Push
me under
Le
infinite palizzate nel centro di Manhattan
crollavano al suolo come castelli
di carta, in tonfi assordanti e piogge devastanti di ciottoli e vetri,
mentre
cancelli e pali della luce si rannicchiavano su se stessi compressi da
una
forza maggiore e dalla tensione infuocata che aleggiava
nell’aria da ben
quarantuno giorni.
Dalle
vette dei grattacieli, che quasi
sembravano immergersi nella spuma tinteggiata di rosso quale era quel
cielo
contaminato, le strade si raccattavano su se stesse sotto la guerra
incombente
di quelle che sembravano formiche, mentre impazziti stormi di corvi
neri
sorvolavano a bassa quota preannunciando sventura. Gli agghiaccianti
richiami a
gola sbarrata degli infetti arrivava a solleticargli quasi le orecchie,
mentre
immaginava nella sua mente quelle enormi braccia che pendevano fino a
terra e
la pelle color avorio serpeggiata di vene violacee e pulsanti. Per
colpa del
cappuccio posato al capo il vento leggero arrivava a sfiorargli solo la
punta
del naso, mentre vigile e costantemente rigido nella sua postura
smuoveva un
passo verso il vuoto, certo e turbato sul fatto che la sua vita ormai
avesse un
solo e unico scopo. E neanche quello. Neanche il vento infuocato che
adesso
come lame gli tagliava le guancie o l’impatto freddo con
l’asfalto che
l’attendeva famelico lo avrebbe ucciso, perché la
sua collera era maggiore e
invincibile, e nel mentre la morte avrebbe dovuto farsi più
vicina e
abbracciarlo stretto come una madre, Alex sapeva di poterla allontanare
e di
poterle sfuggire ancora una volta, perché lui non era un
qualsiasi altro uomo
alla quale era stata scritta una fine. Aprì le braccia
all’altezza delle spalle
come se potesse frenare in qualche modo quell’incosciente
gesto, prima di
stringere pugni e sentire dolosamente il tessuto filamentoso dei
muscoli delle
braccia sfilarsi quasi come spago per arrivare a mutare di forma e di
grandezza, per arrivare ad essere temuto e allontanato come fosse un
virus
immane e incurabile. Pensandoci bene, Alex sapeva benissimo che era
così. Tornò
in piedi lungo la voragine creatasi
intorno notando come le sue gambe fossero intatte nonostante
l’urto e di come
le sue braccia posassero pesanti a terra interamente ricoperte di
cemento, mentre
gli occhi cominciavano a pizzicargli e lacrimare solo per il forte
impatto con
la polvere, si convinceva. E si può dire che era diventato
anche abbastanza
bravo. Ecco che cominciava il caos: le grida stridule delle donne, il
rumore
prolungato degli pneumatici che sfregavano sull’asfalto e
l’assurda e concreta
visione di una realtà che stava superando di gran lunga
l’immaginazione. In
quei quarantuno giorni aveva saputo tener testa ai propri incubi e
crearne
involontariamente di nuovi; si
era
osservato mutare e ricavare una forza speranzosa di accrescere sempre
più,
mentre un morbo assassino lo divorava dall’interno e gli
avvelenava il sangue lentamente
fino a sfinirlo sotto la sua stessa potenza. Ed ora era lì,
preda e cacciatore
allo stesso tempo, mentre sembrava che file d’infetti si
accorgessero della sua
presenza semplicemente notando lo spostamento d’aria, prima
di precipitarsi
verso di lui caricando le enormi braccia dietro la schiena informe e
flettersi
disumani nel tentativo di agguantarlo.
Fece forza nelle spalle e si porse al centro della strada travolto dal
fiume
impetuoso di civili, che si aggrappava disperato al tentativo di
fuggire via da
quelle fauci infernali. Corpi straziati disseminavano il suolo, mentre
auto e
oggetti erano riversati in strada senza cura né importanza.
Il fiato pesante cominciava
a fargli girare la testa, mentre attendeva che la sagoma imponente di
quel
mostro gli venisse incontro e gli ruggisse in faccia quella gloria che
gli
solleticava le dita grosse e macchiate di sangue secco. Alex
alzò il capo
distrattamente ad osservarlo, sgranchì le spalle sotto la
giacchetta di pelle e
come una furia incontenibile ruggì anche lui caricando gli
avambracci, prima di
precipitarsi contro quell’ammasso di avorio che sbavava ai
lati della bocca. I
tessuti delle braccia si sfilacciarono in filamenti ristretti prima di
tramutarsi in lunghe fruste, scoccando al collo della bestia che si
dimenava
incontrollata. Alex si sentì afferrare e scaraventare a
terra, mentre le
braccia mollavano la presa e tornavano nella sua forma iniziale.
