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Autore: Smemo92    02/02/2012    1 recensioni
Angela non era una persona particolare. Era ordinaria. Era esattamente come tutti gli altri. Da piccola, era una sognatrice provetta, agguerrita, sicura che un giorno avrebbe vissuto una fantastica avventura, come quelle delle sue storie che s’inventava, come le fiabe, con le principesse che poi vivevano felici.
Adesso Angela aveva quasi vent’anni, non sapeva cosa voleva fare della sua vita ma sapeva che quello che aveva non era abbastanza, nonostante non sapesse cosa cercare.
Federico invece adorava cambiare città per poter conoscere il rumore nuovo e assordante che faceva di giorno e di notte. Non sognava nient’altro che stare in mezzo alla confusione del traffico, o in un negozio molto affollato, o in un bar dove una band suonava a tutto volume. Si era perso da così tanto tempo che tutto quel girare lo aveva solo fatto confondere ancora di più.

Questa storia inizia con la neve. In una di quelle giornate che passano inosservate e di cui poi non ricordi i particolari precisi.
Genere: Fluff, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Let it snow 2

 

 


Angela conduceva una vita normale. Una vita normale piena della solita normale, banale routine.
Ogni domenica si svegliava tardi, prima di pranzo. Di solito era sua madre a svegliarla, tornata dalla messa, che le alzava la tapparella senza troppi complimenti. Assolutamente consapevole dell’orario di rientro della notte precedente.
Assopita, mai così affamata, Angela si trascinava in pigiama in giro per casa, fino a raggiungere il divano, dove si circondava del rumore confortante di uno dei soliti film fantasy della domenica pomeriggio e del suo adorato portatile, con cui si connetteva al resto del mondo, più per abitudine che per vera voglia di farlo. Passava così almeno un paio di ore, magari guardando un telefilm oppure giocando a solitario.
Veniva poi l’ora in cui doveva privarsi del suo adorato pigiama e mettersi qualcosa di decisamente meno comodo. Si vestiva, preparava la valigia, sempre di fretta, sempre troppo piena, sempre con poca voglia di partire e una malcelata tristezza all’idea che il weekend fosse già giunto al termine.
Con la fretta che solo una mamma, abituata ad essere sempre di corsa e a lottare contro il tempo ma a farcela ugualmente, poteva avere, veniva accompagnata in stazione, per salire su un treno puzzolente, spesso in ritardo, dove si muoveva goffa con la sua valigia pesante e a fatica trovava da sedere. Era una faccenda abbastanza complicata anche sistemare la valigia; il più delle volte infatti doveva farsi aiutare da qualcuno per posizionarla nel vano bagagli sopra la sua testa, e questo la infastidiva ancora di più. Non che nella valigia ci fossero cose di gran peso – a parte il suo computer e l’accappatoio, aveva solo alcuni abiti di ricambio – ma era soprattutto il cibo a pesare ingombrante. Infatti, Angela non capiva come sua madre, ogni volta, le preparasse tutto l’occorrente per sopravvivere quei quattro giorni lontana da casa. Come se la ragazza partisse per un luogo sprovveduto e distante, dove nemmeno esisteva un supermercato. Ciò nonostante, Angela non aveva mai aperto bocca a riguardo, aveva sempre trascinato la sua valigia piena di cibarie senza fare commenti, soprattutto perché sapeva quanto per la madre fosse difficile averla lontana da casa, e se questo era il suo modo per preoccuparsi per lei – essere certa che mangiasse quello che le dava – allora, era ben felice di accontentarla.
Sul treno, Angela si faceva distrarre dalle persone con cui viaggiava. Si immaginava per loro storie affascinanti, colme di dolore e rimpianti, ma anche piene d’amore, di un amore impossibile a volte, oppure così grande che solo l’idea le scaldava il cuore. Si immaginava le loro vite, finché il treno non la portava a destinazione.
Passava la settimana in modo indolente, pigro, con le lezioni all’università, un film che guardava sul suo computer, un’uscita con un paio di coinquiline dello studentato dove abitava, le idee che si affollavano nella sua mente e si ingarbugliavano, le domande che cercavano risposte e lei che aspettava, fremente, il giovedì.
Angela non era mai stata una di quelle ragazze sicure e decise. Non aveva mai saputo cosa fare da grande, non aveva mai saputo dove l’avrebbe condotta il suo destino. Non sapeva nemmeno se era quella la sua strada, per cui si impegnava il minimo indispensabile, aspettando un segno, un qualcosa, che le dicesse qual era il suo posto.
Se c’era una cosa che lei sapeva, di se stessa, oltre al fatto che del suo futuro non aveva idee precise, era che voleva vedere il mondo. Vedere la vita, conoscerla, vedere posti e persone, viverle. Rubare un pezzetto delle loro felicità.
Angela diventava un’altra persona il giovedì. Si svegliava come da un incantesimo. Il giovedì era il suo giorno tanto atteso. Era il suo giorno preferito, forse quanto la domenica ormai le era diventata alquanto insopportabile. Il giovedì tornava a casa. Ma non era quello, no. Angela fremeva, allegra ed euforica come non mai, perché finalmente rivedeva il suo gruppo di amici più intimi e cari, che sapevano tutto di lei, che la facevano ridere e le mostravano sempre qualcosa di diverso, ogni volta. La facevano sentire bene, in pace, nel posto giusto, semplicemente se stessa, semplicemente con un sorriso. Angela non sapeva esattamente cosa stesse cercando, nel mondo, ma sapeva, sentiva, che ovunque fosse andata, con loro sarebbe stata a casa. Non aveva grandi aspettative riguardo il suo futuro, solo, si ripeteva, voleva che loro ci fossero.
Era bello passare quei giorni piacevoli con loro, che le facevano dimenticare i suoi problemi, la sua età, i suoi impegni, e la facevano tornare bambina. Era bello perché in quei momenti non riusciva a desiderare niente di meglio, non riusciva a pensare che potesse esserci qualcosa di più.
Angela non era una persona particolare. Era ordinaria. Era esattamente come tutti gli altri. Da piccola, era una sognatrice provetta, agguerrita, sicura che un giorno avrebbe vissuto una fantastica avventura, come quelle delle sue storie che s’inventava, come le fiabe, con le principesse che poi vivevano felici.
Adesso Angela aveva quasi vent’anni, non sapeva cosa voleva fare della sua vita ma sapeva che quello che aveva non era abbastanza, nonostante non sapesse cosa cercare. Si lasciava trasportare dalla vita, per il momento, che le aveva dato molto ma altrettanto si era già preso.
Angela era una gran sognatrice, sì. Guardava gli altri negli occhi, leggeva la loro forza, la loro voglia di vivere, e si immaginava il loro passato burrascoso, e la loro vita entro una decina d’anni.
Angela sognava, ma con i piedi stava molto ancorata alla terra. Osservava i suoi amici e rideva felice. Poi vedeva delle coppiette tenersi per mano e il dubbio si insinuava nella sua mente. Angela, per quanto ci provasse, non riusciva a credere nell’Amore. Credeva nell’Amicizia, nella Famiglia, ma l’Amore.. Angela non sapeva spiegarselo, non sapeva perché ogni volta che vedeva due giovani abbracciarsi o tenersi per mano il dubbio che quel sentimento fosse davvero reale si insinuava nella sua testa.
Una vocina nella sua testa le ripeteva che aveva smesso di crederci molto tempo fa, quando aveva capito che i ragazzi cercavano solo una cosa e certo non era l’amore vero. La vocina tornava insistente quando vedeva amici che conosceva lasciarsi con i rispettivi fidanzati storici e soffrire, oppure lanciarsi in una nuova relazione nell’immediata settimana successiva. Quella vocina si insinuava anche tra le pieghe della sua mente, assopita, per disturbarla nei sogni. Quella vocina la disturbava rabbiosa ogni volta che pensava a sua madre e suo padre, con il loro matrimonio finito alle spalle.
O forse Angela non capiva, semplicemente perché non si era mai innamorata davvero.

