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Autore: EdenGuns    02/02/2012    3 recensioni
Where do you think you're going?
Don't you know it's dark outside?
Where do you think you're going?
Don't you care about my pride?
Where do you think you're going?
I think that you don't know
You got no way of knowing
There's really no place you can go
.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Quasi tutti
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: nessuno
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1. You can't put your arms around a memory
 


Il respiro gli si era acquietato. Mi girai su un fianco, sfinita. Non ne potevo più. Cosa non si fa per arrancare in un mondo fatto di bugie, solo per non morire?
Puoi rifiutarti addirittura di pensare, con sgomento, a quello che potresti fare per non soccombere.

Eppure quando arrivi al limite ultimo, quello dopo il quale c'è solo la tomba, ti rendi conto che saresti disposta a portare avanti una vita da scarto umano anche solo per non dire addio al mondo.

Così sono finita a fare la puttana. Un eccesso dopo l'altro, uno sbaglio dopo l'altro. Dopo essermi fidata delle persone sbagliate.

Da piccola mi inculcavano la fede, la purezza, i valori.

Se mi avesse vista mia madre ne sarebbe morta di vergogna. Peccato che lo aveva già fatto.

Avevo circa dodici anni, sì. Mio padre morì l'anno dopo.

Infanzia felice la mia, devo dire: sbattuta in un orfanotrofio dove spacciavano cocaina manco fosse pane e violentavano le ragazzine troppo deboli.

Oh, ma io mi ero fatta la pellaccia bella dura.

Ecco la prima persona sbagliata di cui mi ero fidata: mio fratello.

Appena morti i nostri genitori, lui aveva diciotto anni; era un bucomane mica da ridere.

Ma io gli volevo così tanto bene da fidarmi ciecamente di lui.

Mai fidarsi di un drogato. Sopratutto quando si è la sua sorella carina, lui ha bisogno assoluto di una dose ed è senza il becco di un quattrino.

Mi vendeva per procurarsi un po' di crack.

Più che me stessa vendeva il mio corpo. Taceva sulla mia tenera età, anche perché io a tredici anni ne dimostravo sedici, e nessuno disdegnava una bella ragazza gratis. Persi l'innocenza decisamente presto.

Forse gli sarebbe dispiaciuto, o almeno la sua coscienza si sarebbe mossa, se fosse stato sobrio e non fatto per un lasso di tempo abbastanza lungo.

Era morto a vent'anni per overdose.

Ma io non piangevo dal lontano novembre 1979, e non avrei di certo pianto per il mio aguzzino.

Da quel momento però riuscii a liberarmi dai suoi peccati. O almeno così credevo.

Nessuno avrebbe più toccato il mio corpo se non fossi stata io a volerlo, me lo ero giurata.

E poi conobbi lui, Michael. Era una pertica di arruffo di capelli biondi tinti, con il viso dolce e la voce calda. Era più grande di me di circa due anni; il primo uomo di cui avevo solidi ricordi che non mi aveva mai fatto del male, in nessun modo.

Mi ero presa una bella sbandata per lui, ma Michael era troppo preso dalla musica, dai piaceri momentanei e veloci. Tra di noi c'era stato del sesso, ma le nostre menti erano troppo poco lucide al momento per rendersene conto.

E poi se n'era andato; aveva abbandonato Seattle. Avevo perso il conto di tutte le volte in cui mi aveva pregata di andare con lui, altrove. Diceva che ci saremmo divertiti, che avremmo trovato una casa dove dare feste e che non mi avrebbe mai più vista triste, non l'avrebbe permesso.

Troppo impaurita dal futuro, avevo declinato l'offerta. Si sarebbe stufato di me, lo sapevo. Non pretendevo nulla dagli altri, e il muro impenetrabile di indifferenza mi permetteva di non rimanerne delusa.

Lui poteva aver fatto una crepa lì dentro, sì. Ma la mia pellaccia era ancora perfettamente integra.

Mi ero allontanata da Michael velocemente, senza un apparente motivo.

Mi ricordavo ancora la sua macchina scassata fuori sul vialetto della catapecchia che condividevo con quella che sarebbe diventata la mia migliore amica. E poi, un giorno, non lo vidi più.

Se ne era andato. Non sapevo né dove né come. Sapevo solo che il mio Michael non c'era più, e non l'avrei mai rivisto. Di quello ne ero sicura.

Da quel giorno ero tornata alla vita di sempre. Poi avevo conosciuto un'altra persona sbagliata: Dave.

