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Autore: Brin    16/02/2012    1 recensioni
Non si può restare a guardare quando una mano sconosciuta porta via ciò che di più caro hai al mondo: questo è quanto Sari Kalabis sperimenta sulla propria pelle nel momento in cui uno dei pilastri della sua vita le viene strappato per sempre.
Non sa, però, che il desiderio di sapere perché la porterà su strade pericolose, lastricate di interessi a cui non dovrebbe avvicinarsi. Verso i sotterranei di un carcere da cui non si può uscire, nella pancia di un incubo folle e delirante che non dovrebbe esistere.
Genere: Fantasy, Mistero, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 2

DIBATTUTA



*



Il suono del campanello fece sussultare Sari, che guardò Amaya emozionata. L’elfa intuì subito che cosa volessero comunicarle gli occhi dell’amica, senza bisogno che lei glielo dicesse. Sapeva bene che per Sari quello era un giorno importante, che aveva aspettato da molto tempo.
Aveva sempre avuto una specie di venerazione per il padre, Amaya lo sapeva bene. Aveva passato assieme a Sari l’infanzia, l’adolescenza e gli anni successivi lavorando fianco a fianco con lei, e aveva imparato a conoscere il profondo legame che univa il padre e la figlia. Vederla così emozionata la fece sorridere.
Emma Kalabis, la madre di Sari, si affacciò dalla cucina con un grembiule legato in vita e le mani unte di grasso. Indicò la porta con un cenno della testa.
«Sari, vai tu ad aprire per favore? Io ho la carne sul fuoco.»
La ragazza annuì correndo verso la porta, e lui era lì, davanti all’entrata: suo padre era tornato, e le stava sorridendo con dolcezza. Gli gettò le braccia al collo, felice come non era mai stata. Era bello respirare quell’odore familiare, circondata da quelle braccia conosciute che da molto tempo non l’avevano stretta. Non avrebbe potuto esserci regalo più bello.
«Bentornato papà.»
«Grazie Sari» Adrian la baciò in fronte e l’allontanò da sé. La squadrò da testa a piedi, fiero e allo stesso tempo sorpreso. «Come sei cambiata! Sei diventata splendida!»
Sari sospirò fingendosi annoiata da quei complimenti, ma non riuscì a reprimere un sorriso felice. Amaya raggiunse l’uscita con il cappotto in mano, pronta a togliere il disturbo, ma Adrian la fermò all’istante per salutarla.
In quel momento, non più concentrata su suo padre, Sari si accorse di lui.
Un ragazzo giovane -che all’apparenza doveva avere circa la sua età- se ne stava in disparte, con le mani sprofondate in un lungo e caldo cappotto nero. I suoi occhi azzurri, di un colore così freddo da ricordare quello del ghiaccio, la stavano guardando con un misto di interesse e curiosità che mise Sari un po’ a disagio. Aveva i capelli neri, perfettamente pettinati in modo da non permettere neppure a una ciocca di cadere sul viso. Era piuttosto carino, ma l’ostinazione con cui la fissava faceva passare quel giudizio in secondo piano. Non sembrava intenzionato a desistere, e la cosa urtava Sari.
Si accigliò, infastidita.
«E tu chi sei?»
Adrian intervenne all’istante.
«Sari, perdonami per non averti presentato il mio assistente: si chiama Shem Gaynor, ed è uno dei miei indispensabili collaboratori ad Artika» le spiegò con un sorriso che Sari non ricambiò. Non riusciva a capire che cosa ci facesse lì quel ragazzo. Il motivo per cui suo padre l’aveva portato alla festa di compleanno della moglie per lei rimaneva un mistero: Shem non era di famiglia. Non era nulla di più di un semplice estraneo. La sua risposta fu lapidaria.
«Ah.»
Adrian sorrise. Aveva intuito quello che stava pensando Sari. Conosceva bene quell’atteggiamento difensivo, e sapeva che non avrebbe mai gettato le armi, almeno non prima di un lungo assedio.
