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Autore: Northern Isa    08/02/2012    6 recensioni
Dopo la sua rinascita, Voldemort incarica i Mangiamorte di raccogliere seguaci. Thorfinn Rowle e Fenrir Greyback saranno incaricati di tornare in Svezia, la loro terra natale, per convincere i Giganti ad unirsi al Signore Oscuro. Ma Thorfinn sarà costretto a confrontarsi con un passato che aveva cercato di dimenticare.
Prima classificata e vincitrice del premio originalità al contest Morsmordre di Princess of Slytherin, giudicata da saramichy
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro personaggio, Fenrir Greyback, Mangiamorte, Voldemort
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Età di venti, età di lupi.'
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Capitolo 4

Trascorsi la notte in bianco, rigirandomi incessantemente nelle coperte in cui mi ero avvolto. Prima dell’alba, uscii dalla tenda che condividevo con Fenrir, e che avevo costruito con due colpi di bacchetta la sera prima. Agnes ci aveva invitati a restare al pub in cui lavorava, dato che al piano superiore disponeva di alcune stanze, ma sia Fenrir che io ci eravamo rifiutati energicamente. Lui preferiva senz’altro dormire all’addiaccio piuttosto che rinchiudersi in una costruzione umana, si trattava di un’abitudine consolidata in diversi anni. Io ero diventato più insofferente del solito dopo la notizia che Agnes ci aveva riferito.
Mi guardai intorno: avevamo scelto per accamparci un punto pianeggiante sul limitare di una foresta che sorgeva appena fuori Fagersta. Il sole si stava evidentemente apprestando a sorgere, dato che le chiome degli abeti in lontananza si stavano tingendo di un azzurro sempre più tenue. Dall’interno della tenda provenne il rasposo e intenso russare di Fenrir. Calcando l’erba sotto ai miei piedi e facendo frusciare il mio mantello, mi allontanai da quella piazzola, andando ad infilarmi tra i rami della foresta. Quando mi fui inoltrato abbastanza da non riuscire più a vedere i profili della tenda, mi fermai dentro un cerchio di alberi. Chiusi gli occhi e inspirai profondamente: l’aria frizzante mi penetrò nelle narici, portandomi gli intensi odori di resina e muschio. La foresta non era ancora così fitta da non permettere ai raggi del sole di superare le chiome degli alberi: sentivo il loro calore sul mio viso. Schiocchi di rami in lontananza mi avvisarono della presenza di qualche animale che si aggirava nel sottobosco. Il mio istinto di cacciatore riaffiorò in me, prepotente e incontrollato. A giudicare dai rumori prodotti, l’animale non doveva essere molto grande. Incedeva rapidamente, ma non riuscivo a distinguere i tonfi prodotti dall’alternanza di tutte e quattro le zampe. Doveva trattarsi di una lepre, o di qualcosa del genere. Senza comandare il mio corpo, sentii le gambe cedere e, senza far rumore, mi ritrovai inginocchiato sull’odoroso muschio che ricopriva il suolo. Le mie braccia si mossero in gesti lenti, come se stessi eseguendo un antico rituale, la mano destra giunse alla cintura e ne trasse la bacchetta in uno sguiscio silenzioso. L’animale si era fermato, ma poco dopo riprese a muoversi: stava venendo verso il punto in cui mi trovavo. A giudicare dalla direzione del lieve alito di vento, non avrebbe annusato il mio odore. Era necessario che non si accorgesse della mia presenza. Persistevo a tenere gli occhi chiusi: avevo imparato ad usare durante la caccia tutti gli altri sensi, riuscendo a fare a meno della vista, che a volte poteva anche ingannare. Il riverbero della luce poteva fare brutti scherzi, i manti delle bestie potevano mimetizzarsi nel sottobosco, ma un odore o un suono correttamente interpretati non avrebbero dato adito a dubbi.
Sentii i peli delle mie braccia rizzarsi mentre un altro alito di vento mi portò un odore nuovo, ma che ricordava in qualche modo quello delle lepri che cacciavo in Inghilterra. Tesi il braccio sinistro davanti a me, ad indicare il vuoto, altrettanto lentamente e silenziosamente ritrassi il destro fino a portare il pugno che stringeva la bacchetta all’altezza del mio orecchio. Udii un sibilo alla mia sinistra, ruotai di scatto sul mio ginocchio, lasciando scattare la corda del mio arco immaginario. Bastò un incantesimo non verbale ben assestato, e un tonfo mi avvertì che la bestia era caduta stecchita al suolo.
Tornato alla tenda, Fenrir mi accolse con un’esclamazione soddisfatta, motivata dalla vista della lepre col collo spezzato che stringevo in pugno. Gli lasciai cadere l’animale in grembo, per permettergli di soddisfare la sua fame.
-Tu non mangi?- mi domandò sollevando il muso imbrattato di sangue dal fianco della lepre.