Mi aveva offerto un lavoro da barista, e dato che io e Jane andavamo avanti solo col suo misero stipendio di cassiera, decisi di accettare. Ben presto il bastardo però si era mostrato per quello che era realmente. Mi obbligava a prostituirmi per ricevere sporco denaro. Pagavano bene, per me. Mi dava una minima percentuale, che però ci permetteva di vivere con un certo contegno. Avevo provato a rifiutarmi, ma la pena era la vita di Jane, e sapevo che non scherzava. Avevo visto clienti che non avevano pagato il servizio picchiati brutalmente dai suoi energumeni e poi lasciati in fin di vita in vicoli sporchi.

Sapeva i miei tasti dolenti da toccare, come piegarmi al suo volere.

Jane sapeva della situazione, ma non poteva aiutarmi perché la minacciavano con la stessa moneta.

Nell'anno 1986, all'età di diciotto anni, ero già una donna vissuta. Ero andata a letto con decine di uomini diversi, uno meno importante dell'altro, ed ero drogata e alcolizzata.

Mi vestii, presi i contanti che il ragazzo mi porgeva e uscii dalla stanza del motel.

Il tizio alla hall mi salutò con un sorriso pieno di desiderio e un'occhiata piuttosto inopportuna.

Traballai sui tacchi fino all'uscita, con le gambe indolenzite. Appena aprii la porta un'ondata di gelido freddo di Seattle investì le mie carni stanche. Mi incamminai verso casa, con il nome del mio ultimo cliente che già volava lontano dalla mia mente nell'aria frizzante.

Una macchina di passaggio suonò il clacson in segno di apprezzamento, e io continuai a camminare, mentre iniziavo già a non sentire più le gambe, coperte solo dalle calze autoreggenti a rete.

Mi strinsi addosso il giubbettino di pelle nera che avevo rubato allo sconosciuto che avevo soddisfatto poco prima e proseguii per la mia strada.

A quell'ora di notte le strade erano praticamente deserte. Solo qualche spacciatore e drogato qua e là.

Dopo qualche fischio di apprezzamento e qualche isolato, arrivai alla catapecchia.

Frugai in mezzo alle foglie della pianta fuori dalla porta e presi la chiave. La infilai nella toppa e girai due volte verso sinistra; la serratura scattò.

Tolsi il chiodo e lo buttai sulla sedia nell'entrata. La mia immagine riflessa nel piccolo specchio sulla destra attirò la mia attenzione: lunghi capelli castani arruffati, viso solcato dai segni della mancanza di sonno, tristi occhi azzurri e labbra carnose massacrate dal lavoro più antico del mondo. Non provavo più neanche a sorridermi. Sarebbe stato tutto alquanto ipocrita.

Poi notai un bigliettino attaccato con lo scotch sulla superficie riflettente. Lo staccai senza tante cerimonie con un colpo secco, lasciando un residuo di colla poco estetico su di esso.

Turno extra, arrivo tardi. JJ

Lo infilai nella pattumiera accartocciandolo e andai in cucina.

Aprii il frigo semivuoto e presi il cartone di latte. Ne trangugiai un po' e lo rimisi a posto, chiudendo l'anta con poca cura. Non avevo ancora acceso una luce e la casa era avvolta nel buio.

Salii le scale sfinita, diretta nella camera che condividevamo. Mi spogliai e misi una maglietta dei Doors che mi copriva a malapena il culo. Mi infilai sotto le coperte e caddi tra le braccia di Morfeo in pochissimo tempo.

 

« Svegliati!»

Aprii gli occhi con fatica, mentre Jane mi scuoteva con forza.

« Ma che cazzo hai?» esclamai, sottraendomi alle sue mani gelate.

« C'è Dave, fuori. Ha detto che deve parlarti.»

« Di' di tornare ad un orario più decente, a quello stronzo.»

« Sono le due di pomeriggio» puntualizzò lei.

« Appunto.»

Imperterrita mi girai dall'altra parte, coprendomi la testa con la coperta.

Jane imprecò. « Vieni giù. Pronta tra dieci minuti, sennò lo faccio salire comunque. Non ho voglia di casini.»

Così detto uscì dalla stanza.

Conoscendola, decisi di eseguire gli ordini.

 

« Dolcezza, quante volte ti ho detto che quando ci sono io ti devi vestire in modo più adeguato?»

Scendendo le scale, il mio cervello aveva già tradotto quello che aveva appena sentito: “Puttanella, quante volte ti ho detto che quando ci sono io ti devi svestire in modo più adeguato?”

« Che vuoi?»

« Quanta ostilità! Vieni qui, fatti salutare.»

Mi prese per il braccio e tirò per avermi a pochi millimetri da sé. Mi diede un bacio sulla guancia, più falso di quello di Giuda, e mi invitò a sedermi sul mio divano.

« I soldi dei servizi di ieri?»

Glieli porsi prontamente.