Sfuggì
ruzzolando alla vendetta del suo avversario e arpionò la
terra prima di tornare
a contrattaccare: gli salì in groppa cercando di non cedere
alle violente
scosse, prima di colpirgli forte al capo e alle prime vertebre. Montare
quella
bestia era fin troppo difficile, e in un attimo si sentì
afferrare dal
cappuccio e scaraventare nuovamente a terra. Stavolta rimase inerte
attendendo
un contrattacco, prima che il suo viso si corazzasse e una lunga lama
gli
ricoprisse fin lungo l’avambraccio affondando lo stomaco
dell’infetto. Gli
schizzò in viso quel disgustoso liquido giallastro che
fuoriuscì a getti
turbolenti, sputandolo anche da bocca, prima di vedersi affondare quel
corpo
addosso dopo un gemito soffocato. L’aria si accese di fuochi
seguiti da una
nuvola di fumo, ma prima di accorgersene la terra si
sbriciolò sotto di lui ad
un esplosione assordante che lasciò dietro di sé
solo silenzio e puzza di zolfo.
L’elicottero del Black watch si dileguò in un
turbine di pale, disseminando
altre esplosioni che si susseguirono a poca distanza tra loro
affievolendosi
sempre più.
Alex
inspirò fortemente, mentre la polvere gli
entrava prepotente in gola quasi a soffocarlo. Tossì, poi
genuflettendosi
faticosamente vomitò. Si passò la manica della
giacca sulla bocca tumefatta e
batté gli occhi più volte a lubrificare la vista
nebulosa. Si accasciò sulla
pancia e allontanò con un calcio poco convincente la
carcassa inerme, prima di
trascinarsi con gli avambracci lontano dalla zona di guerra. Gli
serviva un essere
vivo da assorbire e alimentarsi così di quella forza vitale
assopita in un
debole corpo di umano. Boccheggiò contro la vetrata di un
negozio e agonizzò
per tirarsi su’, tendendo la fronte verso il fresco dei vetri
in parte
sgretolati. Notò l’esercito farsi spazio allo
sbocco della strada armati, e
prima che fossero in grado di raggiungerlo si infilò nel
negozio apparentemente
silenzioso. Si rannicchiò in un angolo, raccogliendo il
sangue che gli
scivolava via e tendendo la testa al muro chiudendo gli occhi. I fasci
di luce
degli elicotteri penetravano lungo le vetrate e sormontavano appena il
suo
viso, mentre un rumore di vetri rotti scivolava fino a terra
tintinnando come
un lamento dannato.
Deglutì.
Era davvero questo? Era davvero così
che doveva andare? Si sarebbe cibato di qualcuno e avrebbe continuato a
combattere. Diecimila uomini in divisa sarebbero morti e altri
diecimila
sarebbero arrivati a sbaragliargli la strada e allontanarlo ancora di
più dalla
sua verità. Non era da nessuna delle due parti; nessun
alleato e nessuna fonte
di protezione. Era solo in un mondo avvelenato e aggrappato alle
menzogne.
Manhattan sarebbe affondata e con lei tutta l’America, il
Canada, il Messico.
Se non per il resto del mondo che avrebbe avuto appena il tempo di
sputtanare
in giro quegli errori disumani prima di soccombere con loro. Aveva
appena il
tempo di respirare prima di sentire un dolore bruciante al petto e
gemere a
denti stretti senza la forza di alzare il capo.
Quando
un rumore di fondo catturò la sua attenzione,
scattò in piedi dolorante cadendo subito dopo contro uno
scaffale di bottiglie,
che gli scivolarono addosso prima che mille schegge gli incorniciassero
il
corpo. Alzò il capo solo dopo, accorgendosi che nulla gli si
era dimenato
contro se non il suo stesso danno.
Alex
trattenne il fiato incrociando quei grandi
occhi impauriti e le lunghe trecce corvine e scomposte che scivolavano
lungo le
piccole spalle. Gli etichettò circa sei o sette anni,
notando la stazza piccola
e il visetto scarno, ma probabilmente non mangiava da giorni e
chissà da quanto
era lì viste le guancie e le mani annerite dalla fuliggine e
dallo sporco. Alex
si umettò le labbra lentamente, come a prendere tempo per
parlare, mentre la
vedeva in piedi e immota a fissarlo allo stesso modo.
-C-ciao..