«Ho voluto invitare Shem qui da noi per qualche giorno. Sai, lui non ha mai visto la capitale e potrebbe essere un’occasione per fargliela conoscere, no? Magari potresti accompagnarlo tu.»
Sari rimase senza parole. Guardò suo padre come se fosse un fantasma. La parte del suo cervello che ancora riusciva a elaborare qualche pensiero nonostante la sorpresa, cercò qualche segnale sul viso di Adrian che suggerisse che stesse scherzando. Quando si accorse che suo padre era serio, dovette capitolare.
«Vedremo papà. Sai, per me questi non sono giorni di ferie.»
La risposta cadde nel nulla. Adrian si limitò ad annuire e Shem, ancora in disparte, fece semplicemente finta di niente. Fu Amaya a interrompere quel silenzio quasi imbarazzante.
«Signor Kalabis, io devo andare. È stato un piacere rivederla.»
«Rimani a mangiare, Amaya! Ormai sei di casa qui, e poi dal momento che c’è Shem non vedo perché tu non possa stare insieme a noi, no?»
Amaya guardò Sari, cercando il suo consenso. Aveva il timore di essere di troppo, ma lo sguardo supplichevole dell’amica la convinse. Dalla cucina provenne un rumore di pentole rovesciate, e Adrian cercò di spiare verso la fonte del rumore, preoccupato.
«Tutto bene Emma?»
«Sí, mi sono solo cadute delle pentole. Comunque non c’è problema se Amaya rimane.»
Sari guardò l’amica trionfante. Non poteva non accettare, e l’idea di avere un’alleata la sollevava. Forse sopportare la presenza di uno sconosciuto sarebbe stato più semplice, con Amaya al suo fianco.


*


«Allora Shem, tu di che cosa ti occupi?» domandò Emma intingendo il cucchiaio nella minestra. Il ragazzo, dall’altra parte del tavolo, sollevò lo sguardo dal pane che stava spezzando.
«Aiuto suo marito nella conduzione del reparto di psicologia e psichiatria del carcere.»
Sorrideva cordialmente mentre parlava. Quando non conversava con qualcuno o non doveva prestare attenzione al cibo, però, non faceva altro che guardare Sari con insistenza, e questo dava parecchio fastidio alla psicologa. Cercava di sembrare naturale, ma ogni volta che sorprendeva Shem a osservarla avrebbe voluto gridargli di smetterla.
«Quanti reparti ci sono ad Artika?» sua madre domandò di nuovo.
«Due. Per farla breve, in uno vengono rinchiusi i criminali con disturbi psichiatrici, e nell’altro quelli sani. Non penso sia difficile intuire in quale dei due io e Adrian lavoriamo…»
La signora Kalabis annuì con un sorriso, tornando a dedicarsi alla minestra. Shem riempì il cucchiaio, e quando sollevò lo sguardo cercò subito Sari. La ragazza diede un colpetto alla caviglia di Amaya e quando l’elfa la guardò, Sari le lanciò uno sguardo esasperato. Non ne poteva più. Ancora poco e sarebbe esplosa.
«E così, Adrian ti è molto affezionato...» Emma ruppe il silenzio. Sari guardò con terrore sua madre sorridere a Shem e lui ricambiare con cortesia.
«Questo deve chiederlo a suo marito, non a me.»
A Sari andò di traverso la minestra. La situazione stava prendendo una piega strana.
Era naturale che sua madre parlasse con lui, si disse, ma per quante volte lo ripetesse non riusciva a non sentirsi infastidita. Aveva un modo di fare che la metteva a disagio, oltre al fatto che si era intromesso in una questione privata. E dopo suo padre, anche sua madre lo stava prendendo in simpatia.