Li contò salivando il dito per facilitare l'operazione e poi li divise in due parti per niente eque.

« Tieni, tesoro» disse, allungandomi la mazzetta più povera.

Infilai le banconote in tasca e accavallai le gambe, guardandolo interrogativa.

Non veniva mai di persona a ritirare i profitti.

« A cosa devo la tua visita?»

« Visita gradita spero, almeno.»

« Certo.» Non feci neanche finta di nascondere il mio pungente sarcasmo.

Che lui ignorò volutamente.

« Sei famosa, sai? Evidentemente i tuoi servizi piacciono parecchio e molti clienti ne hanno fatto pubblicità.»

Non sapevo se esserne più spaventata o lusingata.

« Fatto sta, che le richieste arrivano anche da città lontane. Richieste che potrebbero fruttare molto, sia a me che a te.»

Non capivo dove voleva arrivare.

« Ci trasferiamo, dolcezza.»

« Cosa?»

« A Los Angeles.»

« Ma di che diamine stai parlando? A momenti non abbiamo soldi per arrivare alla fine del mese!»

« Voi? Io non ho parlato di un voi. Andiamo io e te.»

Uno spiacevole brivido mi percorse la schiena.

« Non lascio Jane qui da sola» dissi, con la voce strozzata.

« Posso farle tenere compagnia da qualche mio amico.»

Un conato di vomito mi affogò le parole in gola. Mi ricordavo ancora nitidamente il primo incontro con i suoi amici.

« Perché non può venire con noi?»

« Non ne ricavo niente, sono solo spese in più a mio carico.»

Posò la grande mano sulla mia coscia.

« Troverà un lavoro» sussurrai cercando di mantenere il controllo di me stessa.

« Piccola» disse con tono paziente, come se stesse parlando con una bambina capricciosa « sai già come stanno le cose.»

Le sue dita iniziavano a fare su e giù sulla mia pelle bianca.

Avevo il cuore in gola, terrorizzata.

« La porto solo se diventa tua collega, e sai cosa intendo.»

« Ne parlerò con lei.»

Lui guardò l'orologio al suo polso.

« Torno stasera per una risposta.»

Si alzò ed io lo seguii alla porta.

« Lo sai che non accetto un no.»

Accompagnò le sue parole di minaccia a una carezza sul viso.

Bastardo, bastardo, bastardo.

« Ciao, piccola.»

Mi diede un altro bacio sulla guancia e se ne andò.

Rimasi a fissare a braccia incrociate la sua figura snella allontanarsi per il vialetto.

Avrei voluto essere un cecchino, per vederlo cadere sotto un mio colpo di fucile.

Lui e i suoi capelli biondi e riccioli sparirono dietro l'angolo prima che potessi tornare alla realtà.

Rientrai in casa e chiusi la porta.

E come facevo a dirglielo, adesso?

« Allora, cosa voleva la merda?»

Sobbalzai sentendola.

Era avvolta in un asciugamano, con i capelli neri bagnati e scompigliati sulle spalle minute.

« Vuole che mi trasferisca a Los Angeles.»

Lei strabuzzò gli occhi. « Cosa?»

« Hai capito bene. E non vuole farti venire. L'unico compromesso è che tu faccia servizietti con me.»

Lei rimase a bocca aperta.

Poi si ricompose, sistemandosi l'asciugamano sul seno.

« Va bene. Non ti lascio sola.»

« No, JJ. Non voglio immischiarti in questa storia.»

« Lo sono già da un bel pezzo.»

« No, davvero. Me la caverò.»

« Liz, ormai ho deciso.»

Il suo tono mi zittì.

Un conto è quando rovini la tua vita, ma vedere la tua migliore amica farlo su se stessa fa tutto un altro effetto.

« Troveremo una soluzione, te lo prometto.»

Mi abbracciò ed io affondai il viso nell'incavo della sua spalla.

« Non ne posso più.»

« Tranquilla tesoro, sfogati pure.»

Se non ci fosse lei.

Era sempre stata quella forte per entrambi, quella che ragionava prima di agire, quella seria e calcolata.

Non versai una lacrima, neanche a volerlo. Sembrava che la mia sacca lacrimale si fosse prosciugata da un pezzo.

Tenevo il dolore dentro, sempre e comunque.

Mi staccai, per parlarle.

« Stasera torna Dave per una risposta, puoi stare a casa?»

« Vado ora per licenziarmi e torno presto.»

Mi sorrise, poco convincente.

« Grazie, Jane.»

« Vado a cambiarmi. Te piuttosto vai a farti una doccia che puzzi.»

Rise mentre saliva le scale e io le tirai dietro un cuscino; lo schivò, facendomi la linguaccia.

E ora vediamo di affrontarlo in modo decente.

   
 
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