 

All’età di vent’anni, non era più sicura esistesse davvero l’anima gemella. Era forse diventata cinica riguardo queste cose, e aveva chiuso i suoi sentimenti in una scatola, riservandoli solo agli amici più cari e alla sua famiglia. Con i ragazzi aveva imparato a divertirsi, a farsi guidare dall’istinto. Non era una brutta ragazza, Angela. Non era nemmeno bellissima, ma col passare dell’adolescenza aveva trovato alcuni ragazzi attratti da lei, e con cui aveva trovato il coraggio di lasciarsi andare.
Non voleva mai farsi coinvolgere troppo, non voleva mai fidarsi del tutto di quei ragazzi tutti sorrisi e mani lunghe. Forse una parte di lei ancora sognava, ancora credeva nel principe azzurro. Anche adesso, che all’università sembrava aver trovato qualcuno, non riusciva a fidarsi completamente. Aveva seguito il suo istinto, e si era lasciata andare. Con lui si trovava bene, era anche una compagnia socievole ma non avrebbe saputo dire se quello che facevano era amore o sesso. Sesso no, ne era certa, perché non si credeva una così brutta persona, non si credeva capace di fare solo sesso. Infatti, a malincuore e piena di paura, sapeva che si stava affezionando a quel ragazzo cinico come lei, che non credeva nelle relazioni in cui si dovesse pensare al futuro. Non stavano insieme, no, ma avevano un rapporto privilegiato: stavano insieme senza impegno, ridendo tranquilli e parlando del più e del meno, senza sentirsi schiacciati da impegni e oneri. Ma non era neanche amore, e questo Angela non sapeva spiegarselo del tutto.
Ma Angela era una ragazza che odiava le etichette: avevano quindi deciso di non definirsi, di vivere alla giornata, e di questo, Angela gli era grata. Non sapeva cosa voleva, ma aveva paura all’idea di infilarsi in un rapporto così ben definito. Angela era una vigliacca, e aveva sempre avuto bisogno di una via di fuga: così, quando da piccola aveva paura, si rifugiava nella sua stanza e urlava nel cuscino una rabbia muta, così con i ragazzi, se aveva una strana sensazione, li aveva sempre allontanati prima di ingarbugliarsi troppo.
Con questo nuovo ragazzo ormai andava avanti già da qualche mese, e questo era un record, per lei, ma non si faceva troppe illusioni: aspettava il momento in cui si sarebbe stancata, e sperava di stancarsi prima di lui; non le piaceva l’idea che fosse lui a lasciarla andare, orgogliosa com’era.
Angela, da sempre, aveva avuto un rapporto difficile con i ragazzi dell’altro sesso: prima suo fratello, poi i suoi compagni di scuola, quindi suo padre e infine tutti i ragazzi in generale, che facevano gli amiconi e poi abbassavano lo sguardo verso le sue tette. Ma Angela non se l’era mai presa: sapeva che gli uomini l’avrebbero sempre vista per quello che aveva e non per quello che era. Forse era anche per questa particolare sfiducia nei loro confronti che non credeva più nell’amore. Non era come sua madre o suo fratello, non credeva più che esistesse, quel sentimento.. e che avesse qualcosa di così radicale e profondo, una forza sovrumana.
Angela credeva nelle risate che le procuravano i suoi amici, nel forte sole estivo e nella neve che scendeva. Credeva nelle stelle che brillavano in cielo nelle rigide notti d’inverno e in alcune limpide notti d’estate; credeva nella musica, quella che scaldava il cuore e le smuoveva l’animo, e le faceva venire voglia di ballare e cantare anche per strada. Credeva nei libri, forse l’unico posto in cui tutto era possibile, anche un amore impossibile. Un suo piccolo sogno che aveva chiuso in un cassetto era quello di diventare scrittrice, per questo cercava sempre di immaginare la vita delle persone intorno a lei. Credeva che un giorno, ognuna delle persone che aveva incontrato nella sua vita sarebbe finita a diventare un particolare di una sua storia.
E mentre aspettava di vivere un’avventura, viveva nella sua solita routine, a volte noiosa, a volte spassosa, che a volte la lasciava piacevolmente stupita e senza fiato.

