Con affetto,
II.
Perfetto, ed
ora che faccio? Sto rimuginando da due
giorni, sempre sulla stessa cosa. Sapete quant’è
stancante pensare per circa 48
ore ad un unico pensiero? Be’, il mio cervello, praticamente,
è in declino. Ed
è un guaio, perché senza non so proprio come
fare.
Non ho detto
a nessuno di avere il numero di Ben Barnes,
nemmeno a Grace, la mia migliore amica. So già cosa mi
direbbe, nel caso lo
venisse a sapere. Il vero problema, in effetti, è che non
sono tanto sicura di
volerlo sentire.
Sono passati
due giorni, da quando ho letto il biglietto:
e se fosse uno scherzo di cattivo gusto? Insomma, continuo a ritenere
piuttosto
improbabile che Ben Barnes – non so se ci capiamo –
mi abbia lasciato il suo
numero di telefono.
La
verità? Il problema non è tanto che lui sia Ben
Barnes.
Cioè, lo è, ma non è quello a
preoccuparmi. Ciò che mi turba, in realtà,
è che
lui ha trent’anni ed è un uomo. Io, invece, sono
una ragazzina alle prime
esperienze, se vogliamo mettere le nostre situazioni a confronto.
Però
– si, c’è anche un però
– mi ha piacevolmente colpito e rivederlo non sarebbe una
gran
tragedia, no?
Mi butto sul
letto, un po’ esasperata. Che fare?
Le
alternative sono tre: non lo chiamo, lo chiamo, gli
mando un messaggio.
Dopo
un’altra ora di intenso ragionamento, decido: gli
mando un messaggio, perché non avrei il coraggio di parlarci
al telefono.
Lo so, lo so,
è una cosa da bambini di tre anni, ma sono
fatta così. L’idea di uscire con un uomo mi mette
in agitazione, perché
l’ultima esperienza che ho avuto, credo potrebbe bastarmi per
tutta la vita.
E va bene,
ora glielo mando.
Ma cosa gli
scrivo? Cioè, non posso esordire con un “Ehilà, Ben. Ti ricordi di me? Io ti ho
dato
del pedofilo e tu mi hai lascito il tuo numero. Quando usciamo?”,
non so se
mi spiego.
Rifletti,
Morgan, rifletti.
Afferro il
telefono, e inizio a digitare un abbozzo di messaggio,
ma dopo le prime tre parole – ciao,
sono
Morgan – cancello e mi arrendo. Che poi, in
effetti, se lo chiamassi
sarebbe tutto più semplice. No, no, non ce la faccio.
Trascorro il
resto della giornata parecchio nervosa e,
dopo aver litigato con Ellie e con Brian – il fratello
maggiore – me ne vado a
letto.
Non
è possibile che l’idea di Ben mi mandi
così in
agitazione, dico davvero. Così, decido definitivamente:
domani mattina gli
mando il messaggio e fine della storia. Dopotutto, non è
detto che voglia
ancora uscire con me. Magari il biglietto era solo una cortesia. No?
È
mattino, adesso, ed io sono a letto, con il telefono
stretto nella mano destra.
Alla fine,
ieri sera, ho trovato il coraggio di dire tutto
quanto a Grace. Come avevo previsto la sua risposta è stata
piuttosto ovvia: “Se non lo chiami”,
ha detto “ti rubo il biglietto e
faccio finta di
essere te. Vedrai che ti combino”. L’ho
trovata molto convincente, quindi
mi sono decisa.
Digito
frettolosamente, prima che la paranoia torni. In
meno di un minuto, il messaggio è inviato. Tiro un respiro
profondo, ora più
sollevata. Resta solo da vedere se lui risponderà, cosa di
cui un po’ dubito.
Una volta
tolto il pensiero, è stato più semplice
trascorrere la giornata in maniera normale. Non penso neanche al fatto
che Ben
non ha risposto, perché me lo immaginavo, che sarebbe andata
così.
