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Autore: unknown_girl    14/02/2012    2 recensioni
[...] Pronunciò quella frase osservando il paesaggio umido fuori dalla finestra. Il vetro appannato rendeva indefiniti i contorni delle auto e delle case all’esterno. I pochi suoni che si percepivano, il motore di un autobus, il gracchiare di un corvo solitario o lo sgocciolio delle tettoie, erano resi ancora più ovattati dal silenzio dell’alba inoltrata.
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Genere: Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Francia/Francis Bonnefoy, Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Andata com’era andata, avrebbe tirato le somme di quel Natale più tardi, magari in un momento di maggior riposo e lucidità mentale visto che erano stati due giorni particolarmente intensi: appena dopo la dipartita del francese la mattina della vigilia, era stato anche per lui il momento di tornare a casa; aveva rivisto suo fratello William e i gemelli Tomas e Ryan.

William gli era sembrato quasi invecchiato, tanto era che non lo vedeva, ma forse era solo l’effetto del suo nuovo taglio di barba, lasciata crescere ad arte più folta sul mento e via via più rasata ai lati del viso. Gli donava, indubbiamente, ma per tutto il tempo in cui restò ad osservarlo non poté fare a meno di domandarsi se la sua nuova ragazza avesse gradito quel nuovo look così maturo. I gemelli, al contrario, sembravano aver trascorso un periodo di ibernazione, non alterando minimamente nessuna delle loro caratteristiche fisiche; gli sembrava un intervallo così breve quello che li aveva separati, e invece l’ultima volta che li aveva visti era stato tra fine luglio e inizio agosto, per le vacanze estive.

Inutile poi raccontare di come gli occhi della madre si fossero improvvisamente illuminati quando aveva varcato la soglia di ingresso ancora con l’impermeabile sgocciolante. Non era certo un segreto nella famiglia Kirkland che fosse lui, Arthur, il preferito della signora e che avesse un debole particolare per quello che era il minore dei suoi figli. Nonostante fosse stato il padre ad aprirgli la porta e ad accoglierlo, la donna era stata la prima ad abbracciarlo e a baciarlo sulle guance, scusandosi come sempre per avergli lasciato delle tracce di rossetto sul viso. Aveva incontrato di nuovo il suo profumo di agrumi dopo tanto tempo, e l’aveva trovata ancora una volta più bella che mai, con quei capelli castano chiaro uniti sulla nuca che lasciavano ricadere solo qualche ciocca dalla forma ricurva lungo il viso sottile. Probabilmente rappresentava un suo piccolo e segreto capriccio infantile, ma amava lasciarsi viziare un po’ e ricevere il più attenzioni possibile dai suoi genitori in quelle occasioni di ricongiungimento. Era un po’ come tornare al piacere del focolare.

Persino rivedere i suoi fratelli era stata un’esperienza meno spiacevole di quel che ricordava. Non tanto per Tomas e Ryan –coi quali non aveva mai avuto grossi problemi– quanto per William, tendenzialmente più cinico e distaccato rispetto ai gemelli. In quell’occasione l’aveva invece accolto fin troppo calorosamente, standogli attaccato come un segugio e riempiendolo di domande inaspettate riguardo la sua vita, i suoi studi, la sua condizione lavorativa. Aveva persino portato un braccio intorno alla sua spalla per cingerlo ed avvicinarselo, come forse ormai si vede fare tra fratelli solo nei film. Un pranzo veloce e frugale era stata l’unica cosa che aveva permesso a William e al suo crescente interesse di placarsi. Per un attimo Arthur aveva avuto l’impressione che stesse come cercando di raccogliere informazioni per qualche scopo non ben identificato, ma per fortuna il concerto del pomeriggio lo distrasse da questo pensiero. Come aveva promesso il padre, avrebbe portato sua madre a vedere il concerto di Natale a St. Luke e ovviamente aveva ben pensato di coinvolgere anche i suoi ragazzi. Niente di meglio in quel momento avrebbe potuto rilassarlo: il suono ovattato dei corni, quello pieno dell’organo e quello leggermente nasale degli oboi, insieme a tutti gli altri strumenti e alle splendide voci del coro, contribuirono a sollevargli lo spirito, rinfrancandolo da un peso interiore che non riuscì bene a descrivere a se stesso. Riconobbe solo che nel momento in cui venne intonato il suo brano natalizio preferito, O Come All Ye Faithful, esso si sciolse come neve al sole.