 

 

 

Federico era tutto, fuorché normale.
Normale era un aggettivo che odiava, infatti cercava sempre di essere fuori dalla norma e completamente bizzarro. Non amava passare inosservato e se qualcosa non gli andava, o non gli piaceva, la cambiava.
Odiava stare fermo, infatti ogni settimana cambiava città, grazie anche al suo lavoro che gli permetteva di spostarsi di continuo. Tornava a casa ogni tanto, per appendere nel suo appartamento qualcosa di nuovo, e poi ripartiva.
Il suo armadio era così vasto e variopinto da far invidia a quello di una donna: aveva qualsiasi tipo di abito, dalle giacche casual ai jeans sportivi alle camicie stravaganti e i gilet fluorescenti. Nemmeno i suoi accessori erano da meno: collane stravaganti, braccialetti eleganti oppure pieni di borchie. Adorava cambiare se stesso, inventandosi ogni giorno, riconoscendosi sempre ogni volta che si guardava allo specchio. Ciò nonostante, una cosa che mai era cambiata, era il suo orologio da polso, che gli aveva regalato il padre quando aveva finito le scuole superiori.
Federico lo adorava perché scandiva il tempo, il suo tempo, e per lui non esisteva cosa più preziosa. Federico non era mai in ritardo, anzi se poteva era in anticipo, per poter godere con calma di ogni cosa.
La settimana di Federico non era mai abitudinaria, anche se seguiva un certo ritmo: di giorno lavorava, metteva tutto se stesso perché gli piaceva dare sempre il meglio, pranzava con i colleghi e i clienti in ristoranti di classe, si riempiva di parole sul lavoro e chiacchiere sul tempo e le notizie scandalistiche, passava il tempo libero a visitare la città in cui si trovava momentaneamente, e finiva la sera a fare aperitivo in qualche piccolo bar, dove con un po’ di fortuna, con il suo carisma e la sua aria da straniero bizzarro, riusciva a conquistare una bella ragazza, che, se aveva fortuna, diventava la sua compagna per l’intera settimana. E questo non spesso succedeva: spesso, catturava l’attenzione di ragazze che, di interessante, avevano soltanto il loro corpo. Poteva passarci una sera, una giornata, a volte due, ma poi si stufava perché sapeva che non era abbastanza, e quindi entrava in un altro bar e ne trovava un’altra.
Nonostante il suo abbigliamento stravagante, nessuno lo aveva mai rifiutato, anzi era sempre stato ben voluto fin da subito soprattutto dalle persone con cui doveva concludere i suoi affari, grazie anche alla sua abile parlantina, e questo lo aveva sempre lusingato, dimostrandogli che le persone, per quanti pregiudizi potessero avere, erano in grado di andare oltre. Così, in un modo o nell’altro, Federico non aveva mai tempo per stare da solo con i suoi pensieri, per pensare a qualcosa che non fosse il lavoro o come intrattenere una giovane donna.
Federico, a dispetto della sua estesa rubrica che portava nomi sparsi in tutto lo stato e, a volte, anche fuori da esso, non aveva affatto molti amici o legami così forti. Erano tutti labili, scremati dal tempo passato che lo aveva portato lontano e distante, chiudendolo in un manto di mistero a cui nessuno sapeva rispondere, nemmeno i colleghi con cui aveva lavorato di più.
Federico nemmeno se lo ricordava, un prima, in cui non era stato così: così instabile, eccentrico nel vestire, disinvolto nel parlare di tutto tranne che di se stesso. Col passare del tempo aveva confuso l’immagine che vedeva allo specchio con quello che era, era arrivato a pensare che era davvero così che voleva essere, che non voleva fare altro che esprimersi in quel modo.
Federico non si fermava mai, e quando voleva una cosa, se la prendeva. Era andata così quando, già a quattordici anni, si era impuntato su un particolare motorino, e dopo molte insistenze era ciò che aveva ottenuto. Era andata così anche quando aveva intrapreso quel lavoro, che lo portava a girare sempre con la valigia in mano, valigia che spesso e volentieri cambiava contenuto, ogni volta che trovava qualcosa che catturava la sua attenzione in una particolare vetrina. Era andata così anche quando si era portato a letto una ragazza sconosciuta, la prima da quando aveva iniziato a lavorare, la prima di una grande lista di donne a cui aveva fatto tante promesse, che non aveva mantenuto.
Perché si, Federico era un gran bugiardo. Mentiva sul lavoro, con gli uomini d’affari tutti vestiti eleganti che si trovava di fronte, mentre lui sprezzante e irriverente magari si presentava con un paio di baffi finti e una camicia hawaiana. Mentiva alle donne che conosceva in ogni città, promettendo di chiamarle, di tornare, della possibilità di un futuro insieme, mentre poi spariva con un sorriso beffardo senza lasciare di sé nemmeno un ricordo. Mentiva a quel paio di amici che gli erano rimasti, che ogni tanto, testardi, ancora lo cercavano, promettendo di tornare presto per uscire a farsi una birra, appena quel periodo stressante sul lavoro sarebbe finito, sì, sarebbe tornato a casa, e sarebbero usciti. Col tempo, poi, erano sempre meno quelli che tornavano a cercarlo, e sempre più di rado. In ultimo, mentiva a sua madre, dicendole che sarebbe tornato presto e che, soprattutto, stava bene.
E ora, Federico, che aveva quasi ventisei anni, un futuro che gli appariva radioso sul campo lavorativo, un ottimo ingaggio da bugiardo a tempo perso, una fossa che si scavava sempre più profonda ai suoi piedi, sbuffava imperterrito girando a vuoto nel suo appartamento pieno di cianfrusaglie provenienti da ogni città che aveva visto.
Non era tornato per piacere, anzi, ma aveva ricevuto degli elogi e il capo gli aveva dato un paio di settimane di ferie. Aveva cercato di rifiutarle, ma il capo aveva insistito e si era ritrovato in quell’appartamento così pieno e vuoto allo stesso tempo che gli faceva venire la nausea.
Non aveva detto a nessuno che era tornato, nemmeno a sua madre che avrebbe tanto voluto vederlo, nemmeno a quel paio di amici che ogni tanto ancora lo pensavano, infatti si era prenotato un volo, deciso a passare un po’ di tempo a Londra, capitale che non aveva mai visto.
Federico aveva smesso di credere nei legami molto tempo fa. Non era mai stato capace di instaurare un rapporto con i suoi coetanei, e forse era proprio questo che gli permetteva di mentire così abilmente a tutti in modo ingiustificato e di non sentirsi affatto in colpa. O forse un tempo lo era stato, solo che adesso non lo ricordava più. Gli sembrava di essere sempre stato così, anche se era certo che, un prima, c’era stato. Federico credeva solo in se stesso e nella sua forza di volontà, che sapeva l’avrebbe portato ovunque avesse voluto.
I legami sono per le persone deboli e fragili, si ripeteva, guardando con disprezzo le famiglie che incontrava nei ristoranti, e cercando sui volti di ogni persona una falsità così ben costruita che permetteva loro di recitare quelle farse. L’amore, l’amicizia.. La gente li aveva creati per sentirsi più al sicuro. Era certo che chiunque avesse un prezzo, che tutto si potesse comprare e che la fedeltà venisse venduta al miglior acquirente.
E chi sembrava perso in quel vano sentimento altro non era che un ottimo attore. Un attore migliore di lui, che in realtà mentiva per rifuggire la compagnia di persone che non voleva e che non sopportava.
Adorava cambiare città per poter conoscere il rumore nuovo e assordante che faceva di giorno e di notte. Non sognava nient’altro che stare in mezzo alla confusione del traffico, o in un negozio molto affollato, o in un bar dove una band suonava a tutto volume.

