L’ispettore aveva sempre considerato il sergente Donovan un’ottima agente, non per niente faceva parte della sua squadra da oltre quattro anni. Era sveglia, determinata e sul lavoro dava tutta se stessa. Avevano risolto insieme innumerevoli casi e più di una volta si erano coperti le spalle a vicenda, anche in situazioni non proprio rosee, in cui la prontezza dei riflessi poteva segnare il confine tra una carriera in polizia e un elogio funebre.

Eppure c’era una cosa che Lestrade non riusciva proprio a comprendere: l’astio che la donna provava per Sherlock Holmes. D’accordo, non poteva negare che Sherlock avesse l’innata abilità di far uscire dai gangheri anche la persona più pacata e di risultare insopportabile alla quasi totalità delle persone che incontrava. Ma una cosa erano le considerazioni personali, un’altra la professionalità sul lavoro, e una collega esperta come Donovan non poteva permettersi di mischiare le due cose.
Perciò, quando l’aveva vista osservare le prove del rapimento dei due fratelli con quell’aria mortalmente seria, l’ispettore aveva sentito la gola seccarsi ed una sensazione amara annidarsi alla bocca dello stomaco.
E proprio in quel momento, improvvisamente, aveva realizzato.
Non era Donovan a sovrapporre sfera privata e vita lavorativa, correndo il rischio di lasciarsi sviare, ma lui stesso. E anche se non credeva che Sherlock potesse aver inscenato un crimine – anche se sperava con tutto se stesso di aver ragione – non poteva sottovalutare l’istinto di un altro poliziotto, né trascurare alcuna pista.
Quindi aveva guardato Donovan, e fatto ciò che doveva.