La serata si concluse quindi come nella migliore delle tradizioni, con una cena degna della vigilia e l’apertura dei regali a mezzanotte. Fu solo quando incontrò il lenzuolo freddo e ormai inodore del suo letto si ricordò del lascito di inospitalità che ancora possedeva quella casa, e non riuscì ad addormentarsi prima di un paio d’ore. La giornata di Natale sarebbe trascorsa più o meno allo stesso modo della vigilia se non fosse stato per l’ennesimo tentativo –stavolta non solo dei genitori, ma addirittura anche del fratello William– di tirare nuovamente in ballo Barclay e il suo “desiderio” di ricongiungersi a lui. Era solito utilizzare in quelle occasioni uno sguardo completamente inespressivo o quasi, e limitarsi più che altro ad ascoltare: senza obiezioni le parole degli interlocutori si sarebbero sicuramente esaurite più velocemente; era stato quello, indubbiamente, il momento di maggiore noia nella sua breve permanenza a casa. Nonostante ripetesse ad ogni proposta che non era interessato, le argomentazioni sembravano rigenerarsi continuamente come dalle ceneri di una fenice; non era abituato a vederli insistere tanto, suo fratello poi…sembrava stesse diventando una cosa seria. Se non altro se l’era cavata per il rotto della cuffia quando William era dovuto partire per andare a pranzo dai genitori della propria fidanzata e con l’occasione si era interrotto l’argomento. Certo, questo non gli aveva comunque permesso di eliminare quel sapore amaro dalla bocca che perdurò anche durante il pranzo di Natale e ben oltre.

In definitiva aveva lasciato quella casa con maggiore scetticismo di quando ci era entrato, sentendosi infastidito e preso in giro per l’ennesima volta, desiderando fortemente solo il piccolo salone del suo modesto appartamento solitario e silenzioso, ma se non altro suo e suo soltanto: dopo aver dormito male anche la seconda notte, frastornato da tutti quei pensieri, e aver salutato distrattamente i genitori la mattina del ventisei, decise di tornare a casa esclusivamente a piedi; una lunga passeggiata lo avrebbe forse aiutato a distrarsi, anche se non era nemmeno certo che fosse distrarsi quello di cui avesse bisogno. Alla fine era giunto nel suo quartiere dopo l’ora di pranzo e si era messo a pensare che probabilmente alla stessa tavola dove aveva mangiato coi suoi per quegli ultimi due giorni era in quel momento seduto suo fratello maggiore Barclay, tornato a Londra dai genitori per le feste. Che strana sensazione pensare che per quelle poche ore si trovassero a poche miglia di distanza l’uno dall’altra.

Eppure ritrovare quelle pareti strette e scure, unite ai suoi post-it personali, gli allentarono così tanto la tensione che crollò dopo pochi minuti sul divano del salotto, in un sonno profondo. Si risvegliò solo nel tardo pomeriggio, profondamente infastidito dalle vibrazioni del cellulare a cui era piuttosto sensibile. Nell’allungarsi per afferrarlo, lì sul tavolino che si trovava tra la tv e il divano, fece anche cadere qualche foglio e soprammobile poggiati su di esso. I suoi occhi erano ancora semi-sbarrati e non riusciva a identificare bene il nome di colui che lo stava probabilmente chiamando in quel momento; gli ci volle così tanto per mettere a fuoco quello che c’era scritto che prima che potesse rispondere la chiamata terminò. Sbuffò sonoramente e reclinò la nuca sul bracciolo del divano, aspettando di raggiungere un livello di coscienza sufficiente da consentirgli perlomeno di rispondere al telefono. Attese qualche minuto, e nel riprendere il cellulare per visualizzarne lo schermo riuscì infine a distinguere chiaramente ben due messaggi e tre chiamate perse. Non pensava di aver dormito tanto. Controllò i messaggi, entrambi da parte di Francis.

