza. Il suo dolore dev’essere proprio tanto, se si affoga nel
gelato fuori al freddo gelido, pensava sconcertata.
-Sì.- rispose semplicemente, prima di
inghiottire. La ragazza rimase in silenzio, in piedi, a guardarlo, mentre la
neve scendeva. –Era.. era un po’ che non lo mangiavo. E.. non so, mi è venuta
voglia di mangiarlo qui.- aggiunse, imbarazzato dal suo silenzio. Non sapeva
perché la metteva in soggezione. O forse perché era la prima volta, dopo anni,
che diceva qualcosa di così personale ad una sconosciuta.
Angela rimase in silenzio. In
quell’istante pensava così tante cose che non riusciva a formulare un pensiero
completo e nemmeno qualcosa di sensato da dire. Non voleva restare e
disturbarlo ulteriormente, ma non voleva nemmeno andare via. Rimase,
semplicemente, in piedi. A guardarlo, circondato dalla neve che scendeva lenta,
non più così fitta. Incuriosita forse da come si mostrava, sicura che non fosse
solo quello, che quel giovane fosse molto di più.
Anche Federico pensava. Tutto quel
silenzio gli metteva agitazione perché gli riusciva di parlare solo con se
stesso, e non era sicuro di volerlo. Pensava di voler stare un po’ da solo, ma
forse non aveva ancora il coraggio di affrontarsi. Sentiva la ragazza vicina a
lui e credeva di essere così vulnerabile, ai suoi occhi, come se avesse potuto
capirlo semplicemente con uno sguardo. E non voleva sapere cosa avrebbe visto.
-Dì qualcosa, ti prego.- sussurrò.
Angela sobbalzò, a sentire quella richiesta in tutto quel candore muto e silenzioso.
Allungò il palmo aperto verso l'alto cercando di afferrare i fiocchi di neve,
la testa improvvisamente vuota per l’attenzione che lui le aveva appena
rivolto. La stava guardando e lo sapeva, così disse la prima cosa che le venne
in mente.
-Tra un po’ fioriranno le viole.-
affermò convinta, mentre un sorriso si allargò sul suo volto.
-Eh?- domandò l’altro, senza capire.
-Sì, le viole. Quei fiorellini piccoli
piccoli e tanto profumati, che spuntano presto, quando c’è ancora freddo. E’ il
segnale che la primavera è alle porte, e per quanto mi piaccia la neve, io
adoro molto di più il caldo.- e sorrise, tornando a guardarlo.
Il giovane annuì, tornando a
concentrarsi sul gelato.
-E a te piace la neve?- cercò allora di
continuare la conversazione, Angela, mentre smuoveva un po’ di neve con la
scarpa.
Federico scosse la testa, piano.
-No, preferisco le sere d’estate,
quelle afose. Quelle dove i grilli cantano per tutta la notte, facendoti
compagnia. Non ti senti solo anche in mezzo al nulla della campagna.-
Angela sorrise, veniva da un paesino e
sapeva voleva dire. Sospirò, mentre si accorgeva che aveva smesso di nevicare.
Tutta la magia, e quelle poche parole che si erano scambiati, sembravano
scomparsi sotto quel manto bianco e freddo. Non sapeva perché aveva parlato
così, e nemmeno Federico sapeva spiegarselo, ma si ripromise di non esporsi più
in tal modo. Smise quindi di parlare, tornando a concentrarsi sul gelato.
-Beh, ora.. devo andare.- disse
soltanto Angela, con un sorriso pacato sul viso. –Buon.. Buon gelato.- e si
voltò, riprendendo a camminare.
Angela, da allora, ripensò spesso al
ragazzo del gelato vestito in modo strano. Lo raccontò anche alla sua migliore
amica, e al ragazzo con cui si vedeva, sentendosi strana ed euforica, come se
quella piccola conversazione fosse stata in realtà una magica avventura. Non
sapeva spiegarselo, forse era stata una coincidenza, forse era stata la magia
della neve, però il loro incontro si andò a chiudere in un angolo della sua
mente dove lavorava la sua fantasia, e la notte, prima di addormentarsi, prese
a fantasticare sulla vita di quel giovane, su quello che stava facendo, e su
tutte le varianti del loro incontro.
Tornò poi alla solita routine di tutti
i giorni, nella solita monotonia di tutti i giorni. Tutto le appariva così
scialbo e grigio, almeno fino al giovedì. Ma anche le serate con gli amici
stavano diventando monotone, e lei voleva di più, decisamente qualcosa di più.
Ma continuava a non sapere cosa cercare, quindi si accontentava delle risate
contagiose e di quel calore che la faceva sentire sempre a casa.