Quando il
telefono inizia a suonare, ormai sono le cinque
di pomeriggio ed io sono stanca morta dopo un pomeriggio trascorso a
riordinare
la casa. Mamma e papà non ci sono, sono fuori
città per un paio di giorni, e
sia Brian che Ellie non sono in grado di combinare niente,
all’infuori che
mettere casino dappertutto.
«Pronto?».
«Morgan? Sono Ben».
A momenti mi strozzo con la saliva, mentre ricollego quella voce
tranquilla e
calda al viso affascinante dell’attore.
«Ben…
ciao», farfuglio, un po’ imbarazzata. Ma
com’è che
qualche giorno fa ero tanto tranquilla?
«Sai, pensavo che
non mi avresti chiamato», dice, tranquillo.
«Ci
ho pensato, in effetti», rispondo, sincera. Perché
mentire? L’idea di non chiamarlo mi ha assillato parecchie
volte.
«Davvero?», a
giudicare dal suo tono sembra parecchio stupito. Insomma, lo capisco,
quale
ragazza gli direbbe mai di no?
«Si,
ma non ti offendere», mormoro, un po’ contrita.
«Nessun offesa».
Rimaniamo in silenzio per qualche secondo, poi Ben sospira e la sua
voce mi
avvolge di nuovo, pacata.
«Se non ti và di
uscire, non sentirti obbligata», mi tranquillizza.
«No,
mi và». E dico davvero, voglio uscire con lui.
«Che ne dici di stasera?»,
domanda. Do’ un’occhiata alla sveglia sul comodino.
Sono già le cinque.
«Per
che ora?».
«Va bene per le
otto?».
«Si,
per le otto sarebbe perfetto. Posso chiederti una
cosa?», un dubbio improvvisamente mi assale.
«Certo».
«Dove
andiamo?».
«Non ti preoccupare,
penso a tutto io. Ti passo a prendere alle otto, allora».
Dopo essersi
segnato l’indirizzo, Ben mi saluta e riattacca. Resto ancora
un po’ intontita,
prima di riscuotermi e dirigermi verso l’armadio alla ricerca
di qualcosa di
decente da mettermi.
C’è
una cosa importante, che dovete sapere: amo i tacchi
alti. Ma non ci so camminare per niente, per cui mi limito ad
osservarli nelle
vetrine e a lasciarli lì, dove non sono nocivi per nessuno.
Inutile dire
che l’unico paio di scarpe col tacco che io
abbia mai avuto, sono decedute in poco tempo. I tacchi barbaramente
spezzati ce
li ho ancora conservati nel cassetto, in ricordo della mia
incapacità di
camminare sopraelevata di qualche centimetro.
Tutto questo
per dire che non ho la minima idea di cosa
indossare. E se chiamassi Ben e glielo spiegassi? Insomma, potremmo
andare da
McDonald, no? Lì andrebbero bene le scarpe da tennis. Mi sa
tanto che lo
faccio.
Sto per
cercare il numero nella rubrica, quando qualcuno
inizia a bussare insistentemente alla porta. Mollo il telefono sul
letto e mi
precipito verso la porta. Chiunque sia, ha una gran fretta.
Be’,
mi sarei aspettata chiunque, davvero, tranne Grace.
Che in questo lunedì mattina dovrebbe essere
all’università. Cosa ci fa a casa?
«Scordati
il McDonald», mi ammonisce, rifilandomi un
sacchetto. Lo apro, curiosa. Quando ne tiro fuori un paio di stivali
neri con
un tacco da dodici centimetri – dodici! – vorrei
davvero buttarmi giù dal
balcone.
«Ma
perché?», protesto. E non so se riferirmi alle
scarpe
o alla negazione del caro, vecchio Mc. Dove sarebbe il problema? Gli
attori non
mangiano patatine fritte?