In realtà, Federico, quasi ventisei anni, un armadio pieno di cose strane e che magari nemmeno si potevano vedere, odiava se stesso e la sua immagine. Aveva cambiato look così tanto in quegli ultimi anni che aveva attraversato probabilmente tutti gli ultimi cinquant’anni di moda maschile. Si era rasato, tinto, vestito, svestito, strappato tessuti, convincendosi sempre allo specchio di essere la persona giusta, quando in realtà ogni volta cercava di coprire la sua faccia, di nasconderla. Voleva che gli altri notassero i suoi vestiti, e non il suo volto. Che la gente vedesse quella persona costruita, e non quello che era davvero, non i suoi occhi bui e persi. Continuava a cambiare città, fuggendo da se stesso, senza trovare pace e un attimo di silenzio.
Nella sua testa ingarbugliata si affollavano così tanti pensieri a cui non riusciva e non voleva dare voce. Dormiva poco e ogni notte si rigirava nel letto una miriade di volte, prima di addormentarsi. Stava bene, continuava a ripetersi. Però ora, guardandosi allo specchio, riconosceva che quello non era Federico, ma era qualcuno che aveva preso il sopravvento. Ed era una persona vuota, meschina e bugiarda. E con un sospiro si era accorto che quella persona, ora come non mai, si era confusa con lui quanto lui aveva voluto ma non abbastanza da soffocarlo del tutto, prima di accorgersi che non era questo che voleva.
Federico, quasi ventisei anni, un lavoro che gli rendeva bene e una vita che non sentiva sua, non sapeva più dove andarsi a cercare. Si era perso da così tanto tempo che tutto quel girare lo aveva solo fatto confondere ancora di più.
C’era una cosa, che Federico, quello vecchio, quello vero, adorava forse più di qualsiasi altra cosa. Il gelato. D’estate o d’inverno non aveva importanza. E poi adorava i film Disney, quelli che commuovono sempre, che ti fanno tornare bambino. E le sere d’estate, quelle in campagna, dove senti i grilli cantare forte in tutto quel silenzio.
Federico forse non sapeva più dove trovarsi, però, per una volta in vita sua, non gli importò di che ore fossero: voleva solo perdere tempo.