– le sentì blaterare, con le labbra
coperte dalle mani congiunte timidamente. Il giovane posò
una mano a terra,
cercando di issarsi sulle gambe, prima di brancolare verso
l’angolo buio dalla
quale si era allontanato con violenza. Continuò taciturno,
poi quando si fu
accoccolato gravemente lanciò un sospiro, ricambiando
quell’occhiata
incuriosita.
-Ciao..
– la sua voce era fievole, e quasi non
si riconosceva manco lui. Le vide acconciarsi goffamente la gonnella
lacera poi
accomodarsi distante da lui come se temesse di infastidirlo, il che
Alex
ringraziò un qualsiasi Dio per questo. Rimasero un
po’ in silenzio, occupando
l’aria con attutiti sospiri, testimoni del turbine di boati
che giungevano da
fuori.
-Anche
la tua mamma ti ha lasciato qui..? – La
guardò per un po’ stralunato, poi assunse un gesto
di dissenso col capo
studiando il nasino spruzzato di lentiggini che si corrucciava per
l’ottuso
silenzio.
-Vieni
da lì fuori? – Alex studiò le lunghe
ciglia nere e il sorrisino gioviale, prima di annuire senza riuscire ad
aggiungere niente. La vide farsi forza sulle braccia e avvicinarsi di
nascosto
di qualche centimetro, tornando a congiungere le manine in grembo.
-La
mamma mi ha detto di non andarci.. per
nessun motivo. Ci sono cose orribili là fuori..-
-Sì,
non disubbidirle.. – bofonchiò, intimidito
dalla sua piccola sagoma sudicia.
-Hai
freddo...? stai tremando.. – Alex trattenne
forte la voglia di assaggiare la sua pelle: era una bambina, ma aveva
comunque forza
vitale. Non poté fare a meno di tremare, e accorgendosi
della cosa mascherò le
proprie mani nelle tasche della giacca.
-Da
quanto sei qui..? – la bambina zittì
mordendosi le labbra, mentre una falce di luce penetrava prepotente e
con un
gridolino la costringeva a coprirsi la faccia. Alex allungò
una mano verso di
lei sorpreso, prima di ritrarsi. Aveva dovuto accorgersi subito delle
pupille
fin troppo dilatate e degli occhi che scavavano al buio come quelli di
un gatto
assopito. Ad un tratto provò una gran pena e un forte
macigno cavargli lo
sterno. Credeva di essere l’unica vittima di quel gioco
immane e spietato, ma
non aveva fatto i conti con quella piccola e dimenticata creatura
timorosa
della luce e scarna sotto gli occhi marroni.
Alex
alzò un piccolo angolo di labbra per
sorridere, mentre la bambina si catturava il viso fra le ginocchia
forse
vergognandosi. Si alzò e afferrando forte uno scaffale lo
parò contro le
vetrate per alleviarle il tormento, tornando in piedi a ridacchiare
riconoscente.
-Come
ti chiami.. ? –
-Elisa..
– Alex tornò ad accoccolarsi a terra,
poi sogghignò.
-Carino.
–
-E
tu..? – Respirò rumorosamente, poi
mostrò la
mano formalmente come si vedeva fare dagli adulti.
-Alex.
– La mano della bimba scomparve quasi far
le sue dita mentre la stringeva e provava un forte fremito lungo la
schiena.
-Carino.
– lo derise, con quella vocina acuta
che riecheggiava d’eco nel negozio. Poi tornò
segretamente a fissarlo; fissare
quello sconosciuto senza vederlo pienamente in viso che si tratteneva
la parte
superiore del braccio per evitare invano che il sangue sgusciasse via.
Come era
successo a tanti altri.
-Ti
fa male..? – Il giovane posò lo sguardo
verso la sua mano intrisa di nero, mentre sulla sua espressione aleggio
in un
attimo sfuggente un luccichio sinistro. Sentiva uno strano senso di
protezione,
una sorta di patto segreto fra bambini.
-No.
– forse rimase stupida perché dischiuse la bocca
come a dire qualcosa, ma s’interruppe un attimo per poi
riprendere.
-Allora
sei molto forte! – assunse un timbro
eccitato. Alex sogghignò malevolo: sì, era il
principe azzurro venuto a salvare
la situazione.
-Voglio
confidarti un segreto... – Magari una
bambina non l’avrebbe trovato un mostro; Elisa gli si sporse
un po’ esitante,
trattenendo il fiato finché non lo vide in procinto di
mormorarle qualcosa, ma
un forte boato investì le loro figure ricreando aculei di
vetro che piovevano
su di loro come lame seghettate, mentre Alex si appiattiva contro il
muro a
proteggere la sua piccola creatura dimenticata, e un forte vento si
alzava
accompagnando il rumore metallico delle pale dell’elicottero.