Ecco cosa si era dimenticato, il coinquilino rospo che tornava da Parigi! Il contenuto dei messaggi era più o meno lo stesso, solo mandati a distanza di un’oretta circa, e lo avvertiva che sarebbe giunto a breve in stazione e da lì avrebbe preso i mezzi disponibili per giungere all’appartamento. Per educazione, gli chiedeva conferma che andasse tutto bene e che potesse tornare senza che lo disturbasse o che magari stesse fuori casa. Dopo essersi rivolto un paio di vigorosi insulti, l’inglese compose il numero dell’amico e lo chiamò lui stesso. Attese per qualche secondo, poi la voce squillante dell’altro gli risuonò nel timpano.

- Arthur, se riposavi mi spiace averti svegliato. – Il ragazzo ancora sdraiato sul divano rimase a bocca socchiusa, leggermente sorpreso. – Come sai ch- no che non dormivo comunque.. – Disse con voce rauca e impastata, trattenendo uno sbadiglio. – Ahahah, lo sapevo! Je suis désolé.⁽¹⁾ – La risposta del britannico, più suscettibile del solito, assomigliò ad un ringhio. – Ho detto che non dormivo! Dove sei tu? Stai arrivando? – Domandò strizzando gli occhi qualche volta e tirando su la schiena dal divano, non senza qualche difficoltà. La voce del francese continuava a profondersi serena e musicale attraverso il microfono del cellulare, nonostante la scortesia gratuita dell’interlocutore. – Sì, sono davanti alla tua porta di casa. – Arthur scosse leggermente il capo per spostarsi dagli occhi alcuni ciuffi scomposti della frangetta. Riflettendo sulle parole che aveva appena ascoltato assottigliò ancora una volta lo sguardo per poi voltarsi e sporgersi col corpo in direzione dell’ingresso. – Sei qui? Sei arrivato adesso, allora? – Si alzò a fatica, camminando a passi pesanti verso la soglia di casa, afferrandone la maniglia che tuttavia gli scivolò un paio di volte prima di riuscire ad impugnarla correttamente. Aprì con uno scatto spazientito la porta di legno e lo vide lì, in piedi sull’uscio con il cellulare in una mano, vicino all’orecchio, e con l’altra che poggiava sul trolley al suo fianco.

- A dire il vero no. Sono qui seduto sui gradini di casa da quasi un’ora. – Continuava a parlare nell’apparecchio nonostante avesse l’altro proprio di fronte a sé, che lo fissava con aria sia assonnata che smarrita. E a sua volta l’inglese continuò a parlare con il cellulare ancora all’orecchio. – E perché non hai suonato, stupido? – I suoi occhi si assottigliarono ancora di più, scuotendo la testa in segno di incapacità di comprendere il comportamento dell’altro biondo. – Non potevo disturbarti. Non sapevo se fossi in casa o se fossi occupato in altro. Quindi ho aspettato che rispondessi al cellulare. – Gli sorrise Francis, trovando la cosa divertente. – Bè, alla fine hai risposto. – E con quell’ultima osservazione allontanò il cellulare dall’orecchio e lo chiuse, interrompendo la chiamata e limitandosi a parlare con lui faccia a faccia, in attesa che anche l’amico facesse altrettanto. Il più giovane abbandonò a sua volta il cellulare in una tasca dei pantaloni, e con un sospiro che non avrebbe saputo dire che significato avesse, si scostò leggermente da un lato mentre spalancava la porta per far entrare il ragazzo e la sua valigia.

– Grazie. – Rispose in un sussurro il francese dopo essere entrato nell’ingresso e aver ceduto alla tentazione di guardarsi un po’ intorno per vedere se non fosse cambiato qualcosa in quel grazioso appartamento che aveva lasciato per appena qualche giorno.

Quel che rimaneva della serata trascorse in grande pace e tranquillità, con Arthur e Francis che ebbero le forze di concedersi solo una breve chiacchierata prima di crollare nel sonno, entrambi stanchi per motivi diversi ma comprensibili. Il francese non ebbe alcun problema a riadattarsi al suo giaciglio –che aveva sempre trovato molto comodo, per essere un divano-letto– e in meno di un’ora aveva ceduto al tiepido abbraccio di Morfeo, lasciando la possibilità al suo padrone di casa di fare altrettanto e di ritirarsi nella propria stanza. L’epilogo fu praticamente lo stesso: si addormentò quasi subito, giusto il tempo di notare prima come la sua memoria del cellulare fosse carica di almeno tre nuovi messaggi da parte di Alfred; non fu una cosa lunga, li eliminò senza aprirli come sempre, senza alcuna traccia di esitazione, per poi godersi infine il meritato riposo, abbandonando la veglia di una notte che preannunciava neve.