 

 

 

Questa storia inizia un mercoledì di febbraio. Un mercoledì noioso e troppo lungo per essere ricordato.
Angela aveva passato la giornata a leggere, anche se in realtà avrebbe dovuto studiare. Era ormai sceso il buio, quando si era alzata e aveva dato uno sguardo fuori dalla finestra. Si era dovuta concentrare, per esserne sicura. Lenta, piccola, ma aveva iniziato a scendere. La neve, finalmente, era arrivata anche in quella città.
Erano infatti ormai un paio di giorni che la neve aveva iniziato ad imbiancare gran parte delle zone limitrofe, ma lei non l’aveva ancora vista. Aprì la porta finestra e uscì in balcone, assaporando l’aria gelida. Era felice. Rimase lì cinque minuti buoni, lasciando ghiacciare piano piano il naso e i piedi scalzi, per poi rientrare.
Si vestì in fretta e furia – pantofolaia com’era, era in pigiama dalla mattina – e uscì dalla sua stanza.
Non sapeva perché, ma si era decisa a fare una passeggiata sotto la neve.
Si lasciava guidare dall’istinto, dalla neve che scendeva sempre più fitta, dal sorriso che aleggiava sul suo volto e dalle mani che si allungavano per cercare di afferrarla.
Non le importava del naso che le si stava congelando, nemmeno dei pochi passanti che la guardavano male, ancor meno delle auto che, ferme, la facevano attraversare. E a lei veniva voglia di danzare, saltellare, come se fosse di nuovo bambina.
La neve le era sempre piaciuta, le era sempre sembrata così affascinante e magica, misteriosa e dolce allo stesso tempo. Le sembrava un abbraccio del cielo, per come cadeva lenta e si posava delicata a terra. Silenziosa, non voleva quasi far del male a nessuno. Non voleva disturbare, pronta a sciogliersi e sparire in men che non si dica.
Arrivò in un parco e prese a camminare sul terreno imbiancato. Ad un certo punto si fermò, alzando la testa ed osservando il cielo.
-Ecco, tra un po’ fioriranno le viole.- sussurrò allegra. Non vedeva quasi niente, solo fiocchi cadere e un manto grigio che la sovrastava. Fu allora che le sembrò di notare un bagliore, tenue, e le sue gambe si mossero da sole. Il naso all’insù, le braccia leggermente sollevate. Non sapeva dove stava andando, si muoveva incerta, quando all’improvviso inciampò in qualcosa. Qualcosa che, inaspettatamente, si lamentò con voce umana.
Angela, mezza distesa sulla neve, individuò la figura che si stava massaggiando la spalla. Era un uomo, un uomo giovane e che sembrava anche bello, non fosse stato per la berretta viola, la sciarpa rossa, il bomber multicolore e le scarpe blu elettriche. Ah, e i pantaloni verde pisello, ovviamente. In silenzio, si domandava dove avesse la testa per non aver notato prima una persona tanto appariscente, per poi tornare di colpo a fissare il cielo: ma qualsiasi cosa avesse visto, ormai l’aveva persa.
Tornò quindi a concentrarsi sull’uomo davanti a lei, che la guardava con un’aria confusa.
-Beh?- disse infatti Federico, stupito dal suo silenzio. Sapeva di essere bello, sapeva di essere vestito in un modo assurdo, ma non ricordava di essere stato capace di aver zittito una ragazza.
-Ah, si, scusami, scusami, ma non ti avevo visto.- esclamò tutto d’un fiato Angela, le guance rosse per il freddo e l’imbarazzo. Tornò in silenzio, ma non si mosse. Non riusciva a non guardalo, c’era qualcosa di strano in lui, e non riusciva a capirlo. Strinse gli occhi per concentrarsi ma nulla, non riusciva ad inquadrarlo. Quindi, usò la fantasia.
Lo immaginò artista, un artista maledetto, che suonava il sax e scriveva poesie per il suo amore finito. Il suo dolore non era più capace di fargli vedere il mondo a colori, per questo non sapeva più abbinare i suoi vestiti, non gli importava più quello che potevano pensare gli altri. Viveva in un film in bianco e nero, e tutto sembrava non avere fine, come se la pellicola si fosse inceppata. Non trovava una via d’uscita e quel dolore soffocante lo stava lacerando. Sì, sarebbe stato un ottimo soggetto per un libro, pensava, chiedendosi quale sarebbe potuto essere il volto della sua lei.
-Ti sei incantata?- chiese stupito. Quella ragazza lo stava guardando fisso già da un po’, come se lo stesse studiando, o come se stesse cercando di riconoscerlo. Ma non l’aveva mai vista, ne era sicuro. –Non si siamo mai incontrati, giusto?- continuò, per destare la sua attenzione.
-Oh.. no, no. Non ci conosciamo.- sussurrò lei alzandosi in piedi, togliendo la neve dai pantaloni. -Scusa per prima, ma stavo guardando il cielo e.. beh, non sapevo dove stavo andando.- sorrise imbarazzata, scostando i capelli dal viso, che si erano gonfiati per la forte umidità nell’aria anche se stavano sotto il cappuccio.
Federico alzò le spalle, tornando a riprendere la vaschetta che aveva poggiato a terra. Dentro, oltre ad un cucchiaino, del gelato faceva la sua bella figura.
-Stai.. Stai mangiando del gelato?- chiese stupita la ragazza. Il suo dolore dev’essere proprio tanto, se si affoga nel gelato fuori al freddo gelido, pensava sconcertata.
-Sì.- rispose semplicemente, prima di inghiottire. La ragazza rimase in silenzio, in piedi, a guardarlo, mentre la neve scendeva. –Era.. era un po’ che non lo mangiavo. E.. non so, mi è venuta voglia di mangiarlo qui.- aggiunse, imbarazzato dal suo silenzio. Non sapeva perché la metteva in soggezione. O forse perché era la prima volta, dopo anni, che diceva qualcosa di così personale ad una sconosciuta.
Angela rimase in silenzio. In quell’istante pensava così tante cose che non riusciva a formulare un pensiero completo e nemmeno qualcosa di sensato da dire. Non voleva restare e disturbarlo ulteriormente, ma non voleva nemmeno andare via. Rimase, semplicemente, in piedi. A guardarlo, circondato dalla neve che scendeva lenta, non più così fitta. Incuriosita forse da come si mostrava, sicura che non fosse solo quello, che quel giovane fosse molto di più.
Anche Federico pensava. Tutto quel silenzio gli metteva agitazione perché gli riusciva di parlare solo con se stesso, e non era sicuro di volerlo. Pensava di voler stare un po’ da solo, ma forse non aveva ancora il coraggio di affrontarsi. Sentiva la ragazza vicina a lui e credeva di essere così vulnerabile, ai suoi occhi, come se avesse potuto capirlo semplicemente con uno sguardo. E non voleva sapere cosa avrebbe visto.
-Dì qualcosa, ti prego.- sussurrò. Angela sobbalzò, a sentire quella richiesta in tutto quel candore muto e silenzioso. Allungò il palmo aperto verso l'alto cercando di afferrare i fiocchi di neve, la testa improvvisamente vuota per l’attenzione che lui le aveva appena rivolto. La stava guardando e lo sapeva, così disse la prima cosa che le venne in mente.
-Tra un po’ fioriranno le viole.- affermò convinta, mentre un sorriso si allargò sul suo volto.
-Eh?- domandò l’altro, senza capire.
-Sì, le viole. Quei fiorellini piccoli piccoli e tanto profumati, che spuntano presto, quando c’è ancora freddo. E’ il segnale che la primavera è alle porte, e per quanto mi piaccia la neve, io adoro molto di più il caldo.- e sorrise, tornando a guardarlo.
Il giovane annuì, tornando a concentrarsi sul gelato.
-E a te piace la neve?- cercò allora di continuare la conversazione, Angela, mentre smuoveva un po’ di neve con la scarpa.
Federico scosse la testa, piano.
-No, preferisco le sere d’estate, quelle afose. Quelle dove i grilli cantano per tutta la notte, facendoti compagnia. Non ti senti solo anche in mezzo al nulla della campagna.-
Angela sorrise, veniva da un paesino e sapeva voleva dire. Sospirò, mentre si accorgeva che aveva smesso di nevicare. Tutta la magia, e quelle poche parole che si erano scambiati, sembravano scomparsi sotto quel manto bianco e freddo. Non sapeva perché aveva parlato così, e nemmeno Federico sapeva spiegarselo, ma si ripromise di non esporsi più in tal modo. Smise quindi di parlare, tornando a concentrarsi sul gelato.
-Beh, ora.. devo andare.- disse soltanto Angela, con un sorriso pacato sul viso. –Buon.. Buon gelato.- e si voltò, riprendendo a camminare.

