Capitolo
III
Shaka
di Virgo aveva passato gli ultimi tredici anni con gli occhi chiusi, cercando di acquistare la saggezza e la lungimiranza che il
Figlio del Cielo avrebbe dovuto possedere.
Tuttavia,
nonostante li avesse allenati duramente attraverso ore e ore di
meditazione, gli altri sensi non l'avevano avvertito dell'inganno;
quegli occhi era stato costretto ad aprirli di colpo da cinque
ragazzini e dalla loro Dea – divenuta d'un tratto anche sua.
Lasciò
cadere il corpo martoriato sui gradini esterni di ciò che un tempo era
stato il Sesto Tempio, le ferite e le ustioni annerite in netto
contrasto con la pelle candida.
«Messaggero
tra la terra e il cielo sarò, nel corso della mia vita».
Shaka
non era più un bambino, eppure mai si era sentito così impotente –
nemmeno quando, fanciullo, aveva avuto a che fare con la cruda realtà
delle strade di Varanasi.
Si
sentiva impotente perché, dopo tanto, di nuovo riscopriva l'amara
natura del dubbio e la frustrazione data dall'incertezza.
Si
sentiva impotente perché, in fin dei conti, era conscio di non aver
compreso assolutamente nulla:
troppe cose aveva dimenticato – e tra queste spiccava, bruciante, il
giuramento mancato.
«Giuro
dinanzi ad Atena che io, Shaka di Virgo, mi impegno solennemente a
consacrare la mia persona e il mio cuore alla causa della
Giustizia, e a combattere per essa fino alla fine dei miei giorni».
Non
per, ma contro di essa aveva combattuto.
Il suo enorme, altero potere aveva tentato di sbarrare il passo di Ikki di Phoenix, credendolo un nemico, mentre i veri avversari erano da ricercarsi solo in lui stesso e nell'uomo che aveva erroneamente identificato nella Giustizia.
Prima di allora Shaka non aveva mai avuto paura della morte.
Quel
giorno, però, pur di non cadere nel buio dell'Ade si era prostrato ai piedi della Fenice come le donne
di Varanasi facevano ai suoi –
anche se il Gautama aveva detto che la morte non è la fine di tutto,
ma solo un cambiamento.
«Io
capirò! Fermati! Così ci oscureremo in un mondo di luce!»
Prima
di allora, Shaka non aveva mai temuto la morte, né gli spettri – da quel
giorno in poi, invece, avrebbe imparato a farlo.
L’ordine
precostituito aveva preteso cinque vite per far tornare sulla retta
via i suoi protettori smarriti: cinque cavalieri – cinque compagni.
Virgo
sapeva che avrebbe rivisto i volti di Death Mask, Shura, Camus,
Aphrodite e Saga fra le ombre agitate e inquiete dei suoi sogni.
Ma stavolta non sarebbe bastato tenere le palpebre abbassate.
Nel
tentativo di soffocare il palpitare impazzito del proprio cuore fece
volare una mano al petto e, per un attimo, cercò l'amuleto di cui anni
prima si era disfatto, convinto di essere immune da ogni timore.
Ricordava
di averlo sepolto nel giardino dei Salici Gemelli, durante una
specie di personale rito col quale si era ripromesso di rinunciare
ai sentimenti – simbolo, ai suoi occhi chiusi,
di tutte le debolezze umane.
Dopo
che si fu recato sul posto e l'ebbe dissotterrato se lo legò al collo,
incurante del laccio sporco di terra, e provò la sensazione di essersi
ricongiunto con una parte di sé.
Non appena risollevò la testa, vide aprirsi alcune gemme. Sorrise: era tanto che su quegli alberi non sbocciavano fiori.
Note
dell’autore
Qualche
ora dopo la battaglia delle Dodici Case, Shaka tenta di raccogliere e
rimettere insieme i pezzi della sua esistenza.
É
ferito nell'orgoglio e arrabbiato con se stesso per non aver saputo
riconoscere la causa della Giustizia – la stessa Giustizia che anni
prima aveva giurato di proteggere.
Sull'anima
pesano le morti dei compagni e il fatto di aver supplicato Ikki
di risparmiarlo – proprio lui che, più degli altri, non avrebbe dovuto
temere la morte.
Ringrazio
tutti quelli che stanno seguendo e recensendo – o semplicemente
leggendo – questa storia!