Federico, da parte sua, non ripensò più
a quella ragazza delle viole. Quella sera, per un istante, aveva creduto di
poter cambiare, di poter tornare come un tempo, ma, si era detto, probabilmente
era stato il gelato e la neve, che gli avevano fatto un brutto scherzo.
Tornò alla sua vita di sempre. Partì
per Londra, dove il rumore della City lo confuse e lo stordì, facendolo sentire
vivo e completo. A Camdem Town rifece parte del suo guardaroba, avvicinandosi
ad uno stile più dark e metal, nonostante di quel tipo di musica non se ne
intendesse granché.
Sua madre, intanto, lo chiamava spesso
per sapere dove fosse, ma lui glissava sempre le sue telefonate in modo
frettoloso e poco esaustivo, riempiendo le sue giornate di voci sconosciute e
le sue notti di ragazze giovani.
Non era più tornato a tormentarsi allo
specchio, cercando di guardarsi sempre il meno possibile.
Passarono un paio di mesi durante i
quali la vita di entrambi continuò esattamente come si erano aspettati, e come
avevano programmato.
Angela non sapeva se era la strada
giusta, ma non si fermava e, anzi, cominciava a credere che non ci fossero
alternative. La sua storia con quel ragazzo sembrava durare, ma c’era sempre
qualcosa, che non sapeva spiegarsi, che mancava, forse, e non sapeva cosa.
Guardava intanto altri amarsi e si chiedeva se un giorno sarebbe toccato anche
a lei, quella fortuna, di sentirsi viva, di amare davvero e sentire cosa si
prova. Oppure forse era solo un inganno, quelle persone così felici forse
mentivano, in primo luogo a se stessi, per convincersi ad essere felici.
Federico intanto aveva smesso di
guardarsi negli occhi. Era ormai più di un mese che non tornava in città,
quando vi fece ritorno in fretta e furia. Sua madre aveva avuto un infarto e,
nonostante l’avesse sempre tenuta distante, l’affetto per lei era genuino, così
si costrinse a tornare. Le avrebbe dato una mano per riprendersi e poi sarebbe
ripartito, in fretta.
Si incontrarono di nuovo, per caso, ai
primi di aprile.
Angela era distesa sul prato, ad
accogliere i primi raggi caldi del sole, mentre leggeva un libro. Lui le passò
accanto, senza nemmeno vederla, ma lei se ne accorse subito: non aveva di certo
dimenticato quelle scarpe blu elettriche. Spinta dall’istinto, si alzò e lo
raggiunse di corsa, sfiorandogli una spalla con la mano. Federico si girò e la
guardò con sorpresa, all’inizio senza riconoscerla.
-Ehi, tu sei quello che mangia il
gelato sotto la neve!- esclamò Angela divertita. Federico rimase per un attimo
interdetto, poi parve illuminarsi.
-Oh, sei tu!- esclamò, riconoscendola.
Rimase per un attimo a guardarla. Ora, senza tutti gli strati di vestiti
addosso, sembrava molto più carina e giovane della prima volta che l’aveva
vista.
Angela invece aveva notato il cambio di
look del giovane, che era passato ai colori dark: di sicuro stava affrontando
una nuova fase della sua depressione, e tutto quel nero riusciva solo a
metterle in testa l’idea che il ragazzo, nel suo libro, distrutto dall’amore
non corrisposto, fosse pronto ad uccidersi. Sì, romantico, tragico e teatrale,
quel ruolo gli calzava alla perfezione.
-Beh.. volevi qualcosa?- chiese lui, un
po’ scocciato. Era uscito perché sua madre gli aveva chiesto di andare al
supermercato, ma non aveva voglia di perdere tempo. Lui odiava perdere tempo.
-No, nulla. Salutarti. Ah si, e sapere
se hai mangiato ancora il gelato sotto la neve, dopo quella sera.-
Federico abbassò lo sguardo. Dispiaciuto
per il suo tono, ricordò come, quella sera, avesse risposto a quella ragazza in
modo sincero e diretto. Forse era la prima a cui non aveva mentito. E la cosa,
stranamente, non lo faceva sentire vulnerabile, ora, a distanza di tempo. Anzi,
un moto dentro di lui gli diceva che avrebbe voluto, ancora, farle vedere
qualcosa di sé che altri non avevano mai visto. Come se, mostrandosi un po’ più
se stesso, riuscisse ad uscire almeno un po’ da quel buco che si era scavato.
Si disse che, anche se avesse parlato un po’, non ci sarebbe stato nulla di
male. Poi, sarebbe tornato alla solita routine.
Federico prese a camminare, fino a
sedersi sull’erba. Spostò lo sguardo all’orizzonte, prima di parlare. Sapeva
che lei era ancora lì.