-No.- risposi con tono piatto, -Più tardi dovremo elaborare una strategia per metterci sulle tracce degli Jotnar. Ora mangia senza pensieri, ho una cosa da sbrigare prima.-
Quando gli voltai le spalle, avvertii lo sguardo interrogativo del lupo mannaro bruciarmi sulla nuca, ma, quando mi misi in moto, sentii di nuovo il rumore delle sue mascelle che infrangevano le fragili ossa dell’animale.
Tornare al pub in cui avevamo cenato la sera precedente fu per me molto facile. Agnes ci aveva detto che lei alloggiava in una delle stanze del locale, quando la trovai, bussai con discrezione. La ragazza mi aprì quasi subito, rivolgendomi la stessa espressione dolce che avevo visto in lei la sera prima.
-Portami alla casa di Odinresk.- le dissi, sperando che la frase fosse risuonata con l’autorità di un ordine, ma senza la stessa ostilità.
La giovane annuì e mi prese l’avambraccio con una stretta delicata, ma decisa. Sussultai a quel contatto, non sapendo cosa aspettarmi. Nulla avrebbe comunque potuto essere più sorprendente dell’essere inghiottito insieme a lei nel meccanismo della materializzazione congiunta. Apparimmo un instante più tardi in un luogo che non sembrava affatto Fagersta: dalle rade abitazioni e dall’aria dimessa delle stesse, che rischiavano quasi di essere inglobate dalla foresta, dedussi che dovevamo trovarci nella periferia della città. Posai lo sguardo sugli occhi limpidi di Agnes in attesa di assimilare la sorpresa. La sera prima, nessuno di noi aveva parlato di magia: non sapevo che fosse una strega, né avevo avuto conferma del contrario. Lei invece non aveva avuto remore ad eseguire un incantesimo davanti a me.
-Sapevo che Odinresk fosse un mago, immaginavo che chi lo stesse cercando lo fosse a sua volta. Specialmente se quel qualcuno è suo figlio.- spiegò lei semplicemente, sorprendendomi ancora una volta.
Da quando ci eravamo materializzati nella periferia di Fagersta, Agnes non aveva spostato la sua mano dal mio braccio, né lo fece quando mi condusse verso un’abitazione che era poco più di una catapecchia.
-Alohomora.- mormorai, puntando la mia bacchetta contro la serratura della porta d’ingresso, che scattò rumorosamente.
Quando fummo dentro, una sola parola mi venne in mente per descrivere gli interni dell’abitazione: abbandono. L’ambiente era avvolto nella semi oscurità, i mobili sembravano disposti a caso, tutto odorava di muffa. Non sapevo cosa di preciso mi avesse condotto lì. La prospettiva di rincontrare mio padre dopo quattordici anni mi aveva innervosito, ma la notizia della sua morte in qualche modo mi aveva placato, legittimando l’emergere della curiosità per quell’uomo un tempo tanto amato, e poi successivamente odiato a morte. Forse speravo solo di trovare la risposta alla morte di mia madre. D’impulso, iniziai ad aprire i cassetti e le ante dei mobili, frugando alla ricerca di qualsiasi cosa. Agnes mi aspettava in piedi vicino all’ingresso, senza fare domande, come se avesse capito che quel comportamento irrazionale da parte mia fosse qualcosa di cui avevo bisogno. Quando mi sentì smettere di frugare in giro, mi chiamò con la sua voce armoniosa:
-Va tutto bene?-
Non risposi, assorto com’ero nell’osservare alcune fotografie nelle cornici. Tutte ritraevano mio padre, mia madre e me, in diversi contesti della nostra vita. Alcune ci ritraevano in un bosco come quello al limitare del quale Fenrir ed io ci eravamo accampati: io e mio padre reggevamo delle prede appena uccise e sorridevamo. In altre indossavo la mia divisa scolastica, altre ancora erano state scattate in occasione di compleanni o di altre feste. In una ero poco più che neonato e mi aggrappavo alla barba di mio padre. La scagliai con violenza contro la parete di fronte a me, provocando la rottura del vetro e della cornice. Un ruggito smorzato mi proruppe dal petto quando feci cadere tutte le altre fotografie dal piano del mobile su cui si trovavano. Il sangue aveva cominciato a bollirmi nelle vene: perché quell’animale aveva conservato le nostre fotografie dopo averci abbandonato? Qualcosa sulla spalla mi fece trasalire: era il tocco leggero di Agnes. Nel mio scoppio d’ira, neanche mi ero accorto che lei si fosse avvicinata, fino a trovarsi dietro di me. Mi alzai in piedi di scatto, respingendo la sua mano. Agnes si ritrasse silenziosamente, come a volermi lasciare tutto il tempo di cui avevo bisogno per sfogarmi. La rabbia e il nervosismo non si erano smorzati in me, e lei doveva averli captati. Ero infuriato perché tutto mi sarei aspettato di trovare, fuorché le fotografie che ritraevano episodi della nostra vita familiare. Avrei preferito trovare le tracce di un’altra donna, magari di altri figli, prove del fatto che il maledetto si era fatto una nuova vita, gettando la sua vecchia nell’immondizia, come se fosse stata un cartone di succo di zucca scaduto. Già odiavo Odinresk, una scoperta del genere non avrebbe aggiunto nulla di più. Ma quelle fotografie, più che dare delle risposte, facevano sorgere nuove domande. Perché quell’animale era andato via? Come aveva osato essere la causa della morte di mia madre? Una nuova ondata d’ira mi infiammò, e io la sfogai sferrando un pugno contro un armadio, sfondando un’anta. Avrei preferito rompermi le nocche piuttosto che convivere con quegli interrogativi. L’immagine degli occhi di mia madre mi attraversò la mente, e io continuai ad attaccare e a devastare i mobili della casa di mio padre con l’intenzione di non lasciare nulla di integro. Alcune carte mi vennero per le mani, mi preparai a stracciarle, quando leggere il nome di mia madre su quei fogli mi fermò. Con il respiro ansante a causa di quello sfogo, incominciai la lettura, al termine della quale non potei fare altro che accasciarmi sul divano semisfondato.