Forse proprio l’insistenza che aveva nel continuare a guardarla l’aveva salvata dal cadere nella sua rete. Poteva incantare i suoi genitori quanto voleva, ma con lei non funzionava. Nonostante i suoi movimenti eleganti e il magnetismo che sembrava emanare, Sari aveva fiutato in lui qualcosa di poco convincente, che la rendeva inquieta. Qualcosa che si ripresentò più volte nel corso della cena.
Sua madre non aveva fatto altro che rivolgergli domande per sapere di più su di lui, ma puntualmente Shem evitava di dare informazioni precise. E lo faceva con una abilità che forse soltanto lei aveva colto.
Aveva detto di non avere una famiglia: classica scusa, sentita più e più volte.
Aveva detto di essere arrivato ad Artika da due mesi: strano che il rapporto del ragazzo con suo padre fosse diventato così forte in così poco tempo.
Era più che legittimo che tra colleghi si formassero dei legami affettivi lavorando ogni giorno fianco a fianco, ma il loro sembrava essere davvero forte. Due mesi erano troppo pochi, non di certo sufficienti per instaurare rapporti tali da giustificare quello che aveva fatto suo padre. Portare una persona conosciuta da così poco tempo a una cena di famiglia era eccessivo.
Lui non era suo figlio.
Stava iniziando ad alterarsi, lo sentiva. Sentiva la rabbia iniziare a scorrerle nelle vene, e la sensazione non le piacque affatto. Detestava l’idea di rovinare una serata come quella a causa del suo stato d’animo, ma non riusciva a evitarlo. Era gelosa.
Sgattaiolò fuori per prendere una boccata d’aria fresca, approfittando dell’attesa del dolce. Sperava di riuscire a calmarsi. Sapeva che il modo in cui si stava comportando era da bambina, e una parte di se stessa provava vergogna per questo. L’aria pungente della sera le solleticò piacevolmente il viso, e l’inquietudine che le assediava il cuor sembrò calmarsi. Sentì dei passi familiari alle sue spalle, e Sari riconobbe subito la persona dietro di lei senza neppure aver bisogno di voltarsi.
«Sari, tesoro...»
«Dimmi.»
Suo padre sospirò. Voleva dirle qualcosa d’importante, ne era sicura.
«Non voglio che questa serata sia fonte di dolore per te.»
«Non è così» Sari rispose velocemente, forse troppo. Era stata poco convincente, e per riuscire a mentire a quell’uomo doveva fare molto meglio di così. Adrian non rispose. Sfilò un pacchetto di sigarette dalla tasca dei pantaloni, offrendolo alla figlia.
«Ne vuoi una?»
«Lo sai che non fumo.»
Adrian sorrise. Trattenne la sigaretta delicatamente tra le labbra, e l’accese dopo aver riposto il pacchetto.
«Sei sempre stata saggia. Io invece non riesco a smettere, anche se so che dovrei.»
Sari non rispose. L’uomo accolse il silenzio della figlia, e capì che era il momento giusto per chiarire le cose.
«Si tratta di Shem, vero?»
«Perché l’hai portato qui?»
Adrian aspirò una boccata di fumo. Sorrise.
«Sari, non c’è motivo di essere gelosa. Gli sono molto affezionato, ma mia figlia sei tu. Volevo fartelo conoscere, tutto qui.»
«Perché?»
«Beh, ecco... Lui è un ottimo ragazzo. Gentile, premuroso, con la testa sulle spalle. Non come quella gente con cui te ne andavi in giro un po’ di tempo fa.»
«Ormai è acqua passata, e lo sai!» Sari sbottò seccata, alzando gli occhi al cielo.
«Lui sembra molto interessato a te, ma forse non te ne sei neppure resa conto.»
Sari rimase a fissare Adrian, interdetta. Ora era tutto più chiaro. Suo padre voleva trovarle un ragazzo, e la sua scelta era ricaduta sul suo pupillo. La sola idea le fece venire i brividi lungo la schiena.