 

 

 

Angela, da allora, ripensò spesso al ragazzo del gelato vestito in modo strano. Lo raccontò anche alla sua migliore amica, e al ragazzo con cui si vedeva, sentendosi strana ed euforica, come se quella piccola conversazione fosse stata in realtà una magica avventura. Non sapeva spiegarselo, forse era stata una coincidenza, forse era stata la magia della neve, però il loro incontro si andò a chiudere in un angolo della sua mente dove lavorava la sua fantasia, e la notte, prima di addormentarsi, prese a fantasticare sulla vita di quel giovane, su quello che stava facendo, e su tutte le varianti del loro incontro.
Tornò poi alla solita routine di tutti i giorni, nella solita monotonia di tutti i giorni. Tutto le appariva così scialbo e grigio, almeno fino al giovedì. Ma anche le serate con gli amici stavano diventando monotone, e lei voleva di più, decisamente qualcosa di più. Ma continuava a non sapere cosa cercare, quindi si accontentava delle risate contagiose e di quel calore che la faceva sentire sempre a casa.

 

Federico, da parte sua, non ripensò più a quella ragazza delle viole. Quella sera, per un istante, aveva creduto di poter cambiare, di poter tornare come un tempo, ma, si era detto, probabilmente era stato il gelato e la neve, che gli avevano fatto un brutto scherzo.
Tornò alla sua vita di sempre. Partì per Londra, dove il rumore della City lo confuse e lo stordì, facendolo sentire vivo e completo. A Camdem Town rifece parte del suo guardaroba, avvicinandosi ad uno stile più dark e metal, nonostante di quel tipo di musica non se ne intendesse granché.
Sua madre, intanto, lo chiamava spesso per sapere dove fosse, ma lui glissava sempre le sue telefonate in modo frettoloso e poco esaustivo, riempiendo le sue giornate di voci sconosciute e le sue notti di ragazze giovani.
Non era più tornato a tormentarsi allo specchio, cercando di guardarsi sempre il meno possibile.

 

 

 

Passarono un paio di mesi durante i quali la vita di entrambi continuò esattamente come si erano aspettati, e come avevano programmato.
Angela non sapeva se era la strada giusta, ma non si fermava e, anzi, cominciava a credere che non ci fossero alternative. La sua storia con quel ragazzo sembrava durare, ma c’era sempre qualcosa, che non sapeva spiegarsi, che mancava, forse, e non sapeva cosa. Guardava intanto altri amarsi e si chiedeva se un giorno sarebbe toccato anche a lei, quella fortuna, di sentirsi viva, di amare davvero e sentire cosa si prova. Oppure forse era solo un inganno, quelle persone così felici forse mentivano, in primo luogo a se stessi, per convincersi ad essere felici.
Federico intanto aveva smesso di guardarsi negli occhi. Era ormai più di un mese che non tornava in città, quando vi fece ritorno in fretta e furia. Sua madre aveva avuto un infarto e, nonostante l’avesse sempre tenuta distante, l’affetto per lei era genuino, così si costrinse a tornare. Le avrebbe dato una mano per riprendersi e poi sarebbe ripartito, in fretta.