-Ti senti mai sbagliata? Come se fossi
nel film sbagliato e tu sapessi un’altra parte?- chiese, mentre distendeva le
gambe giocherellando con un filo d’erba. Ad Angela sembrava tanto un bambino.
-Beh.. Sta a noi trovare il film
giusto.. Non sempre lo è, anche se lo sembra. A volte dobbiamo sbagliare per
accorgerci che non è la strada giusta.- rispose con filosofia, sedendosi poco
distante da lui. Angela adorava parlare per metafore, le sembrava sempre di dire
cose saggie in quel modo. Non si avvicinò troppo, benché fosse curiosa
dall’atteggiamento del ragazzo. Era così distante e scostante, e, nonostante
tutto quello che aveva immaginato, era sicura di non averci azzeccato per
nulla. E ancora non era riuscita a guardarlo negli occhi.
Non sapeva perché aveva risposto a
quella domanda in quel modo così vivo e naturale. In realtà, nemmeno lei
credeva davvero in quello che diceva, però qualcosa dentro di sé le aveva detto
che quelle erano le parole giuste.
-Eppure questa vita non è un film.. E
se ti sembrasse che è troppo tardi? Che oramai ti sei messo un costume non tuo
per così tanto tempo che ci hai fatto l’abitudine, e se lo togliessi non
sapresti più cosa fare?- riprese, mentre le domande gli uscivano senza che lui
le pensasse davvero. Si rendeva conto di pensare quelle cose solo quando ormai
le aveva già dette ad alta voce. Era davvero lui, che stava parlando con quella
sconosciuta? Come poteva fidarsi? Come mai si lasciava andare così? Non lo
aveva mai fatto, eppure con lei sentiva il bisogno di parlare, di farsi vedere
per quello che era davvero. Non la conosceva nemmeno, eppure il suo istinto
agiva prima di tutti i suoi freni che si era imposto nel tempo.
-Beh.. Hai presente i cartoni Disney,
no? Hanno insegnato a tutti a sognare e che esiste il lieto fine. E forse la
favola non esiste nella realtà però.. Però una speranza c’è per tutti. Le cose
possono sempre cambiare. Alla fine tutto va bene, e se non va bene, non è la
fine. Deve pur esserci un happy ending per tutti, no?-
-Come fai a saperlo? E se non ci fosse?
Se alcuni di noi fossero destinati ad essere infelici?-
Angela rimase in silenzio, ammirando
quel ragazzo. Quel ragazzo che aveva il coraggio di esporre le proprie paure ad
una sconosciuta. E lei, lei era così fifona che non sapeva nemmeno affrontare
l’amore quando le si parava davanti, non sapeva coglierlo e viverlo perché
aveva troppa paura. Diamine, tutti hanno paura. Siamo tutti esseri umani che
sbagliano, ma si può sempre rimediare. L’aveva appena detto, no? E allora
perché non ci provava?
Si alzò in piedi. Sicura.
-Non è possibile. Non siamo comparse.
Siamo protagonisti. I protagonisti della nostra vita. Siamo noi a decidere..
Sono certa che qualsiasi cosa sia, tu la
possa cambiare. C’è sempre tempo. Non siamo ancora morti, no?- disse decisa.
Decisa a cambiare, a fare qualcosa. A non accontentarsi.
Volse le spalle a Federico, convinta.
Angela, quel giorno, si era fatta una
promessa. Tornò dal ragazzo con cui stava, lasciandolo. Aveva deciso di non
accontentarsi. Aveva deciso che lei avrebbe avuto il suo lieto fine, e per
ottenerlo non doveva smettere di cercare. Doveva lottare, voleva lottare.
Voleva avere di più e l’avrebbe avuto. Avrebbe trovato l’amore perché sapeva
che esisteva, da qualche parte. Perché sapeva che c’era qualcuno che ci credeva
come lei, da qualche parte.
E non importava se vedeva i suoi amici
lasciarsi e soffrire. Se vedeva matrimoni finire e tanto dolore. Le persone
amano. Amano perché di sicuro provarci vince ogni paura, ogni difficoltà.
Avrebbe amato, ci avrebbe provato. Si sarebbe ferita e poi si sarebbe rialzata,
più forte, più decisa, più meticolosa a non arrendersi.
Aveva deciso di smettere di nascondersi
ed era partita, alla ricerca di quel qualcosa che le mancava. Sapeva che l’avrebbe
trovato. E sapeva che casa era sempre con lei. Nel suo cuore.
Per Federico fu più difficile.
Impiegò alcune settimane, ma tornò da
sua madre, promettendosi di non mentirle più. E le disse la verità. Le disse
che le voleva bene e che non stava bene, che dalla morte di papà non era più
stato in grado di fermarsi a pensare un istante. Ma che ci avrebbe provato,
ora.