«Io non ho nessuna intenzione di prendere anche solo in considerazione l’idea di mettermi con uno sconosciuto, papà! In particolar modo con uno che sembra un…» si interruppe all’improvviso non appena si rese conto di essere a un passo dal dare del maniaco a Shem. L’ultima cosa che desiderava era ferire i sentimenti di suo padre. Si limitò a respirare profondamente, nel tentativo di calmarsi. Quando sentì la porta aprirsi e vide Adrian sorridere, capì subito chi fosse uscito. Si voltò e incrociò lo sguardo di Shem, che se ne stava sull’uscio a guardarli.
Pregò con tutta se stessa che non avesse colto neppure uno stralcio di quella conversazione, altrimenti sarebbe stata costretta ad affrontare una situazione piuttosto imbarazzante.
«Scusate se vi interrompo, ma c’è il dolce» annunciò il ragazzo indicando la casa. Non diede alcun segno di aver sentito di cosa stavano discutendo.
«Grazie Shem, arriviamo subito» annuì Adrian, invitando il collega a precederli. Sari lo guardò rientrare, in attesa. Aveva una vaga idea di ciò che voleva dirle suo padre. Incrociò le braccia al petto, pronta a riprendere la battaglia, ma lo sguardo sincero che ricevette demolì all’istante tutta la sua determinazione.
«Visto? È gentile. Vorrei che lo tenessi in considerazione, Sari. Almeno cerca di conoscerlo prima di giudicarlo, d’accordo?»
Sari sospirò, sconfitta. «Va bene.»
Quando ritornarono a tavola, tentò di sopportare gli sguardi insistenti di Shem nella speranza di far contento suo padre. Ma per quanto si impegnasse, quelle continue attenzioni la stavano facendo impazzire: cominciava a sentirsi soffocata dalla sfrontatezza del ragazzo.
Una forchettata, gli occhi sul piatto, la posata alla bocca, ed ecco che lo sguardo di Shem ritornava a immancabilmente su di lei. Per quanto tentasse di mantenere la calma e fare finta di nulla, Sari sentiva di essere molto vicina al limite.
All’improvviso, qualcosa in lei si spezzò. Non pensò neppure a quello che stava facendo.
Dopo l’ennesimo sguardo indesiderato, Sari si alzò sbattendo sul tavolo il tovagliolo che le copriva le gambe. Le parole erano già sulla lingua, pronte a uscire e a spargere il loro veleno, ma all’improvviso crollarono come un castello di carte aggredito dal vento: Shem le stava sorridendo.
Un sorriso dolce ma allo stesso tempo mellifluo, che la disarmò. Sari boccheggiò in cerca di qualcosa da dire, all’improvviso consapevole della pessima figura che aveva fatto. L’unica cosa che riuscì a dire furono delle scuse farfugliate sommessamente. Chiuse gli occhi concedendosi un breve istante per riprendersi, e decise che in quel momento la fuga era la soluzione migliore.
«Scusate... Devo andare in bagno.»
Fuggì su per le scale sentendosi avvampare per la vergogna, e ogni passo che la allontanava dalla sala da pranzo la faceva sentire sempre più in salvo. Si chiuse la porta alle spalle rumorosamente, senza preoccuparsi di farsi sentire, e nascose la testa tra le mani.
Non capiva cosa le stesse succedendo. Aveva perso il controllo come una ragazzina, e l’idea la faceva imbestialire. Era da tanto tempo che non le accadeva una cosa simile.
Ormai aveva ventiquattro anni, viveva da sola vicino alla capitale, aveva visto più cose di un demone, e aveva perso il controllo in maniera vergognosa. Tutto per colpa di quel ragazzo.
Shem la innervosiva. Inizialmente l’aveva preso in antipatia per una sorta di competizione dettata dalla gelosia, ma poi erano cominciati gli sguardi. Era insistente, sfacciato, e la faceva sentire a disagio. E la cosa che più la indisponeva, era che per Sari tutto questo era nuovo.