 

 

 

Si incontrarono di nuovo, per caso, ai primi di aprile.
Angela era distesa sul prato, ad accogliere i primi raggi caldi del sole, mentre leggeva un libro. Lui le passò accanto, senza nemmeno vederla, ma lei se ne accorse subito: non aveva di certo dimenticato quelle scarpe blu elettriche. Spinta dall’istinto, si alzò e lo raggiunse di corsa, sfiorandogli una spalla con la mano. Federico si girò e la guardò con sorpresa, all’inizio senza riconoscerla.
-Ehi, tu sei quello che mangia il gelato sotto la neve!- esclamò Angela divertita. Federico rimase per un attimo interdetto, poi parve illuminarsi.
-Oh, sei tu!- esclamò, riconoscendola. Rimase per un attimo a guardarla. Ora, senza tutti gli strati di vestiti addosso, sembrava molto più carina e giovane della prima volta che l’aveva vista.
Angela invece aveva notato il cambio di look del giovane, che era passato ai colori dark: di sicuro stava affrontando una nuova fase della sua depressione, e tutto quel nero riusciva solo a metterle in testa l’idea che il ragazzo, nel suo libro, distrutto dall’amore non corrisposto, fosse pronto ad uccidersi. Sì, romantico, tragico e teatrale, quel ruolo gli calzava alla perfezione.
-Beh.. volevi qualcosa?- chiese lui, un po’ scocciato. Era uscito perché sua madre gli aveva chiesto di andare al supermercato, ma non aveva voglia di perdere tempo. Lui odiava perdere tempo.
-No, nulla. Salutarti. Ah si, e sapere se hai mangiato ancora il gelato sotto la neve, dopo quella sera.-
Federico abbassò lo sguardo. Dispiaciuto per il suo tono, ricordò come, quella sera, avesse risposto a quella ragazza in modo sincero e diretto. Forse era la prima a cui non aveva mentito. E la cosa, stranamente, non lo faceva sentire vulnerabile, ora, a distanza di tempo. Anzi, un moto dentro di lui gli diceva che avrebbe voluto, ancora, farle vedere qualcosa di sé che altri non avevano mai visto. Come se, mostrandosi un po’ più se stesso, riuscisse ad uscire almeno un po’ da quel buco che si era scavato. Si disse che, anche se avesse parlato un po’, non ci sarebbe stato nulla di male. Poi, sarebbe tornato alla solita routine.
Federico prese a camminare, fino a sedersi sull’erba. Spostò lo sguardo all’orizzonte, prima di parlare. Sapeva che lei era ancora lì.
-Ti senti mai sbagliata? Come se fossi nel film sbagliato e tu sapessi un’altra parte?- chiese, mentre distendeva le gambe giocherellando con un filo d’erba. Ad Angela sembrava tanto un bambino.
-Beh.. Sta a noi trovare il film giusto.. Non sempre lo è, anche se lo sembra. A volte dobbiamo sbagliare per accorgerci che non è la strada giusta.- rispose con filosofia, sedendosi poco distante da lui. Angela adorava parlare per metafore, le sembrava sempre di dire cose saggie in quel modo. Non si avvicinò troppo, benché fosse curiosa dall’atteggiamento del ragazzo. Era così distante e scostante, e, nonostante tutto quello che aveva immaginato, era sicura di non averci azzeccato per nulla. E ancora non era riuscita a guardarlo negli occhi.
Non sapeva perché aveva risposto a quella domanda in quel modo così vivo e naturale. In realtà, nemmeno lei credeva davvero in quello che diceva, però qualcosa dentro di sé le aveva detto che quelle erano le parole giuste.
-Eppure questa vita non è un film.. E se ti sembrasse che è troppo tardi? Che oramai ti sei messo un costume non tuo per così tanto tempo che ci hai fatto l’abitudine, e se lo togliessi non sapresti più cosa fare?- riprese, mentre le domande gli uscivano senza che lui le pensasse davvero. Si rendeva conto di pensare quelle cose solo quando ormai le aveva già dette ad alta voce. Era davvero lui, che stava parlando con quella sconosciuta? Come poteva fidarsi? Come mai si lasciava andare così? Non lo aveva mai fatto, eppure con lei sentiva il bisogno di parlare, di farsi vedere per quello che era davvero. Non la conosceva nemmeno, eppure il suo istinto agiva prima di tutti i suoi freni che si era imposto nel tempo.
-Beh.. Hai presente i cartoni Disney, no? Hanno insegnato a tutti a sognare e che esiste il lieto fine. E forse la favola non esiste nella realtà però.. Però una speranza c’è per tutti. Le cose possono sempre cambiare. Alla fine tutto va bene, e se non va bene, non è la fine. Deve pur esserci un happy ending per tutti, no?-
-Come fai a saperlo? E se non ci fosse? Se alcuni di noi fossero destinati ad essere infelici?-
Angela rimase in silenzio, ammirando quel ragazzo. Quel ragazzo che aveva il coraggio di esporre le proprie paure ad una sconosciuta. E lei, lei era così fifona che non sapeva nemmeno affrontare l’amore quando le si parava davanti, non sapeva coglierlo e viverlo perché aveva troppa paura. Diamine, tutti hanno paura. Siamo tutti esseri umani che sbagliano, ma si può sempre rimediare. L’aveva appena detto, no? E allora perché non ci provava?
Si alzò in piedi. Sicura.
-Non è possibile. Non siamo comparse. Siamo protagonisti. I protagonisti della nostra vita. Siamo noi a decidere.. Sono certa che qualsiasi cosa sia, tu  la possa cambiare. C’è sempre tempo. Non siamo ancora morti, no?- disse decisa. Decisa a cambiare, a fare qualcosa. A non accontentarsi.
Volse le spalle a Federico, convinta.

