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Autore: luxuryloser    03/02/2012    2 recensioni
Jennifer Stevens, nata a Winchester il 23 settembre 1992,
residente a Londra, alta un metro e sessantacinque, capelli castani,
occhi nocciola, segni particolari: completa incapacità di amare.

Jenny, solo Jenny, una vita normale con una famiglia normale,
passatempi normali, amici normali.
E se l'unica cosa un po' fuori dal normale fosse lei?
50 momenti, collegati oppure no, incasinati come sempre;
l'inizio di una storia d'amore in 5 fasi,
cercando di non essere troppo clichettosa.
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nei film c’è sempre un ballo


Ok. Ce l'ho fatta. Finire una storia è complicato, per chi non se ne ritiene capace!
Allora, ecco a voi Jenny e Ben, nell'ultimo capitolo di Snaps.
Spero che questo parto della mia mente acuta e penetrante vi piaccia, almeno un po'. Io ho fatto del mio meglio.
Le recensioni sono come il gelato artigianale, con il biscotto di cialda. O, con questo tempo, come la cioccolata calda. E io sono golosa ;)

“Jenny, sii seria! Non puoi non partecipare al ballo dell’ultimo anno!” mi supplicò Charlotte per l’ennesima, esasperante volta, scuotendomi per le spalle, guardandomi con la faccia di Jack Nicholson in Shining.
“Potresti venire con mio cugino! Ha due anni meno di noi, ma…” Probabilmente i miei occhi stavano lanciando lampi, perché tutt’a un tratto la mia stanza tornò splendidamente silenziosa. Per un attimo.
Per favore!” gridarono all’unisono, un coretto di psicopatiche stonate.
Rischiammo di litigare, quel giorno, per la prima volta da sempre.
Finii per essere letteralmente trascinata, nella mia informe tuta di ciniglia, a spendere tutti i miei risparmi in abiti, scarpe, accessori.
Oxford Street non era mai sembrata così vuota, e così bella nello stesso momento.

 Smalto
 Trucco
 Scarpe
 Vestito
 Acconciatura
Cosa mancava? Non riuscivo proprio a ricordarmelo.
Ah, sì: qualcosa di totalmente irrilevante, superfluo per il ballo dell’ultimo anno di scuola, qualcosa di cui avrei certamente potuto fare a meno, troppo occupata a divertirmi come una matta. Quello che mancava era un cavaliere.
Per il semplice motivo che l’unico con cui avrei voluto ballare non era disponibile.

Salii sulla limousine che Charlie, Liz e Becky avevano noleggiato per la serata, e le mie tre migliori amiche mi guardarono salire a bordo, rischiando per la prima di molte volte di rompermi un tacco.
Più belle che mai, strette al braccio dei loro perfetti accompagnatori.
Imposi a me stessa di non provare alcun brivido di invidia. Calma e sangue freddo, Jennifer.
Provai parecchia invidia.
Il primo ragazzo a salutarmi fu Duncan, il capitano della squadra di Lacrosse, probabile futuro testimonial di Dolce e Gabbana: come Charlotte fosse riuscita a farlo innamorare di lei non mi era chiaro, e quella deliziosa vipera non voleva saperne di insegnarmi i trucchi del mestiere.
William, il bel tenebroso: nessuno, che io sapessi, era mai riuscito a decifrarlo completamente. Nemmeno Elizabeth avrebbe saputo intuire i suoi pensieri sotto quei capelli neri leggermente lunghi, ma era questa la parte più intrigante, più coinvolgente del suo fascino.
Ultimo ma assolutamente non meno importante, Chace, che aveva l’età di Ben: un chitarrista e cantante spettacolare, dall’aria ingannevolmente angelica. Mi ero comportata da perfetta ninfa di Cupido, con lui e Rebecca, e la mia incasinatissima compagna di banco non aveva ancora finito di ringraziarmi. Quando una ci sa fare…
Erano tutti e tre impeccabili nei loro smoking costati una fortuna, i capelli pettinati per una volta, sorrisi pubblicitari a illuminare i volti rapiti delle tre Desperadas. Che c’è, erano lì apposta per ricordarmi che ero sola come un cane e che il mio accompagnatore sarebbe stato il bicchiere di contrabbandata Vodka lemon?

Mi sembrava di essere l’unico dettaglio in bianco e nero di una fotografia a colori brillanti.
C’era qualcosa che stava succhiando la mia anima come le mie labbra succhiavano il cubetto di ghiaccio raccattato da in fondo al bicchiere vuoto, ed era sempre più vicino a consumarmi completamente.
Era da settimane, settimane!, che sembrava che io e Ben non vivessimo nemmeno sullo stesso Pianeta, figuriamoci a due case di distanza.
Avrei rinunciato a tutto: ogni film mentale girato su di noi, ogni fantasticheria ormonale, ogni mezza frase ammiccante buttata lì per caso. Avrei anche cercato di accantonare l’amore, quell’amore non corrisposto che logora.
Avrei fatto qualsiasi cosa pur di riavere il mio migliore amico.

Adolescente dal cuore spezzato, non vedevo altro che enfasi del mio dolore. Cos’era la fame nel mondo, la lotta per i diritti dei gay, la guerra in Iran, se confrontata con la ragazza in abito rosa scuro appoggiata alla parete, che cercava con tutte le sue forze di confondercisi?
Coppiette, messaggeri del Diavolo, entità maligne atte a gettare fango sulle pozzanghere: perfino gli insegnanti ballavano, a distanza di sicurezza dagli studenti brilli, con le loro dolci metà. Quella nevrotica della Morrey aveva una vita amorosa più interessante della mia, pensai, illudendomi di avere qualcosa di lontanamente paragonabile a una vita amorosa.

Non si sarebbe fermata la musica commerciale che riempiva il locale, Ben non sarebbe entrato, illuminato da un occhio di bue, per farmi una dichiarazione d’amore al microfono, l’intero corpo studentesco non sarebbe scoppiato in applausi da concerto dei Coldplay.
La mia cavolo di vita non era un film, realizzai finalmente. Semplicemente, avevo sempre sperato che avesse qualche caratteristica a caso, per esempio il lieto fine.

Era sicuramente colpa dell’ottava (o giù di lì) tazza di Punch corretto se vedevo le pareti traballare leggermente mentre ballavo con uno sconosciuto, cavaliere di un’altra ragazza; colpa dei superalcolici che Liz mi aveva ripetutamente convinta a bere se credevo che Ben si stesse avvicinando attraverso la sala affollata, splendido come sempre e come non mai; sicuramente un’allucinazione uditiva causata dal rumore troppo alto il sentire la sua voce urlare qualcosa di indefinito.
Era sicuramente un’illusione anche sentire la sua mano afferrarmi il polso, trascinandomi senza troppa grazia chissà dove.
Non avevamo mai litigato, in tutti gli anni che avevamo passato insieme.
Né quando lui spariva per giorni, per sesso o per lavoro, né quando io facevo la stronza in sindrome premestruale. Non ci eravamo urlati contro per Jessica, per la mia stupida gelosia. Non avevamo discusso per quel bacio, non essendoci nemmeno più incontrati per caso.
Ora stava venendo fuori tutto, in quella stanzetta a portata delle orecchie di chiunque: scaricandoci la colpa a vicenda, alzando la voce, trattenendo le lacrime di rabbia e di qualcosa di inspiegabile, senza risolvere nulla.
“Che ci fai qui?” incrociai le braccia, la domanda che più mi premeva in quel momento finalmente sputata fuori, con tono acido, guardandolo esattamente come il padre non guardò il Figliol Prodigo.
“Dovevo parlarti.” La foga di pochi istanti prima non c’era più, ma nemmeno l’entusiasmo del resto della sua vita. Sembrava vuoto, come me. “Di cosa?”
“Lo sai.” Certo che lo sapevo. Quello di cui non avevo idea era il modo di affrontare quel discorso, visto che l’essermi innamorata di lui sembrava aver sgretolato tutta la nostra amicizia.

Non ero ubriaca, e non stavo certamente urlando i miei sentimenti per Ben a una platea di studenti cretini e strafatti.
Non lo stavo facendo.
Vero?
Charlotte non si era staccata dalle labbra di Duncan Philips, a cui sembrava attaccata con la supercolla, per guardarmi in stato di shock.
Oppure sì?
“E sono stata un’idiota a non capirlo prima, a non dirtelo tutte le volte che ne ho avuto l’occasione, a non essere il tipo di ragazza che tu potresti ri-amare. E vaffanculo il fatto che non mi ami, e vaffanculo l’aver perso il mio migliore amico, e vaffanculo i discorsi di senso compiuto!”
Non badai alla reazione dei miei insignificanti compagni, non cercai nemmeno lo sguardo di Ben per capire cosa stesse pensando di me, di quanto fossi stata brava a distruggere la mia stessa vita di fronte a tutti.
Corsi via sui tacchi da vertigine, senza cadere per chissà quale miracolo e, che Dio si fosse finalmente accorto di avere una figlia un po’ troppo sfigata?, salii su un provvidenziale taxi, dirigendomi a casa per non uscirne mai più.

Non riuscii nemmeno a trovare le chiavi di casa sul fondo della minuscola pochette paillettata: mi lasciai solo cadere inerme sulle scale davanti alla porta, calciando via le scarpe e sciogliendo l’intricata acconciatura, già andata completamente a puttane da tempo.
Lo facevo spesso, piangere, ultimamente. Che cosa sciocca, infantile, avvilente.
Ma erano lacrime nel bel mezzo della notte, lacrime dolciastre di vodka e succo di non so più cosa, lacrime fatte di cuore più che d’acqua: cadevano loro e cadevo io, inesorabilmente.
Quel vestito, capolavoro di alta sartoria, avrei voluto strapparlo: non potevo essere io l’unica cosa a brandelli.
Tutto era Ben, e che cosa ci facesse al ballo della mia scuola non m’importava. L’avevo perso, era venuto a dirmi quello, e non l’avevo lasciato parlare, per sentirmi meno male.
Jenny, Jenny, Jenny.
I ricordi mi usavano da puntaspilli, e ogni sillaba detta dalla sua voce pungeva sempre un po’ di più; e se l’amore era cieco era anche folle, e senza senso dell’umorismo, io ero mille volte peggio di lui.
Jenny, Jenny…
“Jenny.”

Cosa mi fosse passato per la mente in quei mesi, non l’ho mai capito: ero di colpo diventata una bambina, capricciosa e totalmente folle, insopportabile.
Chissà, forse era colpa dell’amore, o di Ben, ma la persona che accuso per tutte le mie stronzate è una sola: me stessa.
Nel nome dell’amicizia ero andata in giro per anni con le bende sugli occhi, senza vedere nulla, senza vedere Ben come ho poi imparato a mie spese a fare; nel nome dell’amore, rischiavo di perdere ogni cosa.
Dicono che il sesso cambi le cose, ma è l’amore il lato complicato della faccenda.
Quei “ti amo” urlati sotto una pioggia di lacrime, però, furono la cosa più semplice del mondo.


  
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