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Autore: elleclaire    02/02/2012    1 recensioni
Si tratta di una breve storia senza capo nè coda, preferirei definirla una "descrizione di emozioni". Il protagonista è un semplice uomo, anonimo, alle prese con una situazione molto particolare: percorre senza meta e senza un perchè una strada affollata, ma dove si tratta esattamente? Che cosa vuole comunicargli questa cupa città senza nome che lo invita a porsi domande sulla sua esistenza? Ho scritto questa storia (se così può essere chiamata) perchè sempre più spesso mi chiedo quale sia la realtà e cosa invece sia finizione, ma inizio a pensare che la linea che le separa sia davvero più sottile di quanto crediamo.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Edifici. Asfalto. Pioggia. Molta pioggia.


Camminare per le strade di una città senza nome equivale a sognare qualcosa di cui non si ha mai avuto percezione. E’ come essere in un dipinto che non ti appartiene, che non hai neanche mai visto.


Lo sguardo basso, il colletto del cappotto alzato in un vano tentativo di schermarsi dalla pioggia, per essere come gli altri, per camminare come se tutto fosse normale. E’ normale non sapere dove ci si trovi? Era solo un uomo, eppure senza utilizzare alcuna abilità particolare si era ritrovato in una giungla di catrame e di persone che proseguono per la loro strada senza attenzione.


Faceva freddo, ma allo stesso tempo era come se niente e nessuno lo sfiorasse. Non conosceva i volti delle persone che gli passavano accanto, né il suo stesso nome. Era semplicemente. Esisteva. In quel momento e in quello spazio. Un nessuno. Un guscio.


Alzò lo sguardo per la prima volta da quando quella strana passeggiata era iniziata. Le persone continuavano a camminare senza fare caso a ciò che le circondava. Una bella donna gli passò accanto, pelle molto bianca, capelli molto neri. Nessuna reazione.


L’uomo si fermò al centro della strada. Si guardò intorno. La pioggia continuava a cadere, le persone a camminare. La strada sembrava infinita, così come i palazzi e le impalcature.


Sentirsi distante, lontano e ostile alla vita, quando si è fermi in un flusso di gente che non nota la tua presenza. La tua richiesta d’aiuto viene ignorata. Non c’è spazio per la confusione, né per riflessioni di alcun genere. Il tuo istinto ti suggerisce solo di continuare a camminare. Come gli altri d’altronde.


Un altro uomo, vecchio, con un abito nero, era fermo in piedi al centro del fiume di gente. Lo sguardo vacuo, ma al contempo carico di un’inquietante serenità. Il nessuno si avvicinò lentamente, lo osservò da vicino, perse molto tempo a contemplare la sua espressione prima di parlare.


-Dove mi trovo?-


Il vecchio non diede segni di aver udito e se anche l’avesse fatto non mostrò interesse a rispondere. Dopo minuti, stranamente simili a ore, si voltò verso il nessuno e fissò i suoi occhi pacati in quelli dell’uomo. La sua voce era roca e affaticata.


-Questa non è una domanda che necessita di una vera risposta-


-Non so come sono finito in questo posto. Non ho mai visto queste persone-


-E se anche ti dicessi dove ti trovi e chi è la gente che vedi
passare, questo cambierebbe ciò che sei? Chi sei? Questa è una domanda che necessita di risposta-


Il nessuno rimase in silenzio per qualche secondo. Era stordito. La pioggia faceva troppo rumore. Quando parlò di nuovo, la sua voce gli sembrò lontana dal corpo.


-Tutto questo non è reale-


Il vecchio sospirò, accennando un lieve sorriso, un sorriso stanco e sofferto.


-Tracciare una linea precisa tra ciò che è reale e ciò che non lo è può risultare molto complicato, giovane viaggiatore. Le persone odiano questo posto perché si trova esattamente su quella linea-


-Sono morto?-


-Vorresti che fosse così?-


Certo, essere morti sarebbe una spiegazione plausibile e in qualche strano modo rassicurante. Eppure, che significato può avere camminare, respirare, vedere e al contempo morire, cessare di esistere? Cos’è che tiene la minima distanza tra abisso e vita?


Il vecchio si asciugò la pioggia che solcava le rughe marcate del suo viso spento con un fazzoletto di lino e proseguì.


-Benvenuto, ragazzo. Benvenuto nel tuo limbo personale.
Rimarrai qui per molto tempo-


Il nessuno si guardò in giro. Le persone continuavano a camminare, erano delle ombre. Vide per la prima volta. Anche lui era un’ombra. Dopotutto, questo… era ovvio. Avrebbe dovuto pensarci prima. Certamente sarebbe rimasto lì per molto tempo. Una condizione di stallo. Di indecisione e inesistenza. O forse di irrisolutezza. A metà tra il vivere e il morire. Niente di reale, il vuoto e l’assenza.


Il nessuno si rivolse nuovamente al vecchio.


-Dovrei andare. Si sta facendo tardi-


-Tardi? Qui non esiste il tardi, né il presto. Esistono solo le domande a cui bisogna dare risposta e le questioni che bisogna chiarire-


-Perché?-


-Inizi a capire di che cosa parlo-


Il vecchio si voltò e si allontanò camminando lentamente dal ragazzo. Il nessuno rimase da solo. Provare solitudine in una folla di persone lo sconvolse a tal punto che dovette coprirsi gli occhi con le mani, spingendo le dita contro le tempie. La testa gli scoppiava. Presto anche lui sarebbe diventato come loro?


Un guscio. Vuoto e freddo.


Si sbottonò il cappotto e lo fece scivolare a terra. Fece lo stesso con la camicia e quando guardò verso il basso, per vedere le gocce di pioggia scivolargli sul petto, si accorse che nella parte sinistra del suo pallido torace, in corrispondenza del cuore, c’era un profondo buco.
  
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