 

Angela, quel giorno, si era fatta una promessa. Tornò dal ragazzo con cui stava, lasciandolo. Aveva deciso di non accontentarsi. Aveva deciso che lei avrebbe avuto il suo lieto fine, e per ottenerlo non doveva smettere di cercare. Doveva lottare, voleva lottare. Voleva avere di più e l’avrebbe avuto. Avrebbe trovato l’amore perché sapeva che esisteva, da qualche parte. Perché sapeva che c’era qualcuno che ci credeva come lei, da qualche parte.
E non importava se vedeva i suoi amici lasciarsi e soffrire. Se vedeva matrimoni finire e tanto dolore. Le persone amano. Amano perché di sicuro provarci vince ogni paura, ogni difficoltà. Avrebbe amato, ci avrebbe provato. Si sarebbe ferita e poi si sarebbe rialzata, più forte, più decisa, più meticolosa a non arrendersi.
Aveva deciso di smettere di nascondersi ed era partita, alla ricerca di quel qualcosa che le mancava. Sapeva che l’avrebbe trovato. E sapeva che casa era sempre con lei. Nel suo cuore.

 

Per Federico fu più difficile.
Impiegò alcune settimane, ma tornò da sua madre, promettendosi di non mentirle più. E le disse la verità. Le disse che le voleva bene e che non stava bene, che dalla morte di papà non era più stato in grado di fermarsi a pensare un istante. Ma che ci avrebbe provato, ora.
Andò a trovare suo padre. Erano anni che non lo faceva, e gli chiese perdono per tutto quello che aveva fatto quando era ancora vivo. Gli disse che sarebbe cambiato, e che lui ne sarebbe stato orgoglioso.
Chiamò i suoi amici. Un paio risposero all’invito, altri declinarono l’offerta. Non contento, andò a bussare da tutti per sapere come stavano. Per vederli. Per dire loro che gli erano mancati e che gli dispiaceva.
Gettò tutti i suoi vestiti strani e si rifece il guardaroba. Un guardaroba normale.
Non da ultimo, lasciò il lavoro.
E partì. Non sapeva dove sarebbe andato. Sapeva solo che voleva ritrovarsi.
Seguì l’istinto, senza tener conto del tempo che passava. Semplicemente, non voleva più avere paura di guardarsi allo specchio.

 

 

 

Passarono anni, prima che queste due anime, che senza volerlo si erano avvicinate, sfiorate e aiutate a vicenda, si ritrovassero per caso, come un segno del destino.
Avvenne una sera di dicembre. Nevicava.
Entrambi si incontrarono in quel parco, come successe la prima volta.
Stavolta, nessuno dei due aveva dimenticato l’altro.
Si guardarono a lungo, in silenzio. Scrutandosi negli occhi, leggendosi nell’anima.
Angela indovinò il suo passato. E con un sorriso immaginò il suo radioso futuro.
Federico pensò che quella donna era stata importante, nella sua vita, tanto quanto sua madre. Lo aveva aiutato spontaneamente, senza chiedere nulla in cambio. Ma che non ne conosceva nemmeno il nome.
Si avvicinò, allungò una mano e si presentò.
-Federico. Mi piace mangiare il gelato, d’estate o d’inverno che sia.-
Angela sorrise, divertita. Era la terza volta che lo vedeva, eppure le sembrava di conoscerlo da sempre. Eppure le sembrava che lui la conoscesse da sempre.
Avevano parlato così poco eppure si erano mostrati così fragili l’uno all’altro. Così vulnerabili e spontanei.
C’era un filo sottile che li legava, un filo che li aveva aiutati entrambi a sbrogliare gli altri nodi.
Per questo, gli buttò le braccia al collo e lo abbracciò, ridendo.
Federico rimase un attimo spiazzato, ma poi, sorridendo, ricambiò l’abbraccio. Quella ragazza forse lo aveva conosciuto meglio di sua madre, e lo aveva aiutato a tornare se stesso semplicemente parlando delle viole.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note:

Mmmm. Okay. Allora, per prima cosa, sinceramente non ho idea di cosa ho scritto. E’ la mia prima storia originale, la prima cosa che scrivo tutto di mio e sinceramente non doveva andare così. Quando ho iniziato a scrivere, perché guidata dalla voglia di farlo, non avevo idea di dove sarei finita. Ma la mia testa lo sapeva, lo sentiva, che quei due poi alla fine sarebbero dovuti stare insieme.
Invece no, hanno fatto tutto da soli. Le mani sono scivolate sulla tastiera e, sinceramente, non ho avuto cuore di accorciare le presentazioni dei due personaggi, che mi sembrano troppo lunghe e forse pesanti ma che non riuscirei a vedere in altro modo. Hanno deciso loro. Hanno deciso loro di lasciare tutto così vago, sia nella loro vita, sia nei loro incontri. Tutto così labile, e anche e soprattutto la fine, così incerta. Io volevo farli finire insieme, ma poi, mentre scrivevo, una vocina mi diceva che era banale e scontato, e quindi il finale se lo sono scritto da soli. Così incerto e aperto all’immaginazione.
Io credo che, comunque, alla fine entrambi abbiano trovato la pace e l’Amore, quello in cui entrambi non credevano poi così  tanto.

E’ la mia prima storia originale. Sinceramente, non sono nemmeno sicura di cosa parla, però la posto lo stesso, perché Angela e Fede mi sono piaciuti fin da subito, da quando sono usciti dalla mia testa. Non me li aspettavo così, Fede soprattutto. Ma c’è molto di me in entrambi. Credo che sarebbero entrambi personaggi adatti ad una storia più lunga, magari una long, magari qualcosa che racconti di più, di entrambi. Ma non volevano esporsi di più, sono usciti così e temo potrei rovinarli, cercando di raccontare qualcos’altro.
Nonostante ciò, mi affido a voi. Al vostro parere, di cui ho decisamente bisogno, perché di sicuro avrei potuto fare meglio, o diversamente. Anche se ora la mia testa non riesce a pensare ad altro.

Grazie a tutti quelli che sono arrivati fin qui,

 
Smemo

  
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