Seguo Grace
nella mia stanza e, quando inizia a frugare
nel guardaroba, inizio seriamente a preoccuparmi. Perché
quando Grace si mette
in testa qualcosa, è la fine. Con mio enorme sollievo
afferra un paio di
pantacollant neri e una lunga camicia bianca, abbinata ad una cintura
di cuoio
intrecciato, da mettere sotto il seno.
Poi si fionda
in bagno, verso il mobile dove tengo i
trucchi, gli orecchini, e tutti quegli accessori che ho comprato ma che
non ho
mai messo. Colgo al volo l’occasione per infilare un paio di
ballerine nella
borsa. Me le cambierò appena lei uscirà di casa.
Sono le sette
ed io sono quasi pronta, a parere di Grace.
Volete la verità? Ho un sonno allucinante. Questa esaurita
mi ha sballottata
tutto il pomeriggio, nemmeno fossimo nel backstage di un importante
sfilata di
moda. E, se devo proprio ammetterlo, il risultato è
piuttosto soddisfacente.
Convinco
Grace a lasciarmi truccare da sola: non sopporto
il trucco pesante, così mi limito ad un po’ di
cipria, fard, una leggera linea
di eye-liner e mascara.
Per i
capelli, invece, non posso fare altro se non
concederle il piacere di acconciarli in morbidi boccoli. Le ho fatto
notare, in
ogni caso, che nel giro di dieci minuti saranno di nuovo lisci, ma lei
non
demorde. Così, come ho fatto con le ballerine, imbosco anche
un elastico
bianco.
Lo so, lo so,
io e l’eleganza non andiamo di pari passo,
ma non è colpa mia! Lo giuro. È che Morgan
è il nome di un pirata, non di una
principessa. Ed io, di conseguenza, sono parecchio lontana
dall’esserlo. Anche
perché essere un pirata è molto più
divertente.
Alle otto
sono pronta. Grace si affaccia alla finestra
ogni tredici secondi, con l’aria di una vecchia impicciona
che osserva tutti i
passanti, per commentare quello vestito peggio. Io, invece, sono
sdraiata sul
divano e sto sonnecchiando.
Dovrei essere
nervosa, ma non lo sono. Non più di tanto,
in realtà. E c’è un motivo ben preciso:
credo che alla fine di questa serata
Ben non vorrà più vedermi.
Non
fraintendetemi, non sono pessimista. È che succede
sempre così.
L’ultima
volta che sono uscita con un ragazzo, lui non si
è fatto più sentire. Anzi, no, mi ha mandato un
messaggio, nel quale affermava
che lui preferiva le ragazze un po’ più
sofisticate e soprattutto più aperte.
Lasciamo
perdere quello che gli ho sofisticatamente
risposto, fatto sta che un appuntamento che a me era sembrato piuttosto
tranquillo, si era rivelato un vero fiasco. Per questo non nutro alcuna
aspettativa.
Se Rick, il
sofisticato, voleva qualcuno più serio di me,
come avrei potuto andar bene per Ben?
L’urlo
stridulo di Grace mi riscuote dai miei pensieri.
Sicuramente Ben è arrivato.
«È
così figo», mormora. Le getto
un’occhiata un tantino
scettica, perché quando la sento parlare così
è tanto simile ad Ellie. E, come
con Ellie, mi viene voglia di strozzarla.
«Bello
come un Dio», sussurro, portandomi le mani sul
cuore. Grace si accorge che la sto palesemente prendendo per il culo e
mi
scocca un’occhiataccia.
«Muoviti,
và», dice, allungandomi il cappotto nero. Lo
indosso, poi, dopo aver afferrato la borsa, esco di casa. Inutile dire
che nel
scendere i tre gradini che conducono al vialetto rischio di ammazzarmi
un
numero imprecisato di volte.
Sentendomi
come una sopravvissuta, raggiungo Ben, che mi
aspetta appoggiato alla macchina con le braccia incrociate. E, proprio
come
Ellie e Grace, non posso fare a meno di pensarlo: “Sei così figo”.