In passato aveva avuto un paio di appuntamenti che erano sempre terminati in una bolla di sapone, e nulla di più. Nessuno le aveva mai rivolto delle attenzioni così evidenti e sfrontate, e non sapeva come comportarsi. Senza contare che, doveva ammetterlo, Shem non era neppure brutto.
In circostanze diverse probabilmente avrebbe desiderato sapere di più sul suo passato, su chi fosse e su cosa facesse, ma Sari si ostinava a tenere le distanze. Non gli avrebbe permesso di sedurre anche lei. Non sarebbe caduta nella sua rete come aveva fatto suo padre e come stava facendo sua madre.
Quando bussarono alla porta, pregò che non fosse Adrian: l’ultima cosa che desiderava era dargli spiegazioni sul suo comportamento.
«Chi è?»
«Sari, posso entrare?»
Era Amaya. Tirò un sospiro di sollievo.
«Entra.»
Quando l’elfa fece capolino nel bagno, Sari notò subito il suo sguardo serio e risoluto. Capì all’istante che intendeva parlarle di qualche questione importante, probabilmente riguardante la sua performance nella sala da pranzo.
«Adesso devo andare via, per cui lascia che ti dica una cosa.»
Sari annuì cominciando a pensare a come ribattere di fronte a una richiesta di spiegazioni, ma le parole di Amaya furono del tutto inattese.
«Ho notato come ti guarda quel tizio. Non mi piace per niente.»
Sari rimase a guardare l’amica, stupita. Ridacchiò. L’idea di non essere la sola ad aver giudicato bizzarro il comportamento di Shem la sollevò.
«Lo so.»
«Stai attenta, ok?»
Sari smise di ridere. In quanto elfa, Amaya aveva un sesto senso che aveva fallito raramente: le permetteva di leggere dentro il cuore delle persone. Era caratteristica propria della sua razza riuscire a percepire la disposizione d’animo delle persone. Anni addietro, Amaya aveva tentato di spiegarle come faceva, ma ricordava solamente un discorso fatto di energie positive e negative, di capacità di cogliere i colori dell’anima, come li aveva chiamati l’elfa. Ma di una cosa Sari era sicura: se quella abilità suggeriva all’amica che in Shem ci fosse qualcosa di strano, allora con molta probabilità non si sbagliava.
Si chiese se sarebbe riuscita a rimanere fredda, indifferente. Finché si fosse limitato a guardarla non sussistevano preoccupazioni: il problema si sarebbe presentato nel caso in cui Shem avesse tentato di spingersi oltre. Pregò con tutta se stessa che non lo facesse.
Aveva la sensazione di averlo sottovalutato: fin’ora si era preoccupata delle sue insistenti attenzioni senza pensare a un eventuale contatto fisico. Era convinta che assumendo un atteggiamento distaccato lo avrebbe fatto desistere, ma non aveva mai considerato l’ipotesi che il ragazzo avrebbe potuto decidere di smettere di giocare e tentare un approccio più diretto. Questa possibilità la rese inquieta. Shem era bello, non poteva negarlo, e aveva l’impressione che lui fosse pienamente consapevole di questa sua qualità. Era sicura che lui sapesse quanto particolari fossero i suoi occhi, e che conoscesse bene l’effetto che facevano quando una ragazza li guardava. Shem era il tipo che sapeva come sfruttare le carte in suo possesso: era questa l’idea che si era fatta di lui, e la mise nel panico.
«Sari?»
L’umana guardò Amaya, che stava aspettando una risposta. Non si rese neppure conto di essersi persa nei propri pensieri lasciando a metà il discorso. Annuì, sforzandosi di sembrare convincente.
«Contaci.»
Accompagnò l’elfa fuori di casa, e il freddo la investì facendola rabbrividire. Tentò di abbracciarsi per scaldarsi, ma con scarsi risultati. La strada era deserta, e soltanto la luce dei lampioni illuminava la via. Quando guardò Amaya, capì che era ancora preoccupata.