Andò a trovare suo padre. Erano anni
che non lo faceva, e gli chiese perdono per tutto quello che aveva fatto quando
era ancora vivo. Gli disse che sarebbe cambiato, e che lui ne sarebbe stato
orgoglioso.
Chiamò i suoi amici. Un paio risposero
all’invito, altri declinarono l’offerta. Non contento, andò a bussare da tutti
per sapere come stavano. Per vederli. Per dire loro che gli erano mancati e che
gli dispiaceva.
Gettò tutti i suoi vestiti strani e si
rifece il guardaroba. Un guardaroba normale.
Non da ultimo, lasciò il lavoro.
E partì. Non sapeva dove sarebbe
andato. Sapeva solo che voleva ritrovarsi.
Seguì l’istinto, senza tener conto del
tempo che passava. Semplicemente, non voleva più avere paura di guardarsi allo
specchio.
Passarono anni, prima che queste due
anime, che senza volerlo si erano avvicinate, sfiorate e aiutate a vicenda, si
ritrovassero per caso, come un segno del destino.
Avvenne una sera di dicembre. Nevicava.
Entrambi si incontrarono in quel parco,
come successe la prima volta.
Stavolta, nessuno dei due aveva
dimenticato l’altro.
Si guardarono a lungo, in silenzio.
Scrutandosi negli occhi, leggendosi nell’anima.
Angela indovinò il suo passato. E con
un sorriso immaginò il suo radioso futuro.
Federico pensò che quella donna era
stata importante, nella sua vita, tanto quanto sua madre. Lo aveva aiutato
spontaneamente, senza chiedere nulla in cambio. Ma che non ne conosceva nemmeno
il nome.
Si avvicinò, allungò una mano e si
presentò.
-Federico. Mi piace mangiare il gelato,
d’estate o d’inverno che sia.-
Angela sorrise, divertita. Era la terza
volta che lo vedeva, eppure le sembrava di conoscerlo da sempre. Eppure le
sembrava che lui la conoscesse da sempre.
Avevano parlato così poco eppure si
erano mostrati così fragili l’uno all’altro. Così vulnerabili e spontanei.
C’era un filo sottile che li legava, un
filo che li aveva aiutati entrambi a sbrogliare gli altri nodi.
Per questo, gli buttò le braccia al
collo e lo abbracciò, ridendo.
Federico rimase un attimo spiazzato, ma
poi, sorridendo, ricambiò l’abbraccio. Quella ragazza forse lo aveva conosciuto
meglio di sua madre, e lo aveva aiutato a tornare se stesso semplicemente
parlando delle viole.
Note:
Mmmm.
Okay. Allora, per prima cosa, sinceramente non ho idea di cosa ho scritto. E’
la mia prima storia originale, la prima cosa che scrivo tutto di mio e
sinceramente non doveva andare così. Quando ho iniziato a scrivere, perché
guidata dalla voglia di farlo, non avevo idea di dove sarei finita. Ma la mia
testa lo sapeva, lo sentiva, che quei due poi alla fine sarebbero dovuti stare
insieme.
Invece no, hanno fatto tutto da soli. Le mani sono scivolate sulla tastiera e,
sinceramente, non ho avuto cuore di accorciare le presentazioni dei due
personaggi, che mi sembrano troppo lunghe e forse pesanti ma che non riuscirei
a vedere in altro modo. Hanno deciso loro. Hanno deciso loro di lasciare tutto
così vago, sia nella loro vita, sia nei loro incontri. Tutto così labile, e
anche e soprattutto la fine, così incerta. Io volevo farli finire insieme, ma
poi, mentre scrivevo, una vocina mi diceva che era banale e scontato, e quindi
il finale se lo sono scritto da soli. Così incerto e aperto all’immaginazione.
Io credo che, comunque, alla fine entrambi abbiano trovato la pace e l’Amore,
quello in cui entrambi non credevano poi così tanto.
E’
la mia prima storia originale. Sinceramente, non sono nemmeno sicura di cosa
parla, però la posto lo stesso, perché Angela e Fede mi sono piaciuti fin da
subito, da quando sono usciti dalla mia testa. Non me li aspettavo così, Fede
soprattutto. Ma c’è molto di me in entrambi. Credo che sarebbero entrambi
personaggi adatti ad una storia più lunga, magari una long, magari qualcosa che
racconti di più, di entrambi. Ma non volevano esporsi di più, sono usciti così
e temo potrei rovinarli, cercando di raccontare qualcos’altro.
Nonostante ciò, mi affido a voi. Al vostro parere, di cui ho decisamente
bisogno, perché di sicuro avrei potuto fare meglio, o diversamente. Anche se
ora la mia testa non riesce a pensare ad altro.
Grazie
a tutti quelli che sono arrivati fin qui,
Smemo