La sentì
rimpicciolirsi e lamentarsi tremante contro il suo petto, mettendo a
riparo gli
occhi, ritornando subito con la mente al dolore lancinante che gli
oltrepassava
le scapole sanguinanti. Mille voci si confondevano fra loro,
contraffatte dalle
maschere anti-gas o dalla ricetrasmittente accesa. Prese a respirare
urgente
con la bocca posata sulle trecce corvine, mentre deglutiva per
rimediare alla
gola improvvisamente secca.
-Identificati
due soggetti signore.. – poté immaginare
gli stivaletti di cuoio duro attraversare il piazzale e avvicinarsi
cautamente
a lui, mentre cercava di mettere a fuoco la vista ancora troppo debole.
-Sono
infetti? –
-Non
lo so signore.. – un ghigno si protrasse
alla ricetrasmittente, risuonando più agghiacciante che mai.
-Non
credo lo scopriremo mai. Ordino di fare
fuoco! – Alex percepì un certo diniego, ma i suoni
gli risuonavano confusi
mentre portava una mano dietro la schiena esile della piccola e la
stringeva
per attutire i suoi singhiozzi. Era così calda.
-Resta
con gli occhi chiusi... va bene? – Elisa
capì che doveva sganciarlo della sua presa, ma era troppo
spaventata dal fatto
che avrebbe potuto lasciarla anche lui.
-No,
ti prego... non lasciare che mi prendano...
– gli parve un sussurro, una preghiera inudibile anche a Dio.
–Portami con
te... – Alex non aveva la forza, né la
possibilità di trascinarsi via e
trascinare via con sé anche lei. Vide che una lacrima le
rigo il viso, e
scivolò inerme e perfetta anche sulla linea del collo per
sprofondare sul
bavero. Affondò gli occhi nei suoi, che sembravano bruciare
a quella vista così
imperfetta.
-Non...
lasciarmi qui... – singhiozzò,
stringendo i pugni tanto forte da sbiancare le nocche. Alex le
baciò la fronte
lentamente prima di lasciare aderire anche la sua, per trovare quella
forza che
l’avrebbe salvato.
-Non
c’è niente da temere... non ti lascerò
qui.
– i soldati fecero fuoco, con un susseguirsi insistente di
proiettili che
frantumavano oggetti e che si liberavano la strada senza ripensamenti.
Si perse
per un attimo la visibilità e i timpani presero a pulsare,
prima che tutto
cessasse e si lasciasse spazio ad un silenzioso controllo. Dietro lo
schermo
delle maschere si udirono sospiri urgenti alla vista di quel bocciolo
nero al
centro della stanza. Era uno...
Lo
scudo si ritrasse mentre Alex affondava la
fronte contro il muro, gemendo per la forza che ora sentiva scorrergli
dentro
dolorosamente. Aveva stretto la bambina a sé, forte,
più forte, fino ad
assorbirla nel proprio petto e lasciare affogare quei singulti
sconnessi contro
lui. Non l’avrebbero presa, sarebbe stata eternamente sua la
creatura
dimenticata, di sei o sette anni.
Inchiodò
violentemente un pugno al muro, che
crepitò pericolosamente, aiutandosi per alzarsi e fermare
per un attimo quelle
scie di fuoco che gli consumavano le guance. Non le aveva
più provate mentre
gli penetravano in bocca e la insaporivano amaramente, e neanche mentre
gli
causava agli occhi un rossore tanto colpevole e dannato.
Per
un attimo aveva perso di vista quello che
era il suo compito, e per un attimo aveva anche rinunciato di
continuare a
combattere. Ma mai le mani gli erano sudate tanto alla vista della
carne
fresca, avvicinandosi a loro con passo fermo e con la lingua che
risucchiava a
sé il sapore vitreo del sangue. Ora che si sentiva pronto a
confidare quel
segreto, che lo corrodeva e si nutriva di lui. Ma adesso era
lì, con lo stesso
orizzonte insanguinato di sempre, con la stessa forza, la stessa
accecante vendetta
che solo ora non avrebbe riservato solo a sé stesso, ma
anche alla sua piccola creatura
dimenticata, di sei o sette anni.
Fine
Non
ho mai scritto niente su
Prototype, quindi spero che un avvertimento del genere basti a
giustificare i
dettagli e gli avvenimenti magari troppo acerbi al contesto.
Sperando
naturalmente che piaccia. :)
Piace
-Sux