«Non fidarti di lui, hai capito? Stai attenta, ricordatelo.»
Sari annuì, sorridendo.
«Stai tranquilla. Notte Amaya.»
L’elfa le indirizzò un cenno della mano in segno di saluto. Sari la guardò scendere lungo il vialetto e raggiungere la macchina nera parcheggiata sul marciapiede. Il motore si accese rombando, e Sari fece per rientrare soltanto quando l’auto cominciò ad allontanarsi. Ma non entrò.
Sull’uscio c’era Shem. Le si avvicinò con un sorriso luminoso e innocuo.
Sari rimase immobile, rigida come un pezzo di legno.
«La tua amica è carina.»
Il suo tono di voce era cordiale. Gentile.
Nella mente di Sari le parole di suo padre e di Amaya si avvicendavano senza sosta, e non sapeva a chi dare ascolto.
«Sí, è carina» approvò con fare poco naturale. Era nervosa, e non riusciva a nasconderlo.
Sentì improvvisamente lo sguardo di Shem su di lei, e ciò contribuì a renderla ancora più tesa. Il ragazzo indugiò prima di parlare. Sembrava che temesse ciò che le sue parole avrebbero potuto provocare.
«Per me sei più carina tu» mormorò allungando una mano verso il volto di Sari e alzandolo per cercare i suoi occhi. Il cuore di Sari cominciò a battere furiosamente, minacciando di uscire dal petto da un momento all’altro. La mente le gridava disperatamente di allontanarsi, ma le gambe sembravano paralizzate.
«Ti prego di scusarmi se ti ho spaventato con il mio atteggiamento. Vedi… non riesco a non guardarti. Sei così bella…» le sorrise accarezzandole la guancia. Sari non riuscì a pensare.
Ormai il cervello era totalmente scollegato dal resto del corpo, che faceva quello che voleva. E in quel momento, aveva deciso di rimanere immobile. Di farsi sfiorare da quel ragazzo e di farsi guardare da quegli occhi così chiari.
«Se adesso ti baciassi faresti una scenata come quella di prima?»
Sari non riuscì a rispondere. Se anche fosse riuscita a parlare, non avrebbe saputo cosa dire. Forse suo padre aveva ragione. Lo conosceva decisamente più di lei, che non aveva elementi per giudicarlo. Eppure non riusciva a non pensare a quello che aveva detto Amaya.
Shem dovette giudicare il suo silenzio come un segnale d’incoraggiamento.
«Mi picchieresti?»
In Sari la parte che urlava di fidarsi prevalse sull’altra.
Sorrise, e questa volta il ragazzo lo interpretò come un cenno d’assenso.
Posò entrambe le mani sul suo viso, e si chinò verso le sue labbra. Le sfiorò timidamente, come a voler chiedere l’ultimo permesso prima del bacio vero e proprio. E Sari non lo respinse.
Shem non ebbe bisogno d’altro: la baciò lentamente, con dolcezza. Fu un bacio al sapore di vino, delicato, a cui ne seguì un secondo. Un terzo. Un quarto.
Sari fu costretta a ritornare con i piedi per terra quando sentì la voce di sua madre chiamare il suo nome. E in quel momento si rese conto di cos’era successo.
Non l’aveva rifiutato. Aveva ceduto.
Aveva ricambiato il bacio.
Shem la stava guardando con un sorriso dolce che fece sentire Sari in colpa. L’aveva giudicato male, era stata prevenuta nei suoi confronti. Forse avrebbe potuto dargli una possibilità per conoscerlo davvero, e vedere in lui ciò che vi aveva visto Adrian.
«Ecco dov’eri!» la testa di Emma fece capolino dalla porta.
«Scusa, non ti avevo sentito» mentì.
«Potresti andare in camera tua a prendere la macchina fotografica, per favore? Tuo padre vorrebbe fare delle foto da tenere come ricordo.»
«Certo.»