 

Nonostante il prolungato riposo, quella mattina, quella del ventisette, Arthur si svegliò spossato, con un leggero ma costante cerchio alla testa. Erano le nove, eppure si sentiva come se avesse dormito appena poche ore; colpa dei troppi festeggiamenti, forse. Per questo motivo preferì iniziare la giornata con una rilassante doccia calda, cercando di scacciare un po’ di stanchezza, e dopo essersi asciugato e vestito scese di sotto per il suo tè mattutino, trovando Francis seduto sul divano già tutto rifatto e in ordine, intento a guardare un programma tv. – Buongiorno, Arthur! – Esclamò il francese voltandosi un attimo verso l’altro ragazzo che entrava in cucina. – ‘giorno. – Rispose l’inglese con un cenno sbrigativo della mano, domandandosi se il suo coinquilino non fosse in realtà un androide programmato per avere sempre lo stesso buon umore e la stessa energia. In confronto, lui assomigliava ad un letto sfatto, un po’ come suggeriva l’espressione del suo viso in quel momento, caratterizzata da degli occhi ancora assonnati e dalle labbra curvate verso il basso. Francis continuò a parlargli dal salone, abbassando il volume della televisione. – Ho scoperto una pasticceria francese poco lontano da qui stamattina. Ne ho approfittato per comprare delle brioche, perché non ci fai colazione? Te ne ho lasciata una nel fornetto così puoi scaldartela. – Il ragazzo nella cucina si avvicinò al piccolo elettrodomestico, riflettendo sul fatto che non avrebbe mai pensato potesse esistere un negozio del genere a Londra.

– Pasticceria francese? – Domandò in parte ironico, in parte incuriosito, mentre apriva lo sportello del microonde, scrutando con leggero sospetto la brioche poggiata all’interno. Poi tornò su con la schiena, aggiungendo: – Grazie, allora. Adesso sento com’è. – E impostò il timer per riscaldarsi la colazione mentre Francis, dal salone, sorrise senza aggiungere altro e rialzò di poco il volume. Arthur nell’attesa si preparò anche il tè, abbondando nella quantità di foglie per ottenere una tazza più piena del solito: quella mattina ne aveva davvero bisogno. In pochi minuti poté godersi la propria colazione, in piedi, appoggiato su di un fianco al piano della cucina mentre con lo sguardo osservava i timidi raggi solari che dalle tende della portafinestra filtravano, donando all’ambiente un colorito pallido. – Allora? Com’è? – Domandò l’altro giovane, che aveva sentito Arthur tirar fuori dal fornetto il suo piccolo omaggio dalla madrepatria. L’inglese masticò con calma la sfoglia calda, trovandola molto gustosa, addirittura squisita, e pensò tra sé al modo meno entusiasta possibile di rispondere a quella domanda. – Mh, non male. Diciamo che si può fare. –

La risposta non stupì il francese, il quale anzi da molto tempo aveva imparato che l’orgoglioso inglesino non gli avrebbe facilmente regalato complimenti in campo gastronomico, nonostante fosse certo che apprezzasse le sue specialità. Arthur fece appena in tempo ad ingoiare l’ultimo pezzo di quella colazione e a bagnarsi le labbra con il tè che il campanello della porta risuonò fastidiosamente nell’appartamento. Il ragazzo nella cucina si bloccò un attimo, rimanendo nella sua posizione a pensare chi diavolo potesse essere in quel giorno e a quell’ora; forse un pacco, una raccomandata? Francis però fu più celere, e mentre si alzava dal divano si rivolse all’amico: – Tu finisci la tua colazione, vado io! –

Per forza di cose il più giovane non ebbe il tempo di replicare e pertanto decise di rimanere lì a sorseggiare il suo tè caldo, sperando non ci fosse bisogno di lui alla porta. Il francese invece, dopo essere arrivato in pochi secondi all’entrata, diede un’occhiata attraverso lo spioncino della porta, notando un ragazzo con un grosso zaino o forse una valigia, questo non gli risultò molto chiaro. Probabilmente era uno di quelli del volantinaggio, o forse un promoter. Fatto stava che non sapendo se Arthur si sarebbe limitato a cacciarlo via o ad aprirgli preferì spalancare la porta con uno dei suoi soliti sorrisi per sentire almeno chi fosse e cosa volesse. Al massimo si sarebbe beccato una sgridata.

