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Autore: _Valentine_    13/02/2012    4 recensioni
La guerra miete vittime come una falce per il grano, loro ora erano un immenso campo che veniva poco a poco dimezzato.
Con uno sforzo assurdo riuscì a premere le dita maggiormente contro la sua tasca, e avverti la forma circolare dell'orologio da taschino che si portava ostinatamente dietro, un cimelio di famiglia.
Dal tessuto liscio dei pantaloni di pregiata fattura riuscì anche ad avvertire la vezzosa "M" in rilievo.
No.
Non era morto, era quasi certo che nell’aldilà non vi fossero orologi da taschino.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Coppie: Draco/Hermione
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Da VII libro alternativo
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 Schiuse lentamente e pigramente le palpebre, e non ebbe bisogno di socchiuderle nuovamente: non v’era alcuna forma di luce.
Doveva essere notte.
Questa fu la prima affermazione di senso compiuto elaborata dal cervello di Draco.
Ma sarebbe stata una magra consolazione scoprire che purtroppo no, non lo era.
Nell’universo delle anime dimenticate non v’era mai alcuna forma di illuminazione, il tutto era avvolto perennemente da una piena coltre di nubi grigio fumo che violentemente squarciavano il cielo di un pallore cadaverico, che tuttavia non era portatore di luminosità.
Sopra la sua testa, come una perla maledetta, troneggiava sfuocato un bottoncino di pece, che definì come una sorta di sole nero: si chiama sole, ma non fa luce.
Non appena ebbe occasione di scorgere tutto ciò inarcò un sopracciglio, come per dare una vena di scetticismo necessaria a ricordarsi che era vivo.
Perché lui era vivo… vero?
Come per la constatazione precedente si infilò una mano dentro la tasca, e la sua pelle pallida venne a contatto diretto con la superficie fredda e liscia del suo prezioso orologio da taschino.
No.
Non era morto, o in caso contrario aveva sbagliato fin dall’inizio ad escludere la presenza di orologi da taschino nel regno dei morti.
Ad ogni modo il suo scetticismo era dovuto a un pensiero che fulmineo e perfido aveva balenato nella sua psiche: era dunque quella la sua condanna?
Morire sotto un altro sole nero, cosa che prima rappresentava il folle senza naso.
Il destino era stato proprio sadico con lui: farlo sfuggire da una guerra, da un mondo in cui non aveva voce in capitolo, per poi catapultarlo lì, in quel misto di nulla distruttivo.
A proposito di ciò svariate domande cominciarono a danzargli nella mente, come perfide ballerine che con i loro tacchi appuntiti perforano il parquet della sala da ballo, che in quel caso era la sua debole mente.
Che posto era quello?
Come c’era finito lì?
E soprattutto… perché?!
Non sapeva darsi risposte, un po’ perché non aveva basi su cui fondare le sue ipotesi, un po’ a causa della terribile confusione che devastava la sua mente come un martello.
Stringeva ancora tra le dita l’orologio da taschino, e poté notare, distrattamente, che non ticchettava più.
La risposta era chiara: in quell’universo non esisteva la concezione di tempo e spazio, ma non lo era per il giovane, che inizialmente pensò che l’orologio dopo tanti anni si fosse rotto.
In seguito una terribile verità aleggiò nella sua mente, come una pugnalata improvvisa atta a frantumare anche quella magra certezza: quell’aggeggio era incantato, non poteva rompersi, era stato realizzato con materiali elfici, proprio da quest’ultimi, e in tutti quegli anni, secoli, forse, non aveva mai dato problemi.
Decise di accantonare momentaneamente la questione dell’orologio, certo che lì ne avrebbe avuto di tempo per riflettere, e si accorse che aveva con se la sua bacchetta.
Non ci sperò più di tanto, gli sembrava impossibile, troppo bello, riuscire a risolvere tutto così facilmente, infatti…
Fissò per qualche attimo la bacchetta, ostile, come un bambino che scorge per la prima volta un oggetto sconosciuto e misterioso, e lo esamina bene.
Era titubante, non sapeva se agire subito, perché consapevole che se non avesse funzionato la delusione sarebbe stata immane, nonostante una parte di se, quella maggiore, avesse il presentimento, se non addirittura la certezza, che non sarebbe servito a nulla.
E in più sarebbe scemata la sua possibilità di tornare a casa, senza aiuti esterni, perché aspettare una manna dal cielo o un qualche eroico salvataggio non era mai rientrato nei canoni di Draco Lucius Malfoy.
Dopo attimi interminabili e silenziosi, in qualche modo religiosi o epici, si decise a muovere il polso, nel tentativo di far uscire qualche scintilla dalla sua bacchetta e quindi verificare se la magia funzionava.   
Nulla da fare, calma piatta, neanche un minuscolo spruzzo di luce era provenuto dal legnetto.
Abbassò gli occhi, corrucciato, e l’ennesima domanda si fece spazio sgomitando prepotentemente nella calcante massa presente nel suo cervello.
Era la sua bacchetta che non funzionava o in quel posto era negato l’uso della magia?
Non sapeva quale delle due possibilità fosse peggiore.
Anche se lui non poteva saperlo lì era impossibile effettuare magie, tuttavia, quel luogo o i suoi “abitanti” potevano essere sottoposti, entro un certo limite, a magie provenienti dall’esterno.
Come una porta dalla quale entra luce, ma non ne può fuoriuscire.
Poi improvvisamente si ricordò il momento prima di perdere i sensi, e quindi di essere scaraventato lì, e una cosa in particolare lo sconvolse del tutto, completando totalmente l’opera che tutti quegli strani avvenimenti avevano iniziato precedentemente: aveva chiamato la Granger, la Mezzosangue.
Le aveva chiesto aiuto.
Si sarebbe continuato a chiedere perché, ma si accorse solo in quel momento della distesa che si estendeva dinanzi ai suoi occhi, non certo quello che si definisce un limpido orizzonte…
Una schiera di ossa e corpi putridi, alcuni deceduti da più tempo, altri da meno, giacevano disordinatamente davanti, dietro, di lato a lui, circondandolo totalmente, con la loro cornice di sangue raffermo o fresco, che rilasciava nell’aria un fetore acre e metallico, putrido anch’esso.
Infinitamente stanco e disgustato, malgrado fosse decisamente troppo teso, da un momento all’altro, come colpito da un potentissimo incantesimo soporifero, cozzò con il capo il un osso, forse un omero, e sprofondò nel sonno più profondo, malgrado non avesse perso i sensi.
Dormì per un lungo tempo indefinito, nonostante la sua orribile situazione, quando ad un tratto una mano delicata e gelida gli afferrò la spalla, facendolo sobbalzare.
Nonostante si fosse appena svegliato e non avesse tutti i sensi ben attivi, comprese all’istante che quello non era un posto dove aspettarsi visite, almeno non visite rassicuranti, quindi dopo un attimo di esitazione dovuto un po’ al terrore, un po’ alla speranza di aver solo fatto un incubo e di essersi lasciato suggestionare troppo, roteò di scattò il busto, nella direzione da cui proveniva l’inquietante tocco, e ciò che vide lo sconvolse. 
  
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