Sorrido tra me e me, prima di avvicinarmi. Ora si
che mi sento in imbarazzo, perché non so come salutarlo. Un
bacio sulla
guancia? Una stretta di mano? Un abbraccio?
Per fortuna
ci pensa lui a togliermi dall’impiccio,
lasciandomi un bacio sulla guancia.
«Scusa
se ci ho messo un po’ a scendere». Con aria confusa
– no, non confusa, scettica
– Ben
osserva i tre gradini. So cosa sta pensando e non posso dargli torto.
Ci
vogliono dieci secondi a percorrere i gradini e il vialetto.
«Non
so camminare sui tacchi», spiego. Lui ridacchia, poi
mi apre la portiera. Ed ecco un punto da aggiungere a suo favore. Ben
Barnes è
molto galante. Ma che ci faccio io con lui? No, davvero. Io non ho
niente di
elegante.
Si accomoda
al posto del guidatore e mette in moto e
quando svoltiamo l’angolo, frugo nella borsa ed estraggo le
ballerine e
l’elastico.
«Ah-Ah!»,
esclamo, felice come una pasqua. Sotto lo
sguardo allibito di Ben sfilo gli stivali e infilo le ballerine, poi
raccolgo i
capelli in uno chignon disordinato e sospiro soddisfatta. Quanto
scommettete
che ora Ben torna indietro e mi riporta a casa?
È
questo, il mio problema. Tendo a dimenticare che non
tutti comprendono e approvano il mio comportamento. D’altra
parte, però, non
vedo perché dovrei fingere di essere qualcuno che non sono
solo per piacere ad
un ragazzo. Non mi interessa.
«E
allora perché li hai messi?», domanda, confuso.
«Perché
la mia migliore amica pensava che fossero adatti.
E non potevo dirle di no», spiego, alzando le spalle. Ben
sorride, tranquillo.
Non sembra nemmeno un po’ stranito dal mio comportamento e
questo mi fa
piacere.
«Sai,
ho pensato molto a dove potevamo andare. Di solito
le ragazze amano i ristoranti raffinati, dove possono sfoggiare tacchi
alti»,
accenna un sorriso divertito, «vestiti eleganti e
acconciature elaborate. Ma tu…
tu sei tutta un’altra storia», afferma.
Lo bacio, io
vi giuro che lo bacio. Mi guarda un attimo,
prima di voltare a destra ed accostare. Mi guardo intorno, curiosa e,
quando
riconosco l’insegna gialla del McDonald capisco che io, Ben
Barnes, lo sposerò.
«Andiamo
al McDonald?», domando, allibita. Lui annuisce,
prima di scendere dalla macchina e fare il giro per aprirmi la
portiera.
Scendo, sentendomi incredibilmente a mio agio senza quei maledetti
trampoli e
gli sorrido, come una bambina di fronte al parco giochi.
«Credo
di amarti», gli dico, come se niente fosse. Lui
ride, prima di porgermi il braccio, in un gesto tanto galante che
centra poco
con il fatto che stiamo per cenare in un fast-food.
Quando
entriamo nel ristorante (si, lo so, non è proprio da
considerarsi tale), tutti gli sguardi si catalizzano su di noi. E
quando dico
tutti, intendo proprio tutti. Compresi i camerieri. Ben, proprio come
un comune
mortale – si, esatto, avete capito bene – si mette
in coda. Lo seguo e mentre
aspettiamo il nostro turno parliamo un po’ del più
e del meno.
«E
quindi hai un fratello maggiore?», mi chiede, mentre
camminiamo verso un tavolo libero. Ben regge il vassoio, sul quale
stanno in
bilico tutte le schifezze possibili immaginabili. L’ho
già detto che adoro il
McDonald e Ben Barnes? Se non l’avessi fatto, rimedio subito:
li adoro.
«Si.