Quando la signora Kalabis rientrò, Sari afferrò la mano di Shem. Stretta attorno alla sua, era grande e calda. Una sensazione piacevole.
«Ti va di accompagnarmi?»
Shem annuì, sempre sorridente. Quando salirono le scale e arrivarono al primo piano, Sari lo fermò.
«Aspettami qui, per favore. Mia madre usa quella che una volta era la mia stanza come se fosse un ripostiglio, ed è decisamente in disordine.»
Stava sorridendo mentre gli parlava, se ne accorse con terrore. Era la prima volta che sorrideva con tanta facilità a persone che conosceva da poche ore. Scosse il capo, stupita da se stessa mentre imboccava il corridoio.
Shem la guardò sparire dentro una stanza e improvvisamente il sorriso sul suo volto sparì. Non c’era motivo di sorridere quando lei non era in giro, soprattutto dal momento che cominciava a sentire le guance doloranti. Cominciava a essere stanco di tutta quella sceneggiata.
Non poteva fare a meno di chiedersi quando tutto questo sarebbe finito, anche se conosceva già la risposta: tutto dipendeva da quanto tempo avrebbe impiegato per trovare ciò che stava cercando.
E dopo rimaneva un’incognita.
Si guardò attorno: le case degli esseri umani erano decisamente noiose, tutte uguali.
Improvvisamente una porta aperta attirò la sua attenzione: lasciava intravedere un letto matrimoniale. Doveva essere la camera da letto di Kalabis e di sua moglie.
Lanciò un’occhiata furtiva alla stanza in cui era scomparsa la ragazza. La via era libera.
Entrò nella camera da letto dei due coniugi, dirigendosi verso un grande comò pieno di fotografie.
Ispezionò rapidamente il mobile: non c’erano altro che foto della famiglia e l’orologio da taschino che Adrian portava sempre con sé.
Decisamente non era quello che lui stava cercando.
Si voltò verso il letto, dov’erano appoggiate le valige.
Non poteva essere là dentro: se l’uomo l’avesse avuto con sé, sarebbe riuscito a trovarlo già da molto tempo. Si apprestò ad aprire i cassetti, ma una voce lo fece sussultare.
«Che cosa stai facendo?»
Si voltò. Il viso di Sari era serio, e il suo sguardo era un misto di confusione e diffidenza. Tra le mani stringeva la macchina fotografica.
Shem sorrise, cercando di apparire naturale.
«Mi era sembrato di vedere un’ombra attraversare la finestra. In questi tempi non si è mai troppo al sicuro. Sai, con i demoni...» le spiegò con naturalezza, ma si accorse che non doveva essere riuscito a convincerla del tutto. L’idea di essersi giocato la fiducia della ragazza non lo preoccupò più di tanto. In fin dei conti era soltanto una copertura.
«So che cosa stanno facendo i demoni» lo guardò con sospetto.
Il ragazzo le sorrise. Il suo solito sorriso angelico, quello che Sari stava iniziando a non sopportare più.
Questo qui è tutto tranne che angelico.
Se pensava di aver trovato i soliti polli da spennare, si sbagliava di grosso. Se voleva ripulire la casa sarebbe dovuto passare prima sul suo cadavere.
«Andiamo giù» mormorò invitandolo a uscire dalla stanza, seguendolo non appena Shem uscì.


*



ANGOLO DELL'AUTRICE

Con questo capitolo inizia la storia vera e propria.
Ciò che avete letto finora è un antipasto naturalmente, ma vi posso assicurare che da ora sarà un crescendo. Mi risparmio commenti sul contenuto del capitolo, preferisco sentire le vostre congetture :P
Vi ricordo che potete trovarmi su facebook e sul gruppo facebook dedicato alle mie storie. Detto questo, l'appuntamento è per giovedì prossimo con il quarto capitolo, dal titolo Guardare la morte in faccia.
Un saluto

Brin


   
 
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