Quei fogli erano tutte lettere che Odinresk aveva scritto ad Amelia, senza mai averle inviate. I toni usati erano dimessi e avviliti, sembrava che mio padre cercasse di convincerla a fare qualcosa. Il penultimo foglio che lessi fu quello rivelatore, e allora le idee che mi ero fatto, le cose in cui avevo creduto per quattordici anni mi percossero come chicchi di grandine impazziti durante una tormenta. Mio padre non ci aveva abbandonati davvero. Rievocai gli eventi del mio diciassettesimo compleanno, in particolare il dono del Drakkar e la sua proposta di tornare a Fagersta. Rividi i suoi occhi luminosi di genuina felicità. Tutti sapevamo che mio padre non aveva mai vissuto bene lo sradicamento dalla sua terra natia. Profondamente legato alla Scandinavia, era venuto in Inghilterra solo su richiesta di mia madre, ciononostante non si era mai riuscito ad abituare. La lettura delle lettere mai spedite mi rivelò come la prospettiva del mio ultimo anno di studi ad Hogwarts avesse indotto mio padre a prendere in seria considerazione l’idea di tornare in Svezia, con mia madre e con me. Amelia non aveva avuto più bisogno di assistenza per crescermi, aveva scritto, né io avrei dovuto più frequentare quella scuola. Convinto che nulla più ci trattenesse in Inghilterra, mi aveva fatto quella proposta il giorno del mio compleanno, e l’aveva fatta a mia madre il giorno della mia partenza per Hogwarts. Evidentemente lei aveva opposto il suo più netto rifiuto. Odinresk doveva essersi sentito profondamente ferito, perché nelle lettere aveva scritto tutte le parole che mia madre gli aveva rivolto in risposta, come se gli fossero rimaste impresse nella memoria e lo avessero ossessionato fino a quel momento. Rimasi esterrefatto nel percepire il veleno che lei gli aveva sputato in faccia. L’aveva ricoperto di insulti, probabilmente sfogando un malessere che si annidava in lei da anni, l’aveva respinto ed era stata volutamente brutale.
“Maledetto,” mi avevi urlato contro, “è tutta colpa tua! Sai cosa? Vuoi tornare in Svezia? Benissimo, vattene, tornatene da dove sei venuto e non farti più vedere. E portati Thorfinn, se ci tieni tanto, la mia vita era migliore senza di voi.”
Dovevo essere onesto, quelle parole scritte con la scrittura di mio padre, ma risuonate nella mia testa con la voce di mia madre, mi colpirono come uno schiaffo. Odinresk non ci aveva abbandonati, era stata mia madre a cacciarlo via. Lei era morta poco dopo, evidentemente consumata da un malessere diverso da quello che mi ero immaginato. Ciò che contava veramente era però che non era stato mio padre il responsabile. Mi ero consumato d’odio per quattordici anni per un uomo che non aveva colpa.
Ancora una volta mi accorsi di essermi dimenticato della presenza di Agnes. Silenziosa e discreta come un fantasma, si era venuta a sedere sul divano accanto a me, pur mantenendo una certa distanza. Da come mi guardava, mi resi conto che era sinceramente turbata nel vedermi in quello stato, ma non voleva essere invadente. Mi rilassai con un sospiro contro lo schienale, come a farle capire che non avevo eretto difese, non contro di lei almeno. Agnes interpretò correttamente il mio segnale, e si arrischiò a posare delicatamente la sua mano sulla mia spalla. Avvertii di nuovo quella strana sensazione, come se lei fosse in grado di sciogliere tutti i miei nodi di tensione. Non seppi perché iniziai a baciarla, forse essere circondato dalle sue tiepide braccia rotonde era l’unica cosa di cui avessi bisogno in quel momento.
   
 
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