– Sì? – Domandò in tono ascendente, dondolando inconsciamente sul posto mentre restava in attesa di una risposta. Ma quella che ricevé fu una reazione del tutto inaspettata, se non smisurata.

- O mio Dio! – Il giovane ragazzo alla porta portò in un gesto celere quanto disperato entrambe le mani sulla testa, tra i capelli, facendo cadere senza cura un marsupio che prima teneva in mano.

Il francese si ritrovò spiazzato, ritirandosi istintivamente di un passo indietro, un po’ intimorito. Quel giovane non avrà avuto più di venticinque anni, ne era certo, e dall’abbigliamento sembrava uno sportivo. Anche se, certo, gli occhiali che portava leggermente bassi sul naso e il taglio dei capelli –di un colore a metà tra il biondo grano e il biondo miele– che lasciava in evidenza una leggera vertigine culminante in un ciuffo spesso, piuttosto sporgente, suggerivano al ragazzo un’aria lontanamente nerd. Forse perché si era concentrato troppo sul suo aspetto, o forse perché era ancora sulla difensiva, il francese non riuscì a spiccicare parola in quei primi secondi; pertanto, il ragazzone continuò nella sua inspiegabile e incomprensibile tragedia greca, somigliando sempre più a un tossicomane in crisi d’astinenza. – Oddio, oddio, oddio! Ha addirittura cambiato appartamento? E ora come faccio?! Non pensavo arrivasse a tanto! Cavolo, mi odia davvero! Magari è fuggito quando gli ho detto che venivo qui a Londra oppure…o cacchio, devo chiamare Katherine..⁽²⁾ – Lasciò i capelli dalla presa e si mise a frugare febbrilmente nelle tasche in cerca di qualcosa, forse del cellulare, mentre sembrava aver completamente dimenticato che c’era una persona sulla soglia di casa che gli aveva aperto e chiesto chi fosse, cosa volesse. Sembrò ricordarsene solo quando ebbe finalmente il cellulare tra le mani, sporgendosi col viso verso il francese ancora basito e confuso, domandando: – Quando se n’è andato? Ti ha per caso accennato dove si trasferiva? Sai se ha lasciato qualcosa? Magari ho la speranza che torni a prendersela almeno.. –

- Cos-? – Francis necessitò di qualche secondo per mettere insieme le idee in mezzo a tutta quella confusione: era in dubbio se definirlo del tutto squilibrato o semplicemente molto confuso, forse per colpa di un indirizzo sbagliato…o forse perché cercava qualcun altro? In effetti quella non era casa sua, avrebbe dovuto essere chiaro su questo. – Mi perdoni, questo è il numero quindici…se è sicuro di non aver sbagliato indirizzo forse cercava..ehm, Arthur? Si riferiva a lui per caso? – Domandò timidamente ma al tempo stesso in tono gentile, mentre l’espressione dell’altro cambiò completamente al sentir pronunciare il nome del padrone di casa: alzò immediatamente gli occhi dallo schermo dell’apparente costoso telefono e rimase per qualche secondo a bocca aperta, come se stesse cercando di impastare le parole. – Sì! Sì, cioè, Arthur Kirkland! Abita ancora qui? Dov’è? Che ti ha detto? E tu chi sei poi? – Francis si guardò per un attimo indietro, cercando l’aiuto dell’amico probabilmente ancora in cucina, e non trovandolo tornò con gli occhi sullo sconosciuto alla porta. – Io sono Francis, e Arthur mi ha semplicemente offerto ospitalità per qualche tempo. – Stava continuando nella spiegazione, quando però la voce dell’inglese che si avvicinava lo distrasse, facendolo nuovamente voltare all’indietro. – Chi è? Perché sento tutto questo chiasso? – Domandò Arthur mentre usciva dalla cucina e si sporgeva verso l’ingresso per controllare cosa accadesse.