Si chiama Brian ed è uno scemo, ma gli voglio davvero
bene», ammetto, afferrando una patatina dal vassoio.
«Sai, insegna educazione
fisica in una scuola elementare vicino Wimbledon. Mi racconta di quelle
cose
che…», e parto a raccontare di Brian, dei suoi
bambini che lui adora alla
follia e di quegli episodi esilaranti che gli sono capitati.
E Ben mi
ascolta, partecipe ed interessato come mai
nessun’altro è stato nei miei confronti. Ride,
divertito, quando passo a
spiegargli della mia ultima caduta.
«Sei
una piccola calamità naturale, quindi», riassume,
divertito. Annuisco, dando un morso alla crocchetta di pollo.
«Si,
ma non è colpa mia. Mi hanno cresciuta come un
pirata», affermo, tranquilla. Non è una cosa che
dico spesso, quando sono in
compagnia di un ragazzo, perché non mi è mai
capitato che un ragazzo si
interessasse tanto a me.
Lui ride e i
suoi occhi scuri luccicano di divertimento e
partecipazione.
«Qual
è il tuo film preferito?», mi chiede.
Sapete, non
penso nemmeno per un momento al fatto che lui
sia un attore e che io, magari, per compiacerlo, potrei rispondere, che
ne so,
“Dorian Gray”, o “Le Cronache di
Narnia”.
«Pirati
dei Caraibi, ovviamente», esclamo, come se fosse
scontato.
«Jack
Sparrow?», domanda, col tono di uno che ha già
capito tutto. Gli sorrido, e sono sicura che i miei occhi brillino.
Perché se c’è
qualcosa che amo più del McDonald, quello è Jack
Sparrow.
«Jack
Sparrow», confermo, quindi.
Ben ride e,
per mia fortuna, non sembra per niente offeso.
«Hai mai visto uno dei film in cui ho recitato?»,
domanda, curioso. Annuisco,
tranquilla, afferrando un’altra patatina.
«Si,
certo. Anche se Dorian Gray mi ha fatto un po’ impressione.
Preferisco le Cronache di Narnia», spiego. Be’, che
volete? A me Dorian Gray ha
fatto senso in certi punti. Naturalmente non quando c’era
Ben.
Ben annuisce,
serio, ma non offeso. Non sembra mai
prendersela per i commenti sfacciati che gli rivolgo e non capisco
perché. Poi lo
guardo e capisco: lui non è un ragazzino.
Dopo aver
offerto la cena – che ho apprezzato in una
maniera che non credo possiate capire –, Ben mi accompagna a
casa. In macchina,
a differenza di quanto è successo per il resto della serata,
stiamo in
silenzio.
Non
è un silenzio pesante, però, almeno non per me,
che ho
la tendenza a restare in silenzio quando mi trovo particolarmente a mio
agio. Lo
so, è strano, però se non avverto il bisogno di
parlare, perché dovrei farlo
solo per dare aria alla bocca?
Quando scendo
dalla macchina, sono palesemente in
imbarazzo. La verità? Avrei davvero voglia di baciarlo.
Però non vorrei
sembrare una di quelle oche con cui lui è abituato ad
uscire, perciò decido di
ignorare quello che vorrei fare davvero e di comportarmi come una
persona
seria.
Ben mi si
affianca, tranquillo.
«Sono
stata bene», gli dico, puntando lo sguardo al
pavimento. Be’, che volete? Sono una persona timida, in
fondo. Molto in fondo.
«Anche
io, Morgan».
«Be’,
allora ciao», sorrido, poi mi allontano un po’.
«Al
diavolo», lo sento borbottare, prima che la sua mano
afferri il mio polso e mi tiri di nuovo verso di lui. «Poi
prendimi pure a
schiaffi», mormora, prima di chinarsi e baciarmi.
Prenderti a
schiaffi?, penso,
mentre ricambio il bacio, non ci penso
neanche!