- Arthur? – Domandò tra sé il giovane alla porta, salendo il gradino che lo distanziava dall’uscio della porta, introducendosi senza troppa discrezione dentro casa. il biondo col pizzetto si fece da un lato, aprendo del tutto la porta per farlo entrare dato che aveva ormai compreso che a quanto pareva i due si conoscevano; o perlomeno, il ragazzone conosceva senz’altro Arthur. Osservò l’avanzare del misterioso personaggio, la vista del quale fece a dir poco impallidire il britannico che era riuscito a fare appena pochi passi nel salone per dirigersi all’ingresso. Sembrava completamente sgomento, come se fosse l’ultima persona sulla faccia della terra a pensare potesse apparirgli di fronte –e in effetti era così-; anche se distante, il francese poté scorgere il dilatarsi degli occhi dell’amico e la schiusa delle sue labbra, elementi che gli donarono un’espressione turbata, se non sconvolta; il suo corpo sembrava completamente rigido, avendo interrotto ogni sorta di movimento spontaneo. Si insinuò in lui il sospetto che avesse fatto male a lasciarlo entrare.

- …Alfred? – Domandò Arthur senza scostare gli occhi dal ragazzo, con un filo di voce. Francis si limitò ad osservare prima l’uno e poi l’altro, sentendosi improvvisamente di troppo e senza la minima idea di cosa dire o fare. Ma quell’imbarazzante silenzio durò poco visto che con uno slancio inaspettato il giovane biondo con gli occhiali balzò il gradino del salone e si gettò sull’inglese, gridando il suo nome prima di chinarsi su di lui e stringerlo con una forza che poche altre volte aveva visto sfoderare. Le sue braccia lo avvolsero completamente, stringendosi intorno alla schiena, all’altezza della vita, e dopo un impercettibile chinarsi verso il basso tornò su, in posizione completamente eretta, portandosi dietro Arthur, il quale pertanto si ritrovò sollevato da terra come un peso piuma dato che il robusto ragazzo sembrava non risentirne del minimo sforzo. Una cosa era certa però: l’inglese non dava minimamente l’idea di aver gradito quel gesto affrettato e forse indelicato, e Francis non poté fare a meno di notare quanto scalciasse per cercare di svincolarsi dalle sue braccia e scendere da lì.

- Mettimi giù, imbecille! Non toccarmi! Mollami, maledizione! – Si opponeva con queste e molte altre imprecazioni all’appiccicume del ragazzo che invece proprio non ne voleva sapere di staccarsi anzi, piuttosto, era impegnato a chiamarlo ancora per nome –senza ricevere alcuna risposta pacifica da parte dell’altro– e a strofinarsi contro di lui con fare infantile.

Possibile quindi fosse lui quell’Alfred di cui gli aveva parlato Arthur? Le conclusioni sembravano non poter essere altrimenti: sembravano intimi, almeno in una confidenza tale da poter permettere all’inglese di dare dell’imbecille all’altro senza il minimo problema, e Alfred sembrava essere giunto proprio per lui, per cercarlo. Facendo due più due il biondo col pizzetto pensò che non potesse essere altrimenti: evidentemente quello era il famoso Alfred F. Jones, il miglior amico di Arthur Kirkland. E da quanto il britannico sembrava arrabbiato e irritato nell’incontrarlo, di certo ogni dubbio veniva meno: era senz’altro lui, l’Alfred che gli aveva candidamente dato buca per le vacanze di Natale di quell’anno. Almeno, questo era quanto gli aveva confessato il suo coinquilino.

Forse poteva sembrare scortese in quel momento, ma alla vista dell’inglese che veniva sollevato senza sforzo da quella montagna di ragazzo Francis non resisté e si lasciò andare ad una tiepida risata, cercando di nascondersi dietro il palmo di una mano; lo trovava buffo. Intanto sarebbe stato meglio portare dentro le borse e la valigia dell’altro: si prospettava una lunga e impegnativa giornata.

 

⁽¹⁾ “Mi spiace”, in francese.

⁽²⁾ Il nome della madre di Arthur, puramente di